Scivolare nel prevedibile è il certificato di morte della politica, che dal prevedibile dovrebbe essere l’arte di scartare. Di giorno in giorno e di mese in mese un’Europa senza politica è scivolata verso il redde rationem prevedibilissimo fin dall’inizio della guerra d’Ucraina: che la dissennata strategia di una proxy war condotta tramite fornitura di armi di difesa all’Ucraina (ma, vilmente, senza l’impiego dei boots on the ground) si sarebbe prima o poi trasformata inevitabilmente in una guerra di offesa alla Russia, o quantomeno in una deterrenza minacciosa e non priva di conseguenze. In primo luogo, perché il confine fra difesa e offesa è sempre molto labile, indecidibile a tavolino e comunque scivoloso. In secondo luogo, perché la logica delle armi è una logica che di per sé sfugge ai vincoli di scopo: una volta che ci sono, le armi vanno usate, per difesa o per offesa non importa (e già questa logica sarebbe un motivo sufficiente per bloccarne per decreto mondiale la produzione e il commercio). In terzo luogo, perché la maschera idealista e bugiarda del sostegno all’Ucraina come frontiera di difesa della democrazia occidentale dal dispotismo orientale poggiava sulla scommessa implicita e illusoria dell’affossamento della Russia tramite sanzioni, dell’implosione del regime di Putin, e magari della deflagrazione dell’intera Federazione russa in una miriade di nazionalismi ingovernabili.
In due anni e mezzo di guerra nessuno di questi tre wishful thinking campati per aria si è realizzato. Tocca leggere sulla stampa statunitense, non certo su quella italiana che agita lo spettro dei cosacchi a Tallin e a Varsavia, per quali vie Putin è riuscito non solo a dribblare le sanzioni ma anche a rilanciare l’economia interna e gli investimenti all’estero, a risarcire la classe media traendone ulteriore consenso, a liberarsi di pezzi di apparato ostili, a dosare l’impiego di forze armate sul fronte ucraino in modo da gestire una guerra di logoramento più che di conquista (chi si ricorda più dei 60 km di carri armati che dovevano marciare su Kiev nel lontano febbraio del 2022?). E tocca spiluccare sempre sulla stampa estera le notizie sulle condizioni reali in cui versa l’Ucraina, fra la tragica perdita di un’intera generazione maschile, le fughe dall’ultima e spaventosa legge sulla coscrizione, la caduta del consenso a Zelensky, la rabbia per le promesse non mantenute dall’Occidente e segnatamente dagli Stati Uniti, rei di aver ritardato così a lungo l’ultimo invio di armi boicottato dal Congresso. Domanda: chi era più preoccupato per le sorti del popolo ucraino, chi lo ha armato dai salotti televisivi o noi pacifisti tacciati di filoputinismo che fin dall’inizio abbiamo chiesto invano trattative e negoziato?
Ora che siamo al dunque, cioè all’autorizzazione a usare le armi della NATO contro le basi russe e alla conseguente (ma già vista) esibizione russa di muscolarità nucleare, tre cose sono chiare. La prima è che la tanto sbandierata unità europea sulla questione ucraina ha i giorni contati, come dimostra la già evidente spaccatura fra la Francia, la Polonia, la Germania e i Paesi baltici da un lato, e i paesi riluttanti, Italia in testa, dall’altro. La seconda è che questa disarticolazione dell’Unione europea, con relativo spostamento a destra del suo asse politico e culturale, era precisamente lo scopo non dichiarato di questa guerra, nonché l’unico a essere stato raggiunto. La terza è il carattere surreale della campagna per le elezioni europee che volge al termine dopo un inglorioso svolgimento.
