Good for the heart, good for the earth. Il gioco di parole non è traducibile in italiano, ma il significato sì: “ciò che è buono per il nostro cuore è buono anche per la Terra”.
È il titolo di un interessante studio frutto della collaborazione tra diversi istituti italiani, tra cui la Fondazione CMCC (Euro-Mediterranean Center on Climate Change) e l’Unità di ricerca su Nutrizione, diabete e metabolismo dell’Università di Napoli “Federico II”, apparso recentemente su una importante rivista anglosassone [1], che verte su un’idea ormai largamente condivisa: la salute della Terra e quella del genere umano sono strettamente interconnesse (approccio One Health) e un tramite fondamentale è rappresentato dal sistema alimentare, in altre parole dal cibo che produciamo e di cui ci nutriamo.
Ma la percezione comune deve essere convalidata da evidenze controllate per ambire a quella dignità ‘scientifica’ senza la quale nessun investimento sociale, economico e culturale sarebbe programmabile.
Ciò che già sapevamo (o avremmo dovuto sapere)
Dopo aver compiuto un’analisi preliminare degli alimenti di più frequente consumo nel mondo, i ricercatori li hanno raggruppati in una serie di categorie definite in base ai loro componenti e alle proprietà nutrizionali. Successivamente, previa revisione della vastissima letteratura scientifica sull’argomento, è stata definita la correlazione fra i gruppi di alimenti e il rischio di malattie cardiovascolari, nella fattispecie l’infarto del miocardio, l’ictus e la morte coronarica improvvisa.
Come peraltro ci si attendeva, una riduzione massimale del rischio cardiovascolare (CV) era collegata al consumo di quantità consistenti di frutta fresca, pane e cereali integrali in genere, ma anche di alcune categorie di cereali raffinati come pasta, orzo, mais, oltre allo yogurt. Anche per altri alimenti è stata osservata una potenziale riduzione del rischio, ma solo se consumati in quantità moderate: fra questi, pesce, legumi, noci, alcuni oli di origine vegetale come l’olio EVO e il cioccolato. Carni bianche, formaggi e uova rientrano invece nella categoria di alimenti che non alterano il rischio CV purché, essi pure, assunti in quantità modeste.
Nella lista nera degli alimenti associati ad un aumento del rischio CV sono finiti invece alcuni cereali raffinati come il pane bianco, il riso bianco e le patate, i grassi animali, gli oli vegetali tropicali (principalmente, olio di palma), le carni rosse (manzo, maiale, agnello) e quelle lavorate (bacon, salsicce, prosciutto). All’elenco vanno aggiunti alcol, sale e zuccheri semplici per il cui consumo sono stati da tempo definiti dei limiti molto severi.
Ciò che sospettavamo, ma che aveva bisogno di conferme
Tralasciando la metodologia piuttosto complessa adoperata per una analisi attendibile dei consumi di cibo in Europa, va detto che le tabelle pubblicate nello studio parlano chiaro: ad eccezione di pesce e yogurt che vengono consumati in quantità inferiori a quelle desiderate, gli Europei assumono gli alimenti di origine animale in quantità nettamente superiori a quelle auspicabili (tabella 1). Per le carni rosse e lo zucchero, ad esempio, il consumo è 8 volte superiore a quello ottimale, per i formaggi oltre il doppio. Viceversa, il consumo della maggior parte degli alimenti a base vegetale (cereali integrali, frutta, verdura, noci e legumi) appare inferiore a quello desiderato. Sulla base delle quantità consigliate per ciascun alimento è stato quindi formulato uno schema di dieta settimanale ideale per la prevenzione del rischio CV, nel quale, oltre alla presenza di quantità abbondanti di frutta e verdura, spicca un consumo di carne rossa limitato a un solo giorno della settimana, l’assunzione di piccole quantità di formaggio 3 volte alla settimana e il consumo di quantità moderate di pesce 4 volte alla settimana.
Ciò che abbiamo imparato
Ma la novità più importante dello studio è la valutazione delle conseguenze che una dieta errata può avere sull’ambiente, attraverso la definizione della cosiddetta “carbon footprint”, letteralmente impronta di carbonio, cioè del parametro che, meglio di qualunque altra variabile, permette di calcolare l’impatto ambientale che le attività di origine antropica hanno sul cambiamento climatico e, quindi, sul riscaldamento globale del pianeta. Si tratta in pratica di una stima della quantità di anidride carbonica (CO2) e altri gas a effetto serra emessa nell’atmosfera a causa delle nostre abitudini di vita.
