Le elezioni per il rinnovo della Camera dei Comuni, branca elettiva del Parlamento britannico insieme alla non-elettiva Camera dei Lord, avrebbero dovuto tenersi entro e non oltre i primi del 2025 conformemente alla legge del 2011 che fissa il termine massimo di ogni legislatura. Tuttavia, Rishi Sunak, Primo ministro dal 2022, ha usato le proprie prerogative per sciogliere le camere con alcuni mesi in anticipo seguendo un tatticismo che è rimasto oscuro ai più. Dopo gli scandali relativi alla gestione della pandemia e di alcuni contratti per forniture sanitarie, i consensi del Partito conservatore, al governo dal Regno Unito dal maggio 2010, sono crollati e né il breve governo dell’iperliberista Liz Truss né quello del più pacato Sunak hanno galvanizzato l’elettorato il voto dei suoi elettori, che è rimasto costantemente sotto il 30% nei sondaggi per quasi due anni. Il tutto si è tradotto in risultati estremamente deludenti alle recenti elezioni amministrative e soprattutto alle elezioni politiche del 4 luglio, dove i laburisti hanno ottenuto una maggioranza schiacciante di seggi e i conservatori hanno raccolto uno dei peggiori risultati della loro storia. Tuttavia, l’esito di questa tornata elettorale offre spunti sui cambiamenti in corso nella politica britannica, oltre alla scontata alternanza tra conservatori e laburisti. Il risultato delle elezioni nasconde nelle sue pieghe contraddizioni e potenziali scenari di uno stravolgimento della politica partitica del Regno Unito per come l’abbiamo conosciuta nell’ultimo secolo.
La frammentazione a destra e a sinistra
Alle precedenti elezioni, nel 2019, era parso che la stagione del multipolarismo, avviata un decennio prima, fosse ormai conclusa, con la campagna monopolizzata dallo scontro tra laburisti e conservatori che nelle urne avrebbero catalizzato circa tre quarti dei voti complessivi. Con il modello maggioritario uninominale a turno unico ancora in vigore, nessuno durante la campagna avrebbe messo in dubbio che i laburisti sarebbero usciti dalla consultazione elettorale con una maggioranza assoluta dei seggi, visto il confronto con un avversario in caduta libera nei sondaggi. Tuttavia, la breve campagna elettorale ha fornito alcune sorprese, soprattutto a destra, dove il redivivo Nigel Farage, ex segretario del partito nazionalista UKIP e istrione della campagna per l’uscita dalla Ue nel 2016, annunciando la propria candidatura per l’ottava volta al Parlamento con il partito Reform UK, ha rubato la scena ai Tories, dettando loro la linea. Reform UK è l’ennesima formazione di estrema destra succeduta a UKIP dopo il 2016, che tra i propri punti programmatici annovera l’abbassamento delle tasse alle fasce più agiate, la riduzione dei flussi migratori, l’opposizione alle politiche di sostenibilità ambientale, l’ingresso dei privati nell’NHS (Servizio sanitario pubblico), il tutto condito con retorica nazionalista e patriottarda. Nella campagna elettorale Farage si è trovato la strada spianata dai conservatori, che negli ultimi dieci anni hanno attinto alla retorica contro gli stranieri a più riprese e che negli ultimi anni avevano espresso politiche estremamente ostili verso gli immigrati, in particolare verso le poche migliaia di rifugiati che attraversano la Manica con mezzi di fortuna; l’accordo siglato con il Rwanda per deportarvi parte dei richiedenti asilo (che ha ispirato l’accordo del Governo italiano con l’Albania), i bracci di ferro con la magistratura sulle deportazioni e i reiterati proclami di valutare l’abbandono della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sono stati alcuni dei punti programmatici di questa politica ostile. Stimato intorno al 11% nei sondaggi di opinione nel momento in cui Sunak ha annunciato lo scioglimento della Camera dei Comuni, Reform UK è rapidamente salito nelle intenzioni di voto avvicinandosi al 20% anche grazie alla generosità delle testate di informazione che, come a metà del decennio scorso, hanno dato molto più spazio a Farage di quanto ragionevolmente ci si attenderebbe per il leader di un partito minore. A un certo punto della campagna elettorale c’è stato chi ha pronosticato che, grazie al sistema elettorale, questa formazione di estrema destra avrebbe potuto soppiantare i conservatori per numero di seggi alla Camera dei Comuni; il che avrebbe rappresentato una svolta epocale nella storia del paese e dei Tories, che sono una delle forze dominanti il sistema politico britannico da 190 anni.
