Quello di populismo è un concetto assai controverso e rischia di essere un concetto pigliatutto. E’ bene allora dire populismi, e meglio dire “populismi oggi”. L’uso della parola populismo ha oggi, per lo più, questo significato negativo, direi quasi dispregiativo. Chi fa politica populista non si definisce populista, viene piuttosto chiamato populista da chi lo combatte. Però il populismo ha d’altra parte dei quarti di nobiltà storica. Pensiamo al populismo russo, una grande stagione che sta poi all’origine di una grande storia, successiva, di quel paese; al populismo nordamericano, tra l’altro molto legato ad una prima formazione del partito politico; al populismo sudamericano, tutt’altro che defunto. C’è piuttosto da marcare una differenza di fondo tra populismi di ieri e di oggi. I populismi storici avevano sempre l’idea di riportare la storia all’indietro, cioè di ritorno ad una tradizione, nazionale o polare, polemici quindi contro tutti i meccanismi dello sviluppo. I populismi di oggi sono esattamente il contrario: nascono in polemica con i retaggi del passato, vogliono innovare non conservare. Anche se poi servono più alla conservazione che all’innovazione. Sono ad esempio nemici del Novecento, perché vedono e denunciano lì una storia irripetibile e comunque da non ripetere, la storia dei grandi partiti, delle forme organizzate della politica, dello Stato, con le sue regole e procedure e mediazioni, parlamentari, istituzionali. E’ difficile dire se è il populismo a produrre antipolitica, o se è l’antipolitica a produrre populismo. Certo si tratta ormai di due pulsioni strettamente intrecciate, che si alimentano a vicenda e a vicenda si sostengono, contribuendo a una deriva degli attuali sistemi politici verso una sorta di autodistruzione. In questo senso, c’è l’opportunità e la necessità di ripercorrere il processo che, dagli anni ’80 in poi, è venuto avanti sotto il segno di categorie contingenti agitate come valori assoluti, quali innovazione, modernizzazione, nuovi inizi vari, dovunque e comunque. I populismi di oggi sono, per queste ragioni, molto difficili da combattere. Il problema che io mi pongo è come salvare il concetto di popolo dalla deriva populista. Vedo infatti molto il rischio che anche nei partiti, che una volta erano partiti di massa, che si chiamavano partiti popolari, vinca, se non abbia già vinto, una evoluzione o, per meglio dire, una involuzione, di tipo élitistico, con slittamenti in alto verso la autoreferenzialità del ceto politico e in basso verso una cetomedizzazione del riferimento sociale. E’chiaro che ci sono state trasformazioni profonde nella realtà di popolo, per le economie più sviluppate, dagli ultimi decenni del Novecento in avanti. La più evidente, e sorprendente, è la caduta della centralità di classe degli operai dell’industria e dell’agricoltura, che teneva insieme, identificava e organizzava, a partire dal luogo e dal rapporto di produzione, le realtà di popolo. Eppure tutte le trasformazioni non sono arrivate a distruggere il fondamento popolare anche delle più avanzate delle società contemporanee. Il lavoro diffuso e disperso sul territorio, il lavoro precarizzato, la mancanza di lavoro, la stessa immaterializzazione di molte attività e di molte figure di lavoro, la comune persistente condizione di sfruttamento e di alienazione, che si allarga dal lavoratore manuale al lavoratore della conoscenza, non fa, oggettivamente, da sola, già popolo, ma rende possibile la costituzione in popolo di praticamente tutte le persone che vivono di lavoro. Il concetto di popolo chiede oggi più pensiero, e più politica, che nel passato. Anche quello di popolo è in fondo un concetto politico secolarizzato, assieme agli altri concetti politici moderni, sovranità, Stato, diritto. Popolo nasce come ordine sacro. Nelle Scritture, il Signore dice ad Abramo: ti darò un popolo. Jacob Taubes ci ha ricordato come, tanto per Mosè come per Paolo, si sia trattato di fondare un popolo, il popolo ebraico, il popolo cristiano. Personalità profetiche ed entità collettive storiche. Marx, a nome del movimento operaio, non ha forse fondato un popolo, il popolo del lavoro, i lavoratori come soggetto politico, capace di grande storia? La mia tesi è che un popolo, o viene fondato, o, se si autoinveste di propri idoli, come il vitello d’oro, allora produce populismo. Il capo di oggi non è il Principe machiavelliano, portatore di una missione, è il punto in cui si rapprende e si esprime un