Il Presidente Draghi ha recentemente rilanciato la necessità e l’urgenza di dare un impulso nuovo alla Politica di Difesa Europea. L’occasione è stata il vertice sui Balcani occidentali in Slovenia, da dove ha rivolto un appello ai Capi di Stato e di governo europei che ha già prodotto decisioni e calendari.
La prima è stata quella di chiedere all’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza Borrell una bozza di documento entro novembre per arrivare a fine marzo a un Consiglio europeo incaricato di assumere decisioni in merito. Questa accelerazione è senz’altro dovuta al modo in cui gli Usa hanno gestito e attuato il ritiro dall’Afghanistan, e al recente accordo AUKUS che sposta platealmente gli interessi dell’alleato americano nel Pacifico.
La prima reazione potrebbe essere di plauso e soddisfazione, nel senso che, “finalmente”, l’ Europa si pone il problema di darsi un’ autonomia strategica anche nel campo militare.
Di seguito, alcune riflessioni su questa politica.
La prima è: come è possibile immaginare una politica di difesa senza una politica estera comune? L’esperienza finora è stata disastrosa, dalla crisi dei Balcani alle due guerre del Golfo, per non parlare della crisi libica, e dell’intero Medio Oriente fino alla delicatissima questione delle relazioni con la Russia e con la Cina e dei rapporti con la Turchia, paese ancora formalmente candidato all’ingresso nell’Unione.
In tutti questi casi, ogni paese ha agito secondo i propri interessi, spesso legati alla propria storia coloniale, pur in presenza di un Alto rappresentante europeo, il quale è completamente scomparso dalla scena. Il risultato è stato comunque quello di totale subalternità alle decisioni spesso scellerate degli Usa che hanno interpretato la lotta al terrorismo come guerra continua.
L’Europa, nel frattempo, ha perso il credito, che pure aveva, come parte del mondo in cui lo Stato di diritto e i diritti umani erano tenuti in conto. Per quale miracolo, oggi, questo caos dovrebbe dar luogo ad una sintonia di obiettivi e di strategie mai conosciuta in passato?
La seconda riflessione, riguarda la relazione tra difesa europea e Nato. Già dalle prime battute si comprende come le sensibilità interne all’Unione siano molto diverse. Alcuni Paesi membri, soprattutto dell’Europa dell’est e dei Baltici, temono che lo sviluppo della difesa europea possa compromettere il rapporto con la Nato. Ricordo, a questo proposito, che prima di essere ammessi a far parte dell’Unione, diventarono membri della Nato. Per rassicurarli, si introducono concetti quali la complementarità e la sinergia con la Nato; ma ciò significherebbe rinunciare all’“autonomia strategica” dell’Europa continuandone la subordinazione al ruolo e agli interessi dell’alleato americano.
C’è poi la preoccupazione di avventurarsi, ancora una volta, in una politica senza aver creato tutte le condizioni per sostenerla, invocando passi successivi e impegni che, in passato, non si sono mai realizzati. Così abbiamo creato il “mercato interno”, senza una politica fiscale; la moneta unica, senza una politica economica capace di sostenerla; l’“allargamento” senza le riforme istituzionali e costituzionali adeguate a una Unione a 27, per ritrovarci ancora con la regola dell’unanimità nelle decisioni del Consiglio su questioni fondamentali. Ci sono quindi tutte le condizioni per ripetere anche in questo caso lo stesso errore.
Un’altra riflessione, decisamente dirimente, si riferisce al fatto che la politica estera e di sicurezza, secondo i Trattati vigenti, è la più “intergovernativa” di tutte. Per intenderci, è quella in cui il Parlamento europeo ha meno voce in capitolo, nel senso che viene informato o, al massimo, consultato. Tutto il potere decisionale è nelle mani del Consiglio europeo e cioè del Governi i quali, a loro volta, sarebbero ancor più “liberati” dal ruolo di controllo e di decisione dei rispettivi Parlamenti.
Quello che si verrebbe a prefigurare con la preconizzata difesa europea sarebbe un ulteriore colpo al parlamentarismo; in una fase di crisi della democrazia e delle sue istituzioni, in cui la tecnocrazia si presenta agli occhi dei cittadini come soluzione alternativa.
Poiché non è credibile che l’ulteriore sviluppo della difesa europea sia accompagnata da riforme dei Trattati, necessarie e conseguenti – nessuno, infatti, ne parla – sarebbe auspicabile una reazione adeguata dei Parlamenti, nazionali ed europeo.
Infine, la questione dei finanziamenti e del ruolo dell’Europa nel mondo.
Se la sinergia tra Paesi europei nel campo della difesa deve portare, come si sostiene, a risparmi nelle spese militari nazionali e complessivi, questo dovrebbe essere reso visibile. Le spese saranno nel Bilancio dell’Unione? Si contribuirà con risorse nazionali? Tutto questo è da chiarire anche perché nel campo del bilancio, il Parlamento europeo ha un vero potere e deve essere messo in grado di esercitarlo.
Ciò che è da evitare, come europei, è di finire schiavi del complesso “militare-industriale” che domina gli Stati uniti d’America, dai cui interessi il presidente Eisenhower mise in guardia i suoi concittadini nel suo ultimo, memorabile, discorso alla Nazione del gennaio 1961.
Per concludere, come pensiamo l’Europa del futuro? Come una potenza che affida alle armi la propria e l’altrui difesa, o come un soggetto politico e istituzionale capace di riprendere seriamente il discorso del disarmo mondiale, della messa al bando delle armi atomiche e capace di affidare le future relazioni tra Stati al dialogo e alla comprensione reciproca?
La posizione dei 12 Paesi che chiedono di finanziare con i Fondi europei la costruzione di muri di confine ci fa capire che innanzitutto dovremmo chiarire cosa intendiamo per difesa europea e, soprattutto, difesa da chi e perché.
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