Nella quale campagna di tutto si è parlato e si parla fuori che dell’unica cosa di cui si sarebbe dovuto e si dovrebbe parlare, cioè la guerra e le relative posizioni delle forze politiche in campo. Oppure se ne parla come di una realtà parallela e ininfluente sull’unico gioco che invece conterebbe e che sarebbe il destino di Ursula von der Leyen, a sua volta legato a quello di Giorgia Meloni e di Marine Le Pen: il trio femminile che – noi femministe dobbiamo dirlo con realismo e amarezza – non ha fatto e non fa nessuna differenza dai principi e dai metodi della politica maschile, anzi li rafforza e li legittima ulteriormente.
È due volte surreale, dentro questo quadro, che mentre ci si esercita a indovinare i punti e le virgole della prevedibile avanzata delle destre nel voto dell’8 e 9 giugno, e a valutare quali effetti tale avanzata avrà sul governo dell’Unione, nessuno ammetta, anche e tanto più nel fronte progressista, che la crescita culturale e politica delle destre europee è un frutto diretto della guerra d’Ucraina. È vero infatti che il vento sovranista spirava sul Vecchio continente già prima della guerra, ma è altrettanto vero che la guerra d’Ucraina gli ha dato forme, fini e cornici narrative che prima non aveva: aumentando il peso specifico dei Paesi dell’Est e dei Baltici, facendo naufragare il progetto di un’Europa-ponte fra Occidente e Oriente e alimentando la costruzione di un’Europa-fortezza (armata), portando a compimento il cambiamento sostanziale della costituzione ideale dell’Unione – già autorizzato dal parlamento di Strasburgo con la famosa risoluzione del 2019 – da antifascista a antitotalitaria. Mentre di converso la guerra agiva come cartina di tornasole della fine delle sinistre europee, rimaste prigioniere di quella narrativa neoliberale dell’89-91 e del trentennio successivo che ha impedito loro qualunque scostamento significativo dalla narrativa mainstream del conflitto russo-ucraino.
Niente più del sempre solerte laboratorio politico italiano è emblematico di questa situazione. È stato l’allineamento sulla guerra d’Ucraina a consentire a Giorgia Meloni di legittimarsi sul piano internazionale facendo le sue giravolte dal sovranismo di partenza al “cambiamento dell’Europa dall’interno”, passando per quello stesso atlantismo di ferro a guida statunitense che di fatto, con la guerra, l’Europa la stava smontando. Ed è stato l’allineamento immediato e irriflesso sulla guerra d’Ucraina del Pd di Enrico Letta a impedire al Pd, malgrado i successivi scostamenti di Schlein, di cogliere l’ultima occasione che la storia gli forniva per riflettere autocriticamente sul proprio dna.
Certo, si può e si deve scommettere sulle contraddizioni che la deriva verso l’escalation del conflitto non mancherà di aprire sia a destra, per le note divergenze fra l’atlantismo di Meloni e il filoputinismo di Salvini, sia a sinistra, grazie anche alle “incaute” candidature immesse da Schlein come una spina nel fianco del suo establishment interno. Si può e si deve contare sulla coerenza di AVS, che pure in passaggi parlamentari difficili ha tenuto ferma la barra del no all’invio delle armi, pur se non va taciuta né sottovalutata la posizione interventista dei Verdi europei nel loro complesso. Si può e si deve dare credito alle posizioni antibelliciste espresse dal M5S. Si può e si deve, infine ma non ultimo, appoggiare il tentativo della lista “Pace, terra e dignità” di imporre la centralità del tema della guerra a un sistema politico che nel suo insieme avrebbe voluto nasconderlo come la polvere sotto il tappeto – tentativo che forse avrebbe potuto utilmente puntare più su uno sfondamento mediatico che sulla perigliosa partecipazione alla conta elettorale.
Sono le condizioni minime per andare a votare e per convincere quanti più elettori possibile ad andare a votare. Quello che non si può e non si deve fare, invece, è sperare che una sinistra si possa davvero ricostruire, in prospettiva, continuando a eludere tutti i problemi geostrategici, politici, economici, esistenziali che la guerra d’Ucraina ha rovesciato su un mondo capovolto.
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