Articolo tratto da “DINAMOpress” in virtù di un accordo di collaborazione (https://www.dinamopress.it/news/usa-al-bivio-10-yes-she-can/).
Dopo gli eventi “fatidici” di un’estate che ha stravolto una gara già epocale, la campagna elettorale americana ha imboccato la dirittura d’arrivo. Il ribaltone di luglio ha proiettato Kamala Harris alla candidatura, e la convention di agosto ha rappresentato il superamento della sua prima prova. La vice-presidente si è presentata sul palco di Chicago con un discorso che ha trasmesso una sicurezza e disinvoltura che erano assenti l’ultima volta che si era presentata sulla scena nazionale. Nella breve stagione delle primarie del 2020 era infatti parsa meno che carismatica e in difficoltà nell’articolare un’identità politica precisa. La sua campagna allora era implosa prima ancora dei primi scrutini in Iowa e la sua corsa era ammontata alla partecipazione a solo cinque degli undici dibattiti fra aspiranti democratici (la partita quell’anno si sarebbe in definitiva giocata fra l’ala moderata di Biden e i progressisti di Bernie Sanders.) Vagamente centrista e senza forte “narrativa personale,” l’allora senatrice californiana aveva lasciato un’impressione più debole di molti altri pretendenti (oltre a Sanders, Amy Klobuchar, Pete Buttigieg ed Elizabeth Warren, per citarne alcuni). A Chicago tutti e quattro quegli ex-avversari (e tutti i maggiorenti del partito) hanno parlato a favore della sua nomination, e lo show ha racchiuso la “narrazione” così essenziale alle campagne politiche e che in questo caso ha dovuto essere confezionata in tempi record.
Oltre a consacrare la candidata, la convention ha quindi rappresentato un successo per lo stesso partito. I democratici sono parsi disciplinati e univoci, unificati nelle componenti principali – la sinistra di Sanders ed Alexandria Ocasio-Cortez, il centro clintoniano e di Nancy Pelosi e i donors, i cruciali finanziatori che hanno permesso alla campagna di infrangere ogni record di fundraising. A Chicago sono riapparsi insomma i contorni della Obama coalition – l’alleanza fra giovani, donne, sindacati e minoranze – che per i democratici rimane la formula vincente. L’obiettivo è di ricostituirla sulla base del superamento di un trumpismo tutt’altro che scongiurato e che pende damocleo sul futuro del paese. In questo quadro, le elezioni verteranno (ancora una volta) sulla traiettoria dell’esperimento americano nel momento in cui uno dei movimenti più reazionari della sua storia tenta di invertirne radicalmente la rotta. «L’ambizione del popolo americano è di andare oltre, verso un futuro di ottimismo non delle divisioni fomentate fin qui», ha affermato la stessa Harris nella prima intervista rilasciata una settimana dopo la convention alla CNN. È su questo terreno emozionale che Kamal Harris tenterà di mantenere il discorso, più che sullo specifico dei programmi politici ed economici che molti le chiedono di argomentare – mentre a Trump viene data apparente licenza di spaziare nel consueto demenziale repertorio.
Sacrificate, nella narrazione del “nuovo capitolo”, anche l’ambientalismo e l’immigrazione, su cui Harris sembra più che disposta a fare concessioni strategiche, e soprattutto la geopolitica, dove la retorica riconferma un egemonismo americano senza ombra di ripensamenti. Sotto al tappeto delle dichiarazioni di circostanza sono dolorosamente destinati a rimanere anche lo sterminio di Gaza e la pulizia etnica perpetrata dal pericoloso, fanatico regime di Gerusalemme – un argomento di cui ci occuperemo qui in una prossima puntata. La strategia è finora parsa efficace. In un’elezione destinata a decidersi in buona misura su affluenza e partecipazione, la base è parsa da subito rimotivata e invigorita dal ricambio generazionale. La gratitudine per la nuova candidata è stata proporzionale alla depressione che l’aveva preceduta e “joy” è stato appropriato come cifra di una candidatura la cui popolarità è parsa aver sorpreso in parte lo stesso partito. La risata di Kamala Harris, in passato criticata come “sguaiata,” è stata d’improvviso rivendicata come quella potenzialmente in grado di seppellire Trump. La demistificazione (invece della sola demonizzazione) del trumpismo, è stata adottata come strategia elettorale. La tattica dissacratoria è stata evidente anche nell’adozione del termine “weird,” (“strano”, “strambo” – inizialmente introdotto dal candidato vice, Tim Walz) come termine derisorio più efficace delle denunce di un pericolo antidemocratico che in qualche modo accordava una involontaria importanza agli avversari.
