Documenta è il museo dei cento giorni, la rassegna d’arte contemporanea che ogni cinque anni, dalla città di Kassel nella Germania centro-occidentale, promuove movimenti artistici all’avanguardia. Arrivata quest’anno alla sua quindicesima edizione, dà letteralmente uno scossone all’idea di arte e di diffusione dell’arte, per diventare una mostra che vuole sovvertire le regole dell’arte e quelle della società. Si inizia con “un approccio curatoriale che mira a un diverso tipo di modello di utilizzo delle risorse orientato alla comunità – dal punto di vista economico, ma anche in termini di idee, conoscenze, programmi e innovazioni”. Il cambio è dato dalla nomina alla direzione artistica non a una sola persona, quasi sempre europea, ma ai nove membri di Ruangrupa, un collettivo indonesiano di artisti, architetti, ingegneri, sociologi, designer, musicisti e scrittori. “Cerchiamo di produrre una nuova estetica, un paradigma etico in cui lo spettatore è obsoleto”, afferma il gruppo nel manuale della mostra. “Il nostro lavoro non dovrebbe essere giudicato da un estraneo, ma in termini di benefici che porta alla comunità che lo crea”. Sovvertire le regole del circuito “altamente competitive, espansive a livello globale, avide e capitaliste” e fare di tutto per capovolgere l’istituzione di Documenta.
I Ruangrupa parlano di creazione attuale come di un ecosistema popolato da collettivi e professionisti non convenzionalmente associati all’arte contemporanea, ma piuttosto a “un’arte a misura d’uomo che opera nei servizi pubblici, nelle scuole, nelle banche, negli ospedali e nelle università, con un ibrido di prassi e forme”. Hanno scelto di organizzare la mostra secondo i principi del lumbung, termine indonesiano per indicare un granaio di riso dove la comunità del villaggio immagazzina il raccolto e lo gestisce collettivamente. Lumbung diventa il modello artistico ed economico interdisciplinare che risponde ai principi di collettività e equa condivisione delle risorse. La modalità con cui definire e organizzare la rassegna è l’altra piccola rivoluzione. Il risultato è un’opera corale firmata da 15 collettivi e 54 artisti per un totale di 1.500 creatori, la maggior parte proveniente dall’emisfero meridionale, praticamente sconosciuti o i cui nomi scompaiono sotto la sigla di un collettivo, divisi tra i cosiddetti membri lumbung e artisti lumbung, in riferimento al metodo di raccolta e gestione del riso. Chi visita Documenta 15 entra in una manifestazione “practice-based”, si trova in una mostra che è un racconto di pratiche ambientaliste, sociali, educative, economiche che appartengono al sud globale del mondo. Una rassegna che si dipana per 32 sedi, distribuita lungo quattro distretti, ciascuno contrassegnato da un colore e da un concetto: il giallo, al centro, corrisponde al cuore della città con i luoghi tradizionali di Documenta; il rosso a nord, nella zona universitaria, dedicato alle questioni sociali; a est, il circuito viola, nell’area di Bettenhausen, nei colossali spazi industriali della società Hübner, il riferimento è all’industria e alla produzione; e il percorso verde legato all’ecologia sulle rive del fiume Fulda. Per tutta l’esposizione l’idea dei Ruangrupa: “Dalla letteratura, alla sociologia, all’economia, alla musica elettronica o all’architettura, creiamo ambienti in cui le persone si relazionano o semplicemente si siedono per parlare di storia dimenticata, nuovi colonialismi e narrazioni migratorie. Non ci sarà molto lavoro, ma ci saranno molti processi”. Uno striscione di protesta è ben visibile sulla facciata Fridericianum: STOP THE KILLINGS. È realizzato dall’artista attivista Kiri Dalena, è un messaggio di RESBAK (Respond and Break the Silence Against the Killings) un collettivo di artisti fondato per organizzare la guerra alla droga nelle Filippine. All’interno dell’austero edificio neo-classico lo spazio espositivo è diventato Fridskul, una scuola utilizzata da artisti e collettivi per discutere e praticare diversi modelli di educazione orizzontale. È proprio questo il lumbung, luogo domestico e spazio sociale dove tutti possono riunirsi, trasformando il freddo spazio museale del Fridericianum in un luogo caldo e dinamico.
