Il XIX congresso della CGIL potrebbe rappresentare un congresso interessante, di riposizionamento strategico. Per assurdo – mi si passi la provocazione – per quello che sta avvenendo e non solo per i documenti congressuali discussi (che pure in parte interrogano questioni che ripropongo in questo contributo).
Strategico sul fronte della cultura politica di riferimento, sul fronte delle alleanze sociali, sul fronte del governo dei processi (transizione ambientale e digitale) che rimandano ad una stagione di contrattazione collettiva più innovativa e coraggiosa. Sapendo ovviamente che il contesto pesa, i rapporti di forza incidono e che molto non potrà dipendere esclusivamente da noi.
Queste, in estrema sintesi, le coordinate torno cui ruota la discussione, un po’ sotto tono nei media per onestà, che sta accompagnando il lungo percorso congressuale della CGIL. Un rito per alcuni, ma un rito salutare per quanto mi riguarda, rappresentando ancora uno dei più diffusi processi di partecipazione democratica nel nostro paese (quasi due milioni di lavoratori e pensionati che si incontrano, discutono e votano è “tanta roba”).
Coordinate entro cui i vari congressi a cui ho partecipato si sono posti con molti interrogativi (quasi tutti condivisibili), ma per ora con poche risposte “di fase”. I prossimi appuntamenti dovranno provare a individuare qualche risposta, o almeno qualche tentativo di darne, e sarà compito di tutte e tutti noi provarci.
Sul fronte della cultura politica di riferimento sono giunti al pettine (anche alla luce del primo governo Meloni nella nostra storia repubblicana) i nodi di una crisi profonda del rapporto tra rappresentanza sociale di natura generale (quale è la specificità tutta italiana delle confederazioni) e partiti democratici, progressisti, socialisti, ecc. (ognuno chiami come vuole quella sinistra, così come definita da Bobbio, che mette dimensione collettiva, solidarietà e uguaglianza sociale al centro, contro individualismo, meritocrazia individuale e profitto, elementi tipici della “destra”, anche se qui dovremmo discutere delle diverse destre…).
Con la “fragilità” democratica in cui siamo immersi (per cui l’astensione è parte più visibile, ma non unica) che va assunta come questione di fondo.
Del resto se la rappresentanza politica entra in crisi, si indebolisce anche l’azione e la strategia di alleanze della sinistra sociale (una questione di “egemonia persa” o di “rivoluzione passiva” per stare alle categorie di Gramsci), con il rischio, per noi, di rinchiuderci o in “difesa corporativa in azienda” o in “testimonianza sociale nel territorio”.
Personalmente ritengo che la “crisi della politica” e la “crisi della sinistra” siano anche un nostro problema, a partire dalla fatidica domanda (che in realtà ci trasciniamo da anni, sin dall’esplodere del fenomeno leghista) “come fa un lavoratore ad essere iscritto, finanche militante e delegato della CGIL e poi votare forze dichiaratamente nemiche della nostra visione di società, in termini di trasformazione sociale, ambientale, relazioni umane, ecc.?”. Quanto rimanda questo alla nostra funzione di “agenzia formativa”, di soggetto che fa cultura e pratica politica? Quanto incide questo sullo smarrimento, non tutto per nostra responsabilità (su questo sono preoccupato della deriva CISL), di ogni vocazione unitaria all’interno del movimento dei lavoratori?
Questo tema è emerso negli interventi. Per assurdo più nei delegati più “grandi” e in quelli più giovani (contaminati, nel senso buono, da una sensibilità ambientalista e di impegno nell’associazionismo molto elevata), meno nel “corpaccione” dell’organizzazione. Onda lunga, forse, di una stagione di “populismi” che stanno cambiando la nostra pancia e la nostra testa e che rimandano alle difficoltà, come CGIL, di essere soggetto riconosciuto di trasformazione anche dai nostri stessi iscritti.