Come suggerito dalla stratega progressista Anat Shenker-Osorio, il ridimensionamento intenzionale dell’avversario è un modo per innescare l’effetto “Mago di Oz” calcolato per sminuire l’uomo «poco serio» (definizione di Kamala Harris) che dietro la tenda manovra il proprio bombastico personaggio. Che il narcisismo incoerente di Donald Trump sia ancora in grado di sedurre metà dell’elettorato americano, deve considerarsi una misura non di mera insoddisfazione politica ma di squilibrio psichico di una società che sembra aver esaurito una forza propulsiva coerente. E la dimensione psico-emozionale è destinata a essere componente prevalente anche nella mobilitazione dell’elettorato. Se il compito della convention era di formularne una narrazione coerente, la master class in materia l’hanno data gli Obama. Barack che ha deriso «la strana ossessione» (molto freudiana) di Trump per la grandezza delle folle. E soprattutto Michelle, che in un magistrale discorso ha dimostrato perché rimarrebbe per molti la candidata ideale. L’ex-first lady ha inquadrato lo scontro in atto come quello fra i diritti duramente conquistati «dai nostri avi e dalle nostre madri, e coloro che vorrebbero strapparceli». Una battaglia che vede gli Afro-Americani ancora una volta in prima linea contro il ritorno di colui che Ta-Nehisi Coates ha memorabilmente battezzato «first white president», Donald Trump come prodotto di una «controriforma bianca» e reazione alla presidenza Obama, mai digerita dall’America più retriva e nostalgica di una “grandezza del passato” con tutto quello che questo implica.
In risposta al progetto di una destra che intravede l’opportunità di azzerare, assieme a diritti, «l’egemonia culturale» della sinistra accumulata in cinquanta anni di progresso civile, il pubblico dello United Center, trasformato improvvisamente in congregazione infervorata da black church, ha scandito «we won’t go back!» – non torniamo indietro! Lo slogan ha ricollegato la campagna alla militanza e la lunga parabola di emancipazione nera come forza propulsiva progressista dell’ultimo mezzo secolo. Ricomponendo questo ordine simbolico, Michelle Obama ha posto la spinta verso un futuro migliore come obbiettivo centrale e tangibile di un partito che tenterà di sbarrare la strada a quella che Kevin Roberts, direttore della Heritage Foundation, ha chiamato la seconda rivoluzione americana per riportare il paese a «valori originali» che i neri conoscono fin troppo bene: rivoluzione «che rimarrà senza spargimento di sangue» – ha aggiunto Roberts – «a meno che la sinistra non lo voglia».