La sinistra britannica è storicamente molto più frammentata ed è schiacciata dalla presenza del Partito laburista che per sua costituzione raccoglie tra le proprie fila orientamenti politici che vanno dal socialismo al liberalismo. Oltretutto, anche in momenti in cui lo scontro tra le differenti visioni interne della società è stato più acceso, l’elettorato progressista ha continuato a sostenere il partito in nome dell’unità e del cosiddetto voto utile, spirito non sempre condiviso dai centristi come visto negli anni Ottanta del secolo scorso e nel 2019. Nel corso dell’ultimo quindicennio, durante il tramonto del New Labour, il ruolo di sfidante dei laburisti a sinistra sono stati i Liberaldemocratici (LibDem) e il Partito nazionale scozzese (SNP), tuttavia i primi si sono spostati su posizioni centriste dopo aver governato in coalizione con i conservatori dal 2010 al 2015 e i secondi sono implosi in seguito a una serie di scandali e di scontri interni. Pertanto stavolta la novità a sinistra è stata rappresentata dal risorgere del Partito verde di Inghilterra e Galles (Verdi), i cui consensi si erano ridotti negli anni in cui Jeremy Corbyn guidava il Labour, e l’irruzione di una pattuglia di indipendenti, che si sono presentati per catalizzare il malcontento di parte dell’elettorato verso il programma laburista e in particolare verso la posizione di Starmer sulla questione palestinese. Tra questi candidati figuravano appunto l’ex segretario Corbyn, espulso dal partito alla vigilia delle elezioni dopo una sospensione durata tre anni e mezzo, Andrew Feinstein, già attivista contro l’apartheid in Sud Africa a fianco di Nelson Mandela e candidatosi nel collegio di Starmer, e Leanne Mohamad, giovane attivista per la causa palestinese presentatasi nel collegio del “ministro ombra” alla Sanità e all’assistenza sociale Wes Streeting. Per la prima volta dalla loro fondazione nel 1990 e dal loro ingresso in parlamento nel 2010 i sondaggi elettorali assegnavano ai Verdi dai tre ai cinque seggi e gli analisti pronosticavano un aumento dei loro consensi al di sopra del 20% in una quindicina di collegi distribuiti tra Londra, Bristol, Leeds, Sheffield e Manchester, indicandoli come una possibile alternativa ai Laburisti per l’elettorato di sinistra.
Inseguendo Blair
Starmer è stato eletto segretario del Labour al termine delle primarie nell’aprile del 2020 con il 56,2%, dopo aver servito nel Governo ombra di Corbyn per quattro anni; tanto nella sua campagna per le primarie quanto nel suo discorso di investitura Starmer aveva manifestato l’intento di far propri alcuni dei punti dirimenti del programma elettorale del partito per le elezioni del 2017 e del 2019, contro le politiche di austerità, a favore della nazionalizzazione delle infrastrutture e dei servizi strategici del paese, per l’eliminazione delle tasse universitarie, contro le esternalizzazioni ai privati di parti dell’NHS. Nel corso dei successivi quattro anni si è però riposizionato al centro, abbandonando i punti programmatici uno a uno e sospendendo il suo predecessore, Corbyn, non molti mesi dopo avergli dichiarato la propria stima e amicizia; nel contempo ha effettuato vari rimpasti del proprio Governo ombra, allontanando progressivamente ogni deputato dell’ala sinistra e attorniandosi di un serie di figure legate a lobby e gruppi di interesse, tra cui Peter Mandelson, eminenza grigia del New Labour tra gli anni ‘90 ed il primo decennio di questo secolo.
