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Articolo tratto da “DINAMOpress” in virtù di un accordo di collaborazione (https://www.dinamopress.it/news/usa-al-bivio-7-una-presidenta-per-gli-usa/).

Il ribaltone senza precedenti in cui è culminato uno dei mesi più travagliati della moderna storia politica degli Stati Uniti, riapre potenzialmente la partita delle presidenziali. Certo, rimangono, anzi si moltiplicano, le incognite, ma il passo indietro di Joe Biden e l’investitura di Kamala Harris come nuova candidata in pectore del partito, per l’agonizzante campagna dei democratici equivale all’uscita da un purgatorio.   

Il tragitto verso il 5 novembre rimane ora tutto da scrivere. Kamala Harris è laureata in legge a Howard (prestigiosa black university), già procuratrice generale della California, eletta senatrice in rappresentanza di quello Stato, in sostituzione della matriarca liberal Barbara Boxer, nel 2017, ma quasi subito proiettata verso politiche presidenziali con l’entrata in campo nelle primarie del 2019. L’esperienza si chiude presto e negativamente con un ritiro prima ancora dell’Iowa. Allora appariva francamente impreparata alla scena nazionale, ma viene quasi subito cooptata al ruolo di vice da Joe Biden. Da verificare ora se, e quanto, ha messo a frutto i quattro anni nella carica “più invisibile” del governo statunitense per raggiungere un livello di maturità che le sarà necessario nella missione a venire. 

Ci sono varie ragioni se si parla della vicepresidente come della candidata “in pectore” del Partito Democratico, per affrontare il pluri-indiziato, pluri-condannato, aspirante golpista che si ripresenta per ritrascinare il paese nell’incubo che aveva di poco evitato quattro anni fa. La transizione a Kamala Harris (come da “investitura” di Biden) ha senso per molti motivi, principalmente quello che la vicepresidente è comunque una titolare della campagna Biden-Harris, un mastodontico meccanismo avviato ormai da oltre un anno con tutti crismi legali, l’organico, la struttura, critica, per il fundraising, oltre a un team politico che potrebbe continuare con una misura di continuità. Ripartire da zero a meno di tre mesi dalle elezioni sarebbe improponibile da un punto di vista pratico, oltreché rischioso da quello politico. Inoltre, indire nuove primarie aperte a un campo di nuovi pretendenti potrebbe scatenare una distruttiva lotta intestina alla soglia delle elezioni. A questo riguardo, nelle 48 ore intercorse dall’annuncio di Biden, vi sono stati un paio almeno di indicazioni positivi per il Partito Democratico che ha appena attraversato uno dei peggiori mesi della sua storia. Intanto i forzieri della piattaforma di fundraising Act Blue hanno incassato un record di 60 milioni di dollari in donazioni a nome della nuova candidata. 

Da due giorni si succedono poi gli endorsement di politici democratici che hanno confermato il proprio sostegno alla vicepresidente. A oggi si sono aggiunti all’elenco quasi tutti i 212 rappresentanti alla Camera, oltre 30 senatori e più della metà dei 23 governatori “blu”. La lista comprende molti grandi nomi del partito, da Obama ai Clinton, alla progressista Elizabeth Warren. Moderati, come Tim Kaine e Amy Klobuchar, e liberal come Jim Clyburn ed Alexandria Ocasio-Cortez (e vari nomi che circolano ancora come potenziali vice di Harris: Pete Buttigieg, Gretchen Whitmer, Gavin Newsom). È il segno di un ricompattamento rapido del partito attorno all’ipotesi Harris, dopo lunghe settimane di incertezza che dietro le quinte avevano esacerbato le tensioni e i dissapori interni.

Degno di particolare nota in questo senso è stato l’allineamento dell’ala sinistra (come Ocasio-Cortez) e del Black Caucus. I politici afroamericani, paradossalmente, erano infatti stati i più veementi nel contrastare il passo indietro di Biden a favore della vice. Ora saranno i principali difensori della Harris contro ipotesi di altri possibili candidati. Adesso che il terremoto a lungo annunciato c’è stato, si apre la fase forse più delicata. La “successione” deve riuscire con il massimo di rapidità e continuità, visti i tempi tecnici, ma dal punto di vista della campagna, occorre evitare l’apparenza di un’incoronazione decisa a tavolino, compito che solitamente è assolto da un processo di primarie che dura molti mesi, ma che dovrà venire compresso in pochi giorni, preferibilmente prima della convention di Chicago in programma fra meno di un mese.

Diventa più realistica, intanto, l’ipotesi che il partito si unifichi dietro al nome di Harris e si concentri piuttosto sulla selezione di un/una candidato/a vicepresidente che si preannuncia oltremodo cruciale per tentare di ricostituire una coalizione vincente che l’incertezza su Biden aveva sfilacciato. Sul potenziale nuovo numero 2 si è già inevitabilmente aperta la girandola delle speculazioni. Non sorprende che fra i papabili spicchino governatori come Gretchen Whitmer (Michigan), JB Pritzker (Illinois), Josh Shapiro (Pennsylvania) oltre al ministro dei Trasporti Pete Buttigieg (Indiana), legati al Midwest e alla rust belt deindustrializzata, che è la geografia in cui si potrebbe decidere l’elezione. C’è chi è più cinico (o realista), come Mehdi Hasan, che nella sua mailing list consiglia a Harris: «Si trovi in fretta il maschio bianco più adatto al compito».