Ovviamente il richiamo alla Costituzione e all’antifascismo sono richiami presenti nel dibattito congressuale, ma essi bastano?
La prima “domanda” rimanda ovviamente di riflesso alla seconda, perché il rischio è di intraprendere scorciatoie per cui invece di affrontare la nostra crisi di rappresentanza, che è crisi di insediamento, crisi di interpretazione del lavoro e della produzione di valore che è già cambiata, crisi finanche di diversi strumenti contrattuali, si rischia di pensare che “una sorta di massimizzazione delle alleanze spurie” tra sindacato e movimenti possa colmare una difficoltà tutta dentro i luoghi di lavoro, nelle filiere, nella “ricomposizione” del lavoro.
Sia chiaro: nessuno come me oggi ritiene che vada estesa una contro narrazione e una contro pratica che a partire dal territorio produca vertenze dal basso. Vertenze in grado di spostare dai consumi privati a quelli sociali le politiche economiche, dal lavoro “partendo dall’offerta” al lavoro che parta dalla “domanda” le politiche industriali (domanda green, domanda di nuovi servizi, di nuovo riuso, economia circolare, rigenerazione, ecc.). Ma questo non può essere sostitutivo del nostro “mestiere” di sindacalisti che dalla parzialità degli interessi che rappresentiamo, proviamo a mettere il lavoro al centro di dinamiche di trasformazione generale dei rapporti sociali.
E arriviamo al terzo punto: l’accelerazione pandemica, il PNRR, la nuova divisione internazionale del lavoro, la capacità di calcolo e l’intelligenza artificiale, obbligano a ripensare gli strumenti del nostro agire quotidiano, per garantire coesione sociale e governo dei processi, governo della più grande riconversione degli apparati produttivi del nostro paese rispetto agli ultimi 70 anni.
Per dirla con una battuta governare e accompagnare, senza tanti scossoni, milioni di persone dal lavoro “dark” a quello “green”, dal lavoro analogico al lavoro digitale (con tutti i rischi che questo comporta, se non governato, fino a possibili saldi negativi sul totale dell’occupazione disponibile; cioè se non interveniamo sul “come” oltre che sul “cosa” produrre, non è detto che il futuro non distrugga più posti di lavoro di quanti ne crea).
E allora governare questi processi vuol dire governare i saperi e renderli disponibili, governare/ridurre/riarticolare gli orari e le organizzazioni del lavoro, governare i processi ed estendere le tutele non solo nel posto di lavoro e nelle filiere, ma anche probabilmente nel mercato, nelle discontinuità, nelle obsolescenze professionali ecc.
E questo rimanda a quale ruolo dei CCNL e della contrattazione di secondo livello. A quale dimensione dare al territorio anche in termini di governo di processi in un Paese come il nostro fatto di piccole e piccolissime aziende. Che fare di possibili strumenti di riunificazione di ciò che tecnologie, discontinuità, frammentazione dividono (gli enti bilaterali e il mutualismo), fino alla sfida da portare alle nostre controparti: come pensano le aziende di governare il cambiamento? Dove vogliono collocare il sistema Paese in un nuovo scenario dove l’Europa e il suo modello è uno dei diversi “modelli ed equilibri” possibili? Come intendono usare questa disponibilità straordinaria di investimenti pubblici (e speriamo anche privati) per “riforme di struttura” che facciano aumentare benessere diffuso, consumi e – per usare sempre l’accetta – una “produttività sostenibile”?
Queste le domande più interessanti che stanno emergendo qua e là. Domande che dobbiamo provare a far vivere, pena il ripetersi – quello si un rituale nel senso negativo – una narrazione per cui ricerchiamo parole d’ordine rassicuranti più per noi che per quello che abbiamo intorno, più per equilibri interni (che pizza!) che per aperture al nuovo. Rischiando alla fine come pesci in un acquario di scambiare la palla in cui nuotiamo con l’oceano.
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