Con il collasso dei conservatori nel 2022 e un’impennata nelle intenzioni di voto per i laburisti oltre il 40%, la segreteria di Starmer ha pronosticato per sé un’entrata trionfale al governo simile a quella di Blair nel 1997, a suo tempo sostenuto da tredici milioni e mezzo di elettori pari al 43,2% del totale dei voti espressi. Sulla base di questa convinzione, i laburisti hanno impostato la propria campagna spostando ulteriormente a destra la propria proposta politica tanto sui temi economico-sociali, sulla questione dei diritti civili e sociali, sulle tematiche di politica estera (in particolare sulle questioni dell’invasione dell’Ucraina e dell’appoggio a Israele). Dando per scontati i voti degli elettori progressisti, i laburisti hanno puntato a incrementare il proprio consenso elettorale non tanto tra i centristi quanto tra conservatori e reazionari, presentandosi come un partito “fiscalmente responsabile”, un eufemismo per definire il proprio sostegno alle politiche di austerità, diluendo il New Deal dei diritti dei lavoratori, aprendo a un’associazione che promuove la negazione dell’identità e dei diritti delle persone trans, promuovendo l’ingresso di operatori privati nel Servizio sanitario nazionale, strizzando l’occhio agli xenofobi e ribadendo la propria subalternità agli USA in politica estera, soprattutto nel rapporto con Israele e nella condanna dei crimini del Governo di quel paese. Nelle poche settimane di campagna, Starmer ha dimostrato una certa dose di autolesionismo, attirandosi le critiche di alcune sigle sindacali, in particolare di Unite, il più grande sindacato del paese per numero di iscritti, oltre che di alcune delle organizzazioni che si occupano di diritti LGBTQIA+, delle associazioni che lottano contro la povertà e le disuguaglianze, del movimento per la pace, di quello per la difesa del popolo palestinese, degli ambientalisti.
Nel contempo la macchina elettorale del partito ha dedicato notevoli sforzi per contrastare l’ascesa dei Verdi in alcuni collegi tenuti da deputati laburisti e per impedire che Corbyn potesse essere rieletto come indipendente. Come riportato da Tristan Cork del Bristol Post, la dirigenza laburista ha dedicato più risorse nel collegio di Bristol Central, dove i Verdi erano in vantaggio, che in quelli della cintura rurale detenuti dai conservatori; analogamente il collegio di Islington North ha ricevuto particolari attenzioni da parte del partito, più che non altri che avrebbero potuto esser strappati ai Conservatori con una campagna mirata.
Le storture del modello elettorale
Come pronosticato il Labour ha raggiunto una solida vittoria, ottenendo 411 seggi pari al 63% degli scranni della Camera dei Comuni, una maggioranza schiacciante che sorpassa di ottantacinque unità la soglia della maggioranza assoluta; i Tories, per contro, hanno concluso la propria quindicennale esperienza di governo riducendo il numero dei propri deputati di due terzi, ora ridotti a 121, poco meno del 19% del totale. Nel corso della legislatura appena avviata, i laburisti si troveranno a governare con un’opposizione numericamente debole e frammentata. I LibDem hanno ottenuto 72 deputati con un incremento di 61 unità rispetto a cinque anni fa, un risultato superiore a quello delle elezioni del 2010 che li aveva portati al governo con i conservatori; Reform UK ha ottenuto 5 seggi, poco più di quanto pronosticato nelle rilevazioni sulle intenzioni di voto; i Verdi sono riusciti a conquistare 4 deputati, sottraendone 1 ai laburisti e 2 ai conservatori. Sono inoltre entrati alla Camera sei indipendenti, cinque dei quali ex laburisti, tra cui Corbyn. Per quanto concerne i partiti di carattere regionale, dopo aver dominato la politica scozzese per oltre un decennio, i nazionalisti scozzesi hanno subito un tracollo di 38 seggi, riducendo la propria rappresentanza a 9 deputati, a vantaggio dei laburisti che riprendono a essere il primo partito nella regione. Invece il partito regionalista gallese Plaid Cymru ha guadagnato due seggi. In Irlanda del Nord Sinn Féin conserva i propri deputati voti così come i partiti minori che non si pongono né a favore né contro la riunificazione dell’Irlanda, per contro perdono seggi gli unionisti dell’Ulster Unionist Party in parte a favore di altre due formazioni unioniste più piccole.
