Mentre concludo queste riflessioni mi arriva un messaggio: è morta Liana Borghi. Non posso fare a meno di pensare a lei, al suo essere costantemente curiosa verso le parole delle donne e delle lesbiche. Nell’ultimo incontro – purtroppo virtuale – mi parlava del rap e della slam poetry scritta e performata dalle ragazze come luogo di interesse linguistico e politico. Lì intravedeva un immaginario in formazione, nuovo, interessante. Porto con me la sua curiosità verso l’arte, le parole e i pensieri delle donne. Mi appello alla sua postura verso il pensiero teorico femminista e lesbico per affrontare quella che è una delle questioni sollevate dal primo quaderno del Centro di Documentazione internazionale Alma Sabatini.
Questi sono alcuni pensieri appoggiati su carta che non hanno nessuna pretesa di essere definitori o definitivi sulla controversa questione sollevata dal quaderno “Dove batte la lingua oggi?”. I contributi sono interessanti e variegati tra loro, ricostruiscono pezzi della nostra storia di costante cancellazione, o tuttalpiù inclusione, all’interno di un universale maschile presunto neutro. Vi aggiungo le mie riflessioni sul presente su come affrontare la questione della lingua italiana a partire dall’esperienza e da una visione il più possibile in ascolto della società che mi circonda.
L’emersione di soggettività non binarie è arrivata a un punto in cui ci richiede, più o meno velatamente, di tenerne conto nel momento in cui parliamo e scriviamo. La lingua italiana è messa alla prova dei corpi e delle esperienze di chi non si riconosce e non vuole essere nominata/o all’interno di una gabbia linguistica che prevede l’esistenza solo di due generi grammaticali: il maschile e il femminile. Contrariamente all’inglese, che prevede il neutro e consente di organizzare un discorso senza usare necessariamente dei pronomi che definiscano in modo binario l’identità di genere del soggetto, l’italiano – a parte alcune parole che accettano il maschile e il femminile senza incorrere nell’errore a penna blu (poeta, insegnante…) – non lascia molto scampo.
L’urgenza delle istanze collettive non può essere ignorata né liquidata, come spesso accade, con un richiamo a una presunta impossibilità data dalla forma stessa della nostra comune lingua – che ci piaccia o no, l’uso della lingua cambia nel tempo con la società – né può essere svilita con dei discorsi semplicistici e conservatori, che si appoggiano su una costituzione patriarcale e retrograda, per cui sembra che i cambiamenti reclamati da alcuni e alcune siano dei capricci temporanei. Mi sorprende leggere talvolta anche in giornali autorevoli posizioni che sembrano essere trasposizioni di chiacchierate che si possono fare in confidenza con quattro amici al bar, come se lo sforzo massimo di chi fa cultura e divulgazione in questo paese fosse quello di riportare l’ovvietà, invece che scavare e arricchire le questioni della società.
Seppure anche io mi sento talvolta persa e spaventata di fronte alla richiesta di introduzione di alcune forme e formule che esprimano un “neutro”, tendo a pensare che uno sguardo lesbofemminista debba dare valore a chi parla e dice.
Esiste una resistenza alle varie proposte (l’asterisco, la u finale, la schwa…), che non è solo legata alla tradizione e al non ascolto, ma si fonda su una questione millenaria e umiliante ed ha a che fare con la cancellazione o con l’uso dispregiativo del genere femminile. Il problema non è l’aggiunta, ma la soppressione della differenza, in un contesto politico e sociale ancora molto patriarcale e sessista. Come a dire: proprio ora che, a partire dal lavoro di Alma Sabatini e la sua grammatica nuova, il movimento delle donne è riuscito a spostare l’attenzione sull’importanza della desinenza femminile nei mestieri e nelle arti; proprio ora che il maschile universale, generalmente usato per definire anche le donne, vacilla; proprio ora che timidamente o meno la società inizia a considerare plausibile e non di inferiore qualità le parole assessora, scrittrice, artigiana, magistrata, avvocata, appare insopportabile l’idea che l’emersione di qualcun* affossi la differenza, che è segnale di unicità, ma anche insegna luminosa del grande divario di possibilità e di potere tra uomini e donne.
Come facciamo dunque a tenere insieme corpi, desideri, storia politica e società in evoluzione, quando la nostra lingua sembra solo riportarci a un ordine sessista o binario, in cui c’è per un verso il rischio di cancellare le esperienze plurime e individuali – le magnifiche impreviste corporeità che acquistando voce vogliono esser dett* – e peraltro l’esigenza di non sommergere l’esperienza differente delle donne in quella che talvolta sembra essere una forma nuova di universalizzazione? Ho la sensazione che la strada rapida non esista, e convertire l’espressione di grandi pluralità in un nuovo segno che determini un’immediata nuova norma, non giovi a rappresentare davvero la complessità delle esistenze.
Questa è una domanda molto aperta, alla quale dovremmo rifiutarci di dare una risposta netta, veloce, nuovamente normante. Sono importanti, credo, dei contributi situati, è importante vedere insieme quali sono i limiti e le possibilità di una lingua per raccontarci e per raccontare il mondo. Piuttosto che ridurre la complessità, io sarei per usare tutti i segni, tutte le invenzioni, tutte le differenze che ci vengono in mente. Allargare la visione, restare in un campo di sperimentazione.
In questo senso mi permetto di suggerire – oltre al non chiudersi in posizioni oltranziste, continuando a discuterne autenticamente – una strada che prende ispirazione dalla poesia. Anche se il verso si è sciolto dalle rigide regole formali di metrica e rima, la poesia rimane una metafora interessante per osservare come all’interno di una forma, che ha delle regole talvolta crudeli, si aguzzi l’ingegno e si inventino parole, pause, assonanze, silenzi e vuoti. Faccio appello, dunque, alla nostra immaginazione quando scriviamo comunicati politici, articoli di giornale, racconti. La nostra immaginazione prevede forzature ed errori, interruzioni, pause e aggiunte esagerate; quelli saranno i piccoli segni luminosi di cambiamento. Mi interessa di più che la società patriarcale e tremendamente stereotipata nei due generi fissi e immutabili, sia infastidita dalle emersioni impreviste (cito qui letteralmente e non casualmente il titolo del libro di Elena Biagini che racconta la storia del movimento lesbico negli anni ’70-’80), piuttosto che spostata su una finta discussione su quanto sia politicamente corretto o scorretto l’uso della schwa, perché è con l’uso retorico della formazione dell’opinione pubblica che ci hanno abilmente messo all’angolo.
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