Il Wajukuu Art Project, un gruppo basato nello slum di Nairobi, ha realizzato un tunnel che conduce all’interno della Documenta Halle immergendo chi gira per la mostra nell’atmosfera Mukuru con metalli, giochi di luci e suoni che ricordano quelli della città d’origine. In Kenya il gruppo organizza corsi d’arte per i bambini abituati a lavorare nelle discariche. Il Baan Norg Collaborative Arts and Culture, viene dalla Thailandia e gestisce un progetto diviso in tre parti: una rampa per skateboard nella Halle, un teatro di ombre tipico tailandese, il Nang Yai, e un programma per aiutare lo scambio di latte e formaggio tra le fattorie di Nongpho e quelle di Kassel.
Britto Arts Trust è un collettivo del Bangladesh e si concentra sulle politiche nutrizionali e sulle comunità che subiscono gli effetti dell’industrializzazione. C’è anche chi lavora sul riconoscimento della diversità neurologica con artisti e creatori con complesse esigenze di supporto e chi ha organizzato una passeggiata nel parco lungo il fiume tra installazioni fatte da spazzatura per attirare l’attenzione sul trasporto di rifiuti elettronici e tessili verso i paesi del sud del mondo. Il collettivo The Black Archives con il proprio archivio storico composto da documenti e libri di scrittori e scienziati di origine surinamese o africana mostrano cosa possono diventare le pratiche archivistiche quando sono legate alle proteste di una comunità. Così come Les Archives des luttes des femmes en Algérie con più di 60 cartelloni di film, manifesti politici e fotografie relativi ai collettivi di femministe algerine dal 1962, anno di indipendenza del Paese, fino alle rivolte popolari del 2019. Sono esposte le opere di Ceija Stojka, artista rom, che ha raccontato l’olocausto del popolo gitano insieme a quelle di János Balázs, il primo artista rom-ungherese ad affermarsi come tale. Nell’Hallenbad Ost, la piscina costruita nel 1929 in stile Bauhaus , il collettivo indonesiano Taring Padi, che considera compiti primari l’organizzazione, l’educazione e il conflitto, presenta tutto il suo archivio su 600 metri quadri di esposizione. Striscioni di grande formato, poster xilografici e wayang kardus, le marionette di cartone a grandezza naturale, sono le opere d’arte che testimoniano le lotte operaie, contadine e sociali degli ultimi 22 anni. La chiesa di St. Kunigundis è stata trasformata da Atis Rezistans, collettivo di sculture haitiane, in un santuario voudou, pieno di assemblaggi di teschi e ossa umane, reperti di discarica e vecchie parti di automobili. Nella rotonda dell’Hessisches Landesmuseum vengono consegnati ai visitatori tablet e cuffie per attivare una scultura, che rende visibile con la realtà aumentata il sistema di credenze cosmologiche pan-pacifiche che ha ispirato i segni sulla facciata dell’opera d’arte. È uno dei tre contributi artistici di FAFSWAG, un collettivo di artisti lgbtq indigeni della Nuova Zelanda che protestano contro la “cancellazione delle persone e delle identità diverse di genere nelle culture del Pacifico”.
Nel grande piazzale della stazione ferroviaria, per terra, si trovano i disegni di Dan Perjovschi, è il suo Horizontal Newspaper su cui lavora in Romania dal 2010, i temi trattati sono appartenenza, comunità e futuro. Ovunque disseminate nei tanti luoghi di questa edizione di Documenta sono visibili le
insegne del pollo fritto Halal Fried Chicken di Hamja Ahsan, sono lì per mappare gli aspetti della storia islamica, fra sottoculture di fastfood urbane diasporiche e passato coloniale.
La città di Kassel fu il centro cruciale nella politica del Terzo Reich, snodo ferroviario e sede delle principali industrie di armamenti. Venne rasa al suolo dai bombardieri britannici nel 1943 e ricostruita in cemento armato compresso solo negli anni ’50. Per la poca distanza dal confine con la Deutsche Demokratische Republik divenne la “periferia del mondo libero”. Oggi questa risaia comune di arte fatta di archivi e pratiche dialogiche ed esperenziali più che visuali, racconta temi legati ai cambiamenti climatici, alle lotte contro le censure e le oppressioni politiche, contro le speculazioni che distruggono le economie locali, parla di antirazzismo e decolonizzazione, di riconoscimento di soggettività diverse, sposta lo sguardo occidentale verso la collettività nel suo significato più ampio. Con una guerra a un migliaio di chilometri di distanza a est non è solo un esercizio di stile.
Qui il PDF
Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *
Nome *
Email *
Sito web
Do il mio consenso affinché un cookie salvi i miei dati (nome, email, sito web) per il prossimo commento.