L’entusiasmo dei presenti ha raggiunto l’apice quando l’oratrice ha denunciato gli attacchi della destra alle pari opportunità e le politiche di integrazione (affirmative action; DEI) che sono bersaglio favorito di Trump, e più recentemente, di Elon Musk. «Noi non abbiamo il lusso di ricadere sul benessere generazionale, non conosciamo il privilegio di cavarcela sempre. Noi dobbiamo lavorare!», ha tuonato, veicolando generazioni di attivismo e implicando nella lotta atavica gli attuali giga-capitalisti e oligarchi rampanti. Il passaggio del testimone obamiano alla candidatura Harris che Michelle Obama ha definito come il «comeback of hope», ha insomma voluto riappropriarsi dell’idealismo dopo il pragmatismo della presidenza “normalizzante” di Biden la cui missione, post-pandemia e post-tentato golpe, era principalmente di pacificare il paese. Per tutti i (molti) danni della identity politics, è una formulazione di efficacia immediata per le minoranze americane, il senso di una lotta per il futuro di un paese al crocevia fra progresso verso l’uguaglianza, e regressione reazionaria e suprematista. Mentre si moltiplicano le manovre per sopprimere il voto democratico in stati ad amministrazione repubblicana come Texas, Georgia, Nebraska e Alabama, il messaggio inclusivo rappresenta nel modo più efficace l’opposizione diametrale a quello divisivo della diatriba trumpista.
«La nuova energia deriva dal fatto che la gente si riflette nella candidata in modo diverso», ha affermato Stacey Abrams, figura di punta della nuova generazione di leader afroamericane. «Kamala Harris è la dimostrazione che genere, razza ed etnia sono elementi di valore». Un concetto meritocratico che si contrappone a quello “darwiniano” che i Musk e i Trump vorrebbero applicare alle fabbriche e all’immigrazione. La nuova topografia politica pone un serio problema per Trump ed il suo movimento, impostato su xenofobia, astio, rancore, i cavalli di battaglia della destra retrograda, autorizzata da un decennio di retorica trumpiana. Ma il brand ha perso un po’ di smalto, il materiale riciclato nei comizi è stanco – e l’immagine generazionale contravviene alle leggi del marketing.
Trump ha stentato a riorientare la mira e riposizionare l’attacco contro la nuova avversaria, attaccandola inizialmente dapprima, risibilmente, come la bolscevica «Comrade Kamala». La risposta iniziale è consistita nel copiare e parlare più forte («la vera gioia l’abbiamo noi», «sono io il più fotogenico», «tutelerò io di più i diritti delle donne»), enormità che hanno tradito soprattutto lo smarrimento di una campagna presa in contropiede. Il dietrofront su aborto e fecondazione assistita, non solo dà la misura dell’opportunismo di Trump, ma rischia seriamente di pregiudicare la coalizione essenziale con gli oltranzisti religiosi. Allo stesso tempo sono stati solo un assaggio delle riserve di invettiva, tossicità (e impunità) che promettono di far impallidire l’arsenale di insulti e insinuazioni impiegato contro Hillary nel 2016. Iniziati con i dubbi insinuati sull’autenticità della “blackness” dell’avversaria, nel giro di una settimana gli insulti sono arrivati alle domande sul «ruolo dei pompini nelle carriere di Hillary Clinton e Kamala Harris».
Al contempo Trump ha accolto l’endorsement di Robert Kennedy Jr. e la sua finta campagna complottista e no vax. Sui siti di destra hanno preso a circolare meme di un governo “ideale” con Trump, Vance, Elon Musk all’economia, RFK Jr. alla salute. Le distinzioni non potrebbero essere poste in termini più chiari. Il fattore novità e (relativa) gioventù hanno iniettato nuovo vigore in una campagna che era stata moribonda. Nella consapevolezza che il traguardo è ancora lontano e che, come hanno ricordato gli Obama, verranno inevitabilmente commessi anche degli errori, è sulla base di questo nuovo “feeling” che l’America dovrà respingere l’uomo che per la terza volta insidia la democrazia. E c’è un’altra ineluttabile consapevolezza. Nell’arcaico e antidemocratico sistema intermediato americano, non basterà una maggioranza del voto popolare (quasi certa, come dopotutto avvenne sia nel 2020 che nel 2016). Ma occorrerà prevalere nei sette “swing states” e farlo in maniera sufficientemente decisiva da neutralizzare le manovre che le forze trumpiste stanno già preparando per tentare di sovvertire nuovamente i risultati.
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