Analizzando la consultazione dal punto di vista del voto popolare, la distribuzione dei consensi è meno netta di quanto appare dalla ripartizione dei seggi. Innanzitutto, gli elettori britannici si sono mostrati tiepidi ed hanno votato con un’affluenza di poco al di sotto del 60%, che è un dato tra i più bassi dell’ultimo secolo, secondo solo a quello alle elezioni del 2001. In questo contesto i laburisti hanno visto aumentare la propria forza relativa, salita dal 32,1% al 33,8% in cinque anni, pur vedendo calare i propri voti di circa mezzo milione, laddove i conservatori hanno perso oltre sette milioni e centomila elettori, passando dal 43,6% al 23,7% in termini relativi. Il balzo dei LibDem nella ripartizione dei seggi corrisponde a un calo dei consensi di circa centomila voti, mentre i Verdi che hanno triplicato i propri voti salendo al 6,4%, quanto l’estrema destra di Reform UK, che ha moltiplicato i consensi superando largamente i quattro milioni, pari al 14,3%, ottenendo però un numero irrisorio di seggi equivalenti al 1,6% dei deputati. Anche in Scozia, il crollo dei deputati ottenuti dal SNP non rispecchia il fatto che il partito continui ad avere il sostegno di un terzo dei votanti con un distacco di meno di centotrentamila elettori rispetto ai Laburisti su un totale di due milioni e mezzo di votanti su un corpo quattro milioni di aventi diritto.
Ancora una volta emergono le storture di un modello elettorale che è rimasto invariato nei secoli, sopravvivendo all’ampliamento del corpo elettorale e alle riforme politiche e sociali che hanno ampliato l’agibilità democratica del modello costituzionale britannico. I laburisti oggi si trovano a governare con un numero maggiore di seggi di quelli a disposizione dei conservatori nelle precedenti quattro legislature, pur avendo avuto questi ultimi un consenso decisamente più ampio, e addirittura maggiore dei deputati ottenuti da Blair nel 1997, quando il Labour poggiava su quattro milioni di voti in più rispetto a oggi. La motivazione secondo cui la scarsa rappresentatività e l’imprevedibilità del modello uninominale a turno unico sarebbero compensate dalla stabilità dei governi è stata smentita per di più dal quindicennio conservatore, dal momento che tra il 2010 e il 2024 si sono succeduti otto esecutivi e le elezioni anticipate sono state convocate due volte nel corso di otto anni.
La forza apparente e la debolezza latente del Governo
I rapporti di forza nelle assemblee elettive si basano inesorabilmente sul numero di deputati di ciascun gruppo a prescindere dal numero di voti che ciascuna forza ha ricevuto nelle urne e nonostante i difetti del modello elencati precedentemente. È altresì vero che un partito con l’ambizione di restare al governo per più legislature deve curare il consenso dei propri elettori e auspicabilmente convincere un numero maggiore di cittadini a votarlo. Come espresso dal professore di Scienze politiche dell’Università Strathclyde di Glasgow Tony Curtice sul Times di venerdì 5 luglio, la forza parlamentare dei laburisti è sovrastimata rispetto al loro reale peso nel paese è ciò ne rappresenta una potenziale debolezza. A differenza di Blair nel 1997 o di Cameron nel 2010, Starmer inizia la propria esperienza di governo con un calo di consensi rispetto al passato; la scommessa che aveva fatto è stata di fatto persa, il travaso di voti dai Tories e dal SNP non ha compensato l’emorragia verso sinistra e verso l’astensionismo. Oltre ad aver perso centinaia di migliaia di voti, Starmer ha visto due dei componenti del suo Governo ombra sconfitti nei propri collegi e Streeting ha evitato di fare la stessa fine per cinquecento voti; lo stesso segretario ha perso la metà dei consensi nel suo collegio londinese di Holborn and Saint Pancras da oltre trentaseimila nel 2019 a poco meno di diciannovemila oggi. Anche in questo caso il paragone con la parabola Blair è impietoso.
