Ci risiamo, al primo accenno di ripresa economica è partito il lamento degli imprenditori sulle difficoltà di reperire la manodopera, e si è trovato anche il capro espiatorio: i sussidi, dal reddito di cittadinanza alla cassa Covid per finire al blocco dei licenziamenti.
Non ci sarebbe da meravigliarsi, salvo la constatazione che la replica di un film visto già molte volte rappresenta la smentita più radicale della speranza di uscire migliori dalla pandemia: purtroppo siamo, e restiamo, un Paese dall’imprenditoria in larga parte attaccata all’idea che meno si paga il lavoro, e meno diritti gli si riconosce, meglio è. Del resto, le lacrime di coccodrillo sull’effetto perverso del blocco dei licenziamenti, che adesso tutti scoprono aver lasciato scoperti i giovani perché in larga parte assunti in modo precario, sono dirette non già a ripensare l’autentico florilegio di contratti precari, quanto invece a ripetere l’ennesima variante del film “garantiti contro non garantiti” con il finale scontato che a pagare siano quelli che qualche diritto ancora ce l’hanno.
Eppure una prova della fallacia dell’argomentazione ci è stata fornita: alla Sammontana di Montelupo a fronte di 350 posti stagionali si sono registrate oltre 2500 domande. Sarà perché lì il lavoro è pagato correttamente, si rispetta il CCNL e c’è un sindacato che vigila affinché tutto avvenga nella correttezza? È noto che il lavoro stagionale non è una passeggiata, i ritmi sono davvero intensi e le prospettive lavorative assai limitate, eppure c’è modo e modo di governare questo fenomeno, purché – appunto – si creda che ne valga la pena.
In questo senso non si può certo dire che gli strumenti non manchino: dal diritto di precedenza per le assunzioni della stagione successiva, alla norma – presente nel CCNL del Turismo fin dal 1990 – di “compensare” i mancati riposi e le ore di straordinario svolte durante la stagione con l’allungamento “virtuale” del rapporto di lavoro in modo da maturare eventualmente ratei aggiuntivi di 13a, 14a, ferie e TFR. Norma intelligente, equilibrata, che per funzionare richiede imprenditori e consulenti leali e strutture di vigilanza pronte ad intervenire: tutti elementi sempre meno presenti. E allora scatta il circolo vizioso: chi può non accetta proposte indecenti, ci si lamenta, la colpa viene data alle eccessive tutele, e il film ricomincia.
C’è anche da dire che gli stessi istituti sotto accusa – in primis il Reddito di cittadinanza – rappresentano un esempio di come non fare: al pari delle grida manzoniane sulla carta il beneficiario è tenuto ad accettare più o meno qualsiasi offerta di lavoro a più o meno qualsiasi distanza dal luogo di residenza, di fatto il sistema di incontro tra domanda e offerta – pubblico o privato che sia – non ha saputo “prendere in carico” adeguatamente i soggetti beneficiari, e – soprattutto – il sistema delle imprese si è ben guardato dall’interfacciarsi positivamente con i sistemi regionali del lavoro. Così si è certamente avuto un effetto di positiva riduzione dell’area della povertà (rappresentata dal calo di oltre due punti dell’indice di Gini), ma è mancato del tutto l’effetto leva sull’offerta di lavoro che avrebbe dovuto essere l’altra gamba del disegno riformatore.
Ugualmente, il tanto criticato “decreto dignità” non ha certo “irrigidito troppo” il mercato del lavoro perché è suo merito aver posto il tema di una precarietà eccessiva del mercato del lavoro italiano: se oltre 2 assunzioni su 3 sono a termine, e il tasso di conversione è ridicolmente basso e oltre un terzo delle assunzioni a termine dura fino a un mese c’è qualcosa di radicalmente distorto nel sistema economico! Il guaio è che si è scelto di agire per misure simboliche, concentrate su un singolo istituto anziché riflettere che per effetto della normativa ormai pluridecennale in Italia esistono alcune decine di forme di impiego regolari ma precarie, per cui alla limitazione di una corrisponde la crescita delle altre: allo svuotamento dei vouchers ha fatto riscontro l’esplosione del lavoro intermittente, alla regolazione del tempo determinato un riacutizzarsi del ricorso agli stage extracurriculari o alle forme autonome occasionali.
La pandemia e le misure adottate hanno congelato questo quadro, coprendo fino a dove è stato possibile il lavoro e le imprese: ma sono stati anche introdotti elementi che cambieranno profondamente il sistema. Basti pensare al ricorso al lavoro agile, e al contemporaneo dilagare del ricorso alle vendite online: questi fatti determinano cambiamenti profondi sia nelle organizzazioni d’impresa, che negli assetti produttivi e di servizio, che nei comportamenti dei consumatori, i cui effetti non possono certo essere adeguatamente esaminati in queste note. E poi – ultimo ma certo non per importanza – ci sono i soldi dell’UE, e le collegate condizionalità nel senso delle transizioni digitale ed ecologica.
Ecco: una discussione sul lavoro che sia seria dovrebbe partire da questo scenario, tenendo insieme misure di tutela (un sistema universale di ammortizzatori sociali e di formazione) e un ripensamento complessivo delle forme d’impiego.
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