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Una bellissima lettera

Ho letto questa bellissima lettera e vorrei che la leggessero in tanti. Mario Tronti
Pubblicato il 15 Giugno 2010
Materiali, Officine Tronti, Scritti
Ho letto questa bellissima lettera e vorrei che la leggessero in tanti.
Mario Tronti
Lettera aperta
Trieste, 1 giugno 2010
Gentili Segretari, gentili Signori,
mi chiamo Andrea Pertot, ho 28 anni. Sono un laureato. Sono un cosiddetto precario. Interrompo immediatamente qui la mia personale presentazione, da un lato perché sarebbe superfluo eccedere in dettagli per Voi insignificanti, dall’altro perché lungi da me suscitare la benché minima compassione o comprensione; la premessa, perciò, vuole avere per lo più valore di contestualizzazione storico-esistenziale di colui che scrive. Non è quindi l’ennesima lettera di un giovane in difficoltà che si rivolge al sovrano. Non è nemmeno la manifestazione di un’incontenibile voglia di protagonismo. Vi scrivo, perciò, e vado subito al punto, per cercare di assestare, molto modestamente e molto rispettosamente, alcune considerazioni politiche; spero, pertanto, di riuscire a comunicare sinteticamente il contenuto di temi che mi stanno particolarmente a cuore e che ho sentito la necessità di condividere con Voi, principalmente perché il senso di frustrazione per la situazione contemporanea mi è diventato intollerabile. Faccio parte di una generazione troppo spesso compatita per la sua impossibilità di costruirsi un futuro, spesso supportata dal vero welfare state italiano, cioè madri e padri più o meno benestanti; una generazione su cui il mercato del lavoro sembra accanirsi; una generazione priva di una prospettiva di lungo periodo, che sta forse troppo bene ma che manca di riferimenti; una generazione che, quando va bene, ottiene l’empatia e la comprensione dei garantiti, di quelli che il posto di lavoro ce l’hanno e ce l’avranno. Tutto ciò non può che essere vero anche se fa, forse inevitabilmente, parte di una certa rozzezza sociologica, degna dell’usuale approfondimento culturale di massa. Ma tutto ciò è anche una grande mistificazione. Perché si tratta di una generazione che pagherà le conseguenze di una crisi economica di cui non si vede ancora la fine e che è del tutto inconsapevole di ciò che l’aspetta; una generazione priva di coscienza politica, una generazione ignorante, superficiale, attaccata all’effimero, priva dello spartito di una qualsivoglia narrazione ideale significativa e significante; una generazione massacrata dall’imperativo del godimento. Non siamo in grado di pensare al futuro, è vero. E non è forse altrettanto grave aver abdicato all’idea di costruire un presente attraverso la politica, l’unico modo in cui si edifica e si inventa un’alternativa di vita e di mondo, senza essere, come dice Mario Tronti, subalterni ad un futuro presente? Faccio tristemente e malauguratamente parte di una generazione che affronta la flessibilità del mercato del lavoro come fosse una mitologia indiscutibile della società odierna… Ma, d’altra parte, di fronte ad una generazione paralitica c’è una sinistra paralitica. Una sinistra che, se fatica a stare dietro all’evoluzione dei problemi sociali, se spesso non ne comprende proprio la portata, più o meno in buonafede, contemporaneamente risulta disinteressata a fornire la benché minima risposta che non sia la semplice accettazione di una versione edulcorata del sempre-lo-stesso, del medesimo sistema produttivo perverso. Di fronte a questi due elementi, in terza posizione, cerco con enormi difficoltà di collocare me stesso; con un’immensa, indescrivibile voglia di agire concretamente, di partecipare alla ri-definizione del mondo, e con l’oggettiva difficoltà di penetrare la dolce melassa dei partiti a tutti i livelli, del tutto irretiti dal campanilismo localistico, alla ricerca affannosa di soluzioni a problemi insignificanti. Ma, ci tengo a sottolinearlo, non si tratta, da parte mia, di un attacco, di insopportabile matrice “grillina”, alla forma politica partitica o alla classe politica in generale; tutt’altro. Io credo fortemente nella forma dell’azione politica partitica. E allo stesso tempo credo che se la classe politica ha perduto credibilità è perché la società non è migliore dei suoi governanti. Credo nel partito come essenza motrice della storia ma ciò che mi fa male, che mi distrugge, è la miopia di una sinistra che non vede nella questione lavoro (anche se in apparenza tutti sembrano prestarle attenzione), in tutte le sue forme (evidenti, apparenti, dissimulate), la sola piattaforma possibile per la ricostruzione di un pensiero politico che metta in discussione un’egemonia culturale che ci racconta la favola della fine delle ideologie, laddove la mitologia del capitale e