senso comune di massa, pulsionale, emotivo, vittima passiva di un precedente trattamento molto spesso mediaticamente orientato. Nel momento in cui non si è stati più capaci di dare voce alla società, di fare società con la politica, cioè di organizzare masse attive in lotta per i propri bisogni e interessi, ecco, da quel momento è venuta avanti una deriva populista. Il populismo di oggi è legato molto più a condizioni esterne al popolo, che alla espressione di suoi intimi convincimenti. Non ci sarebbe spazio per il populismo senza il primato dei grandi mezzi di comunicazione, senza questa presa egemonica del virtuale sul reale, senza la dittatura del messaggio mediatico, che ha il compito di creare opinione e distruggere orientamenti. Il populismo di oggi è un populismo senza popolo. E mentre la categoria di popolo chiedeva e produceva pensiero, accade il contrario per la prassi del populismo, che nega in radice la riflessione, essendo pura e dura pulsione. Avete mai visto un capo populista che abbia bisogno di forze intellettuali di riferimento? Le “masse popolari” che diventano la “gente”, esprime, lessicalmente, un passaggio, di fatto, dal tempo della politica come azione collettiva direttamente al suo opposto, all’agire cieco di individui massificati subalterni. Quali i rimedi, se è ancora possibile approntare dei rimedi, per mettere un argine e poi rovesciare il senso di questa deriva, di questa decadenza, che marca, e ogni giorno di più approfondisce, il solco che separa e contrappone cittadini singoli e sfera pubblica? Anch’io non vedo altro essenziale rimedio che un grande processo di riabilitazione dell’agire e del pensare politico, una ricostruzione dei fondamenti della politica, un ridare dignità al necessario professionismo di chi la politica la fa, sceglie di farla, non per interesse proprio, ma per la parte a cui appartiene, parte sociale e ideale, esplicitamente detta e quotidianamente praticata, in pubblico come in privato. E forse allora non basta dire politica. Bisogna dire politica “politica organizzata”. Perché uno dei motivi per cui vince ed avanza il populismo, e con esso il plebiscitarismo, cioè questa voglia di rapporto diretto, verticale, tra massa e capo, è proprio il rifiuto di ogni mediazione tra il basso e l’alto, tra società e istituzioni, tra scelta politica e rappresentanza da parte di una forma organizzata. I partiti, negli ultimi decenni non hanno certo dato buona prova di sé, hanno male assolto ai loro compiti sociali e istituzionali, hanno, invece che contrastato, addirittura assimilato i peggiori vizi di una società civile, chiusa tra individualismo proprietario, vocazione mercatista e interesse corporativo. Ma contro tutto questo, la via da intraprendere non è quella di una distruzione dei partiti, è quella, piuttosto, di un loro possibile rigenerazione. Quando esplose, nel secondo dopoguerra, il fenomeno del qualunquismo, la sua fortuna ebbe breve durata. Perché? Ma perché, nello stesso periodo, esisteva e cresceva – cresceva nel paese – la democrazia organizzata dei grandi partiti di massa. Questa attiva presenza ha tagliato subito l’erba sotto i piedi del fenomeno antipolitico, in quanto le masse si sono ritrovate nelle loro organizzazioni. Se non si organizz a il basso della società, il basso della società si esprime spontaneamente in forme di immediatezza politica, che non è vero che producono cambiamento, producono in realtà nuovi legami, e lo si vede questo poi nel tempo, nuove conservazioni, dipendenze, esse sì, di tipo nuovo. Quindi, ripeto, il punto essenziale è come si riorganizza il terreno politico, di come si torna a selezionare classi dirigenti, ceti politici dal basso verso l’alto, di come si ritorna appunto ad una mediazione tra società ed istituzioni, che sia una mediazione vera, virtuosa, e come, infine, si superi questa autoreferenzialità e questa separatezza e dunque questa lontananza, della politica dalla vita. Indispensabile, il passaggio intermedio, di una liberazione del politico dall’attuale linea di trasmissione dall’economico e addirittura dal finanziario. La tensione, forse prima di tutto culturale, e comunque politico-culturale, da introdurre, è non verso una stagione postdemocratica, come sento dire, ma verso una stagione postpopulista: il che vuol dire, qui da noi, il buttarsi alle spalle, prima di tutto, senza rimpianti, il carico negativo di questa cosiddetta Seconda Repubblica.
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