Sappiamo da tempo che oltre un terzo delle emissioni di gas serra di origine umana è legato ai sistemi alimentari, nella fattispecie sotto forma di metano (prodotto dai ruminanti, ma anche dalla coltivazione di riso), protossido di azoto (gestione del letame e impiego di fertilizzanti sintetici) e anidride carbonica (trasporto e lavorazione degli alimenti). E sappiamo anche che le emissioni globali di gas serra associate alla produzione di alimenti di origine animale sono circa il doppio rispetto a quelle associate alla produzione alimentare di origine vegetale.
Ebbene, nell’attuale modello di consumo alimentare, la combinazione di carne rossa, latte e formaggi rappresenta circa il 70% dell’impronta di carbonio settimanale calcolata come emissione di gas serra per kg di cibo. In questo contesto, la quota rappresentata dalla carne rossa, con un apporto settimanale di circa 800g pro capite, rappresenta la gran parte del totale.
Secondo lo studio, la riduzione dei consumi di carne rossa, latte e cereali raffinati e il passaggio ad uno schema alimentare basato sull’assunzione di cibo in qualità e proporzioni corrette permetterebbe di ridurre di quasi il 50% l’impronta di carbonio della dieta attualmente seguita dalla popolazione europea. Senza dimenticare lo spreco di cibo che, specialmente per alcune tipologie di nutrienti, ha assunto proporzioni non trascurabili, contribuendo a incrementare l’emissione di CO2 di una quota pari a circa 10 kg CO2-eq/pro capite/settimana.
In definitiva, il passaggio ad una dieta “salutare” mirata alla prevenzione delle malattie non trasmissibili può comportare, oltre alla riduzione della mortalità dovuta a eventi cardiovascolari e cancro (pari a 41 milioni di decessi ogni anno a livello globale), anche un enorme beneficio per l’ambiente, in termini di riduzione delle emissioni di gas serra (figura 1). Se scegliere più vegetali e legumi, e ridurre la carne e i cibi industriali comporta un risparmio notevole di emissioni di CO2, va altresì ricordato che preferire cibi freschi, coltivati secondo pratiche sostenibili o biologiche, nonché a km O, aggiunge ulteriori benefici.
In conclusione, Il processo produttivo dei cibi su cui si basa una dieta non sostenibile genera un quantitativo di gas serra pari a oltre 38 kg CO2-eq pro capite/settimana, cioè almeno il doppio di quelli prodotti da una dieta mirata alla prevenzione e alla sostenibilità. Il risparmio in tal modo ottenuto, pari a circa 20 kg CO2-eq ogni settimana, significa evitare ogni anno al pianeta gas serra pari a quelli emessi da un’auto che percorre circa 3000 km! Se consideriamo che ogni cittadino europeo percorre mediamente ogni anno 12.000 km, consumare regolarmente cibi salubri equivale a lasciare l’auto in garage per più di 3 mesi!
Tutto questo assume un rilievo fondamentale anche alla luce del fatto che alcune stime dell’ONU prevedevano un aumento della produzione alimentare del 70% entro il 2050 (rispetto al 2009) per soddisfare la domanda di una popolazione sempre più numerosa e urbanizzata. Se questo scenario fosse confermato, le emissioni di gas serra legate al cibo potrebbero aumentare dell’87% entro il 2050, mettendo così a rischio l’equilibrio dell’intero ecosistema.
L’urgenza di passare a diete maggiormente orientate al consumo vegetale e ridurre contestualmente gli sprechi alimentari è alla base della strategia denominata Farm to Fork (“Dalla fattoria alla forchetta”) messa a punto dalla Unione Europea nel 2020. Si tratta di un piano ambizioso da attuare nell’arco di un decennio, mirato a progettare una politica alimentare comune per tutti gli Stati membri, in grado di intervenire dalla produzione al consumo rendendolo più sano, equo e sostenibile.
Questi i principali obiettivi:
Tabella 1. Confronto fra la quantità di cibi assunti dalla popolazione europea e quantità desiderabili per prevenire il rischio CV (grammi pro capite/settimana)
Figura 1. Contributo percentuale di ciascun gruppo di alimenti alla variazione dell’impronta di carbonio (CF) che si può ottenere in Europa passando dalla dieta attuale a una dieta corretta.
Asse verticale
Variazioni dell’impronta di carbonio (kg CO2-eq pro capite per settimana).
Asse orizzontale
Nell’ordine: carne rossa, latte, cereali raffinati (alto indice glicemico), carni lavorate, formaggio, zucchero, burro, carne bianca, oli vegetali non tropicali, cioccolata, legumi, frutta secca, uova, cereali raffinati (basso indice glicemico), cereali integrali, frutta fresca, verdure, pesce yogurt.
Bibliografia
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