la mutazione antropologica dell’uomo regnano sovrane. Walter Benjamin diceva che ogni epoca sogna la successiva; non vorrei che stessimo già sognando la sparizione completa di ogni idea, anche semplicemente riformista, di emancipazione. Dov’è finito il conflitto sociale? Dov’è finita anche solo la potenzialità di un conflitto? Quello che dialetticamente produce cambiamento? Dov’è finito il desiderio di redimere gli sfruttati che, per dirla ancora con Benjamin, produce odio e volontà di sacrificio? Proprio entrambi questi termini sono del tutto assenti dal discorso politico. Cosa c’è di più spettacolare di una frustrazione, di una rabbia, canalizzata dal nobile parafulmine della politica che, eretto per incanalare energia di cambiamento, impedisca la distruzione indiscriminata ed ingiusta della guerra fra poveri? L’odio, la rabbia, la frustrazione, la mancanza di senso delle singole esistenze individuali, non vengono nominati se non come fatti di cronaca, non vengono presi in considerazione politicamente; eppure si manifestano comunque, si realizzano in violenza pura, in qualche acting out xenofobo, omofobo o razzista. È l’era di dominio del “politicamente corretto”, a cui siamo assuefatti e a cui fa pendant il buonismo di sinistra, attraverso il quale si tende ad affrontare qualsiasi problema sociale più o meno urgente (immigrazione, lavoro, crisi economica, diritti dei più deboli, guerra, sofferenza e disagio sociale, ecc.). Sono francamente stufo del ruolo egemonico, all’interno dei partiti di sinistra, di una borghesia progressista, benestante e buonista che si erge ad ultimo paladino della difesa della civiltà di fronte al medioevo montante; soprattutto perché ne costituisce la componente elettorale maggioritaria, mentre il ceto popolare si riconosce nelle facili apologie identitarie della destra. Se, prima di tutto, la sinistra non cerca di riacquistare un legame con il suo habitat ontologico, il suo ceto popolare, e tentare di farlo significa sporcarsi le mani con la carne, il sangue e il sudore delle persone, si ridurrà ad un’esigua minoranza di anime belle che, di fronte alla catastrofe, continuerà a pensare di risolvere i problemi del mondo con una buona dose di coscienza civica e di legalità formale. È tanto esigere una sinistra che non mi faccia sentire solo, che rincominci a parlare di rapporti di produzione (o, se la parola Vi sembra vetusta, di rapporti economici, di disuguaglianza sociale, degli squilibri intollerabili del sistema capitalistico), che accantoni la collocazione prioritaria della conquista dei diritti civili (fatto non insignificante, anzi importantissimo, ma non prioritario in questa congiuntura storica), che si risvegli dal sogno di aver risolto, perché bene o male viviamo nel migliore dei mondi possibili, le oggettive e materiali difficoltà dell’esistenza? Perché il suicidio politico dev’essere inevitabile? Perché è così necessario rincorrere il malcostume in tutte le sue forme? E non intendo solo la corruzione e la volgarità, ma mi riferisco soprattutto alla rincorsa di forme di comunicazione politica nuove che, se analizzate a fondo, mostrano tutta la loro inconsistenza e connivenza con il mantenimento dell’ignoranza politica e culturale. Smettiamola di illuderci che una piazza virtuale, magari pennellata di viola, possa sopperire alla mancanza della vicinanza e della solidarietà indispensabile fra esseri umani, che solo una precisa coscienza politica può determinare. Un’ultima considerazione, e Vi chiedo immensamente scusa per la prolissità di questa mia, riguarda il “che fare”. Se sono stato estremamente duro con i miei coetanei, devo esserlo
altrettanto con coloro che costituiscono le classi dirigenti dei partiti della sinistra italiana. Com’è possibile, infatti, pretendere un’inversione di tendenza senza che un ruolo formativo, di accompagnamento, di riferimento, venga assunto tempestivamente da chi, oggi al comando, prima o poi dovrà ritirarsi? Perché non ripartire anche dalla ricostituzione di scuole di formazione politica in grado di preparare culturalmente, politicamente, filosoficamente, sociologicamente, giuridicamente, una futura classe dirigente? O forse è troppo forte la paura di scoprirsi incapaci di trasmettere il benché minimo insegnamento, o perché non si ha più nessuna idea da tramandare, perché un’intera tradizione è stata tradita, o perché si è di fronte alla rivelazione della propria inconsistenza? Io sono pronto ad imparare, sinceramente. Sono pronto a tornare fra i banchi di scuola, dalla parte di chi umilmente cerca risposte. Sono pronto ed in attesa di un Vostro segnale. Nella speranza di una Vostra risposta, ringrazio per l’attenzione concessami e Vi porgo
Distinti Saluti Andrea Pertot

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