Una prima considerazione che si può trarre da questi risultati è che rispetto al passato i laburisti hanno meno margini di manovra per perdere il sostegno dei cittadini; il loro partito non può concedersi di alienare il supporto di alcuno dei blocchi della propria base elettorali attuando politiche impopolari, il governo dovrà bilanciarsi tra le richieste della società civile e quelle dei gruppi di interesse che lo hanno sostenuto e finanziato in questi anni. Se è vero che circa la metà di coloro ha risposto ad un sondaggio della società YouGov pubblicato a ridosso delle elezioni ha sostenuto i laburisti in opposizione ai conservatori e solo un 10% ha espresso vicinanza alle politiche del partito o simpatia per il suo segretario, la linea di credito concessa dall’elettorato a Starmer rischia di esaurirsi più rapidamente di quanto accaduto in passato con Blair o con il trio Cameron, May e Johnson, a fronte di passi falsi o di misure impopolari.
In secondo luogo, i conservatori hanno sì dimezzato i propri consensi ma il divario che dovranno colmare è inferiore rispetto al 1997, quando peraltro non esisteva la concorrenza a destra, dal momento che UKIP raccoglieva un numero insignificante di voti. Non è plausibile, sebbene sia pur sempre possibile, che un partito con quasi due secoli di storia come quello dei Tories possa divenire minoritario o scomparire del tutto. A differenza dei laburisti, che hanno avuto ora la propria opportunità di raccogliere voti su un ampio spettro dell’elettorato, una nuova dirigenza conservatrice che sappia portare il partito fuori dal guado avrà spazio per recuperare voti tanto tra chi ha optato per l’astensione quanto tra chi ha scelto Reform UK la scorsa settimana; nel complesso si tratta di un bacino potenziale di almeno cinque milioni di elettori, a fronte di uno scarto di meno di tre milioni di preferenze tra i due principali partiti.
Come sostiene l’editorialista del Guardian Owen Jones, la partita decisiva per il proseguimento dell’esperienza di governo laburista dopo il 2029 si giocherà prevalentemente a sinistra, dove la strategia di Starmer ha lasciato il fianco scoperto permettendo ai Verdi e agli indipendenti di conquistare dieci seggi, fatto mai accaduto sinora. Lo scorso 4 luglio i Verdi si sono piazzati secondi in undici collegi, mentre un paio di indipendenti hanno tallonato da vicino il candidato laburista vincente; a meno che la posizione laburista apertamente ostile verso la sinistra non muti nel corso dei prossimi cinque anni, l’elettorato che non si riconosce nelle politiche economiche, sociali e internazionali di Starmer saprà di poter puntare su una candidatura alternativa e vincente, ignorando lo spauracchio del voto utile. La vittoria verde nel collegio di Bristol Central potrebbe spingere quell’elettorato che ha scelto i laburisti senza entusiasmo a orientarsi verso i Verdi in altri collegi della città. È proprio il timore di questa alternativa e del fatto che essa sia perseguibile che ha motivato la dirigenza laburista a investire più risorse di quelle ragionevolmente necessarie nel contrastare candidature tutto sommato minoritarie dei Verdi e degli indipendenti.
Tra le prime misure introdotte dal nuovo Esecutivo c’è la cancellazione del programma di deportazione dei richiedenti asilo in Ruanda e l’avvio di negoziati con la UE per superare alcune delle barriere che hanno colpito il settore agro-alimentare dopo la cosiddetta Brexit. Al contempo Starmer non ha perso tempo a ribadire la propria incondizionata fedeltà alla NATO, senza aver espresso una ancorché timida condanna dei crimini di guerra israeliani. Può darsi che questi primi due giorni di governo rappresentino la cifra di un quinquennio speso a dare un colpo al cerchio e uno alla botte; quanto questo consentirà a Starmer di rimanere aggrappato al potere che ha inseguito con tanta determinazione è difficile pronosticarlo.
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