Harris è figlia di un padre giamaicano e di una madre indiana del Tamil Nadu, entrambi accademici, incontratisi in California. Se dovesse essere eletta, sarebbe la prima donna, prima nera e prima sud-asiatica a insediarsi alla Casa Bianca. È lecito considerare che in condizioni normali la selezione di una candidata così avrebbe dato luogo ad atroci dubbi e valutazioni sulla electability della stessa. Ma nelle presidenziali del 2024 non c’è nulla di normale e Kamala Harris potrebbe essere depositata nello studio ovale dai capricci di una storia a dir poco improbabile. E quella stessa storia rende meno rilevante se si tratti della candidata perfetta per ricoprire la carica, ponendo semmai la questione di se saprà affrontare il momento fatidico. Occorre considerare che dovrà farlo non tanto sulla base di un proprio programma politico, ma difendendo giocoforza l’operato di un’amministrazione di cui fa ancora parte. Eppure in questi parametri, dovrà trovare lo spazio di smarcarsi in qualche misura dal Presidente che registra tutt’ora gradimenti ai minimi storici, malgrado i numerosi risultati oggettivamente conseguiti, compreso quello di aver fatto retrocedere il paese dal baratro su cui si era affacciato.

Sarebbe ovviamente un errore illudersi che Kamala Harris non rappresenti una continuità nella politica liberista e di egemonismo statunitense, ma è ben posizionata, ad esempio, per articolare la difesa dell’aborto, pratica su cui ha detenuto la delega nell’amministrazione Biden. È avvantaggiata quindi in una materia su cui i repubblicani sono invece assai vulnerabili, specie dopo l’aggiunta al ticket dell’antiabortista JD Vance, e sulla quale le elettrici sono particolarmente motivate, grazie soprattutto alla rabbia diffusa per l’abrogazione del diritto da parte della Corte suprema trumpiana. E ogni presa di posizione dovrà ora essere formulata nell’ottica di ricostituire una coalizione operativa come quelle che portarono alla vittoria Obama e Biden nel 2020 col sostegno di donne, giovani, minoranze e l’ala progressista del partito. E di infondere un entusiasmo che era quasi del tutto dissipato. 

Anche sui giovani la dipartita di Biden dovrebbe giovare, iniettando nuovo interesse in un’elezione che si giocherà in gran parte sulla capacità di vincere apatia e assenteismo. Ogni sondaggio aveva finora confermato la disaffezione, soprattutto fra i giovani, fra due alternative speculari dal punto di vista dell’età. Il passo indietro di Biden ha di un sol colpo modificato radicalmente questa dinamica, lasciando sul campo un solo “anziano uomo bianco”, la cui età, come ha rimarcato qualcuno, accanto alla cinquantanovenne Harris, sembra essere di colpo raddoppiata.  

Non è certo scontato, ma un riposizionamento, anche parziale, sull’infinita strage israeliana a Gaza potrebbe recuperare potenziali voti che per Biden erano ormai perduti. Allo stesso tempo non ci si può fare illusioni sulla ferocia degli attacchi che proverranno al suo indirizzo da parte MAGA. Ed è impossibile sottovalutare la capacità di Trump di veicolare le infinite scorte di bigottismo dal ventre del paese, nel modo più razzista e misogino contro l’avversaria che, in un fuori onda dal campo di golf, ha già definito «so pathetic, so fucking badœ». 

Ma Harris, già sminuita come la “sghignazzante” dagli sgherri di Trump, potrebbe costituire per certi versi un bersaglio più complicato dello stesso Biden. Intanto è una procuratrice e quindi ben posizionata per affrontare un pregiudicato rinviato a giudizio. Da notare anche che si tratta di una black prosecutor, alla pari dei pubblici ministeri afroamericani che da mesi stanno dando filo da torcere a Trump nei tribunali di New York e della Georgia (Alvin Bragg  a Manhattan, Laetitia James a New York e Fani Willis in Georgia). E anche iconograficamente una figura come quella di Harris potrebbe allinearsi con un certo immaginario hollywoodiano. È significativa in questo senso la reazione GOP. Da qualche giorno il presidente integralista della Camera, Mike Johnson aveva avvertito che una sostituzione sarebbe stata “poco democratica”. Lunedì sulla Fox, Stephen Miller, ministro trumpiano per le deportazioni, si lamentava che «non era giusto che avessero fatto spendere milioni in campagna anti-Biden per cambiare a sorpresa». E su Truth Social lo stesso Trump era solo parzialmente faceto nel chiedere un “rimborso danni” per i soldi spesi fin qui.

La strada certo è ancora lunga e i rischi molteplici, ma la partita è ben chiara e le prime indicazioni potenzialmente positive. Se i democratici riusciranno a fare tesoro del senso di urgenza e di emergenza nazionale, il traguardo potrebbe essere a portata di mano, nel più bizzarro dei modi. 

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