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Che un’intesa per fermare i combattimenti si fosse delineata già 1-2 mesi dopo l’attacco russo non era un mistero – ne aveva parlato nel novembre 2023 anche il capo della delegazione ucraina Arakhamia – ma non era chiaro fino a che punto fosse avanzata la trattativa, e se riflettesse effettivamente una disponibilità di Mosca a compromessi relativamente ragionevoli.

Il testo dell’ultima versione della bozza di accordo, del 15 aprile 2022, pubblicato da Die Welt il 25 aprile scorso, risponde positivamente a questo interrogativo: le forze russe, che già avevano evacuato le zone occupate nel Nord, si sarebbero ritirate dalle altre regioni occupate fuori del Donbass; mentre l’entità del ritiro dalle province di Donetsk e Luhansk (il Donbass, appunto) era rinviata a un round finale di negoziati diretti fra Putin e Zelensky.

Nucleo essenziale dell’accordo era la neutralità permanente dell’Ucraina (in quella fase l’obiettivo principale di Mosca), con l’impegno a non chiedere l’ammissione alla NATO e non accogliere basi o truppe straniere. Luce verde invece alla adesione all’UE, in contrasto con le pressioni esercitate nel 2013 su Yanukovich, causa della insurrezione di Maidan.

Quanto agli altri obiettivi originari dell’invasione, la “smilitarizzazione” (non completa) era ancora oggetto di trattative, con ampie divergenze sui tetti numerici di truppe, mezzi corazzati e gittata di missili; la “denazificazione” non significava più l’insediamento di un governo fantoccio, ma solo l’abrogazione di leggi di sapore nazionalistico relative alla memoria storica; e anche a questo riguardo Kiev non aveva ancora ceduto.

In cambio della neutralità e del disarmo parziale, l’Ucraina avrebbe ottenuto garanzie di sicurezza dai P5 (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU) e da alcuni altri paesi (peraltro non consultati).

Un articolo pubblicato il 16 aprile scorso da Foreign Affairs, basato su numerose interviste con protagonisti di quella vicenda diplomatica, conferma che sono stati “negoziati che avrebbero potuto mettere fine alla guerra” (questo il titolo in inglese: “The Talks That Could Have Ended the War in Ukraine”) e che l’accordo era prossimo alla finalizzazione, non una semplice ipotesi di lavoro.

Vi si ricorda che le trattative furono iniziate poco dopo il fallimento dell’assedio di Kiev all’inizio di marzo, in Bielorussia, con la mediazione di Lukashenko, e furono poi proseguite in Turchia; un canovaccio di accordo (“Key Provisions of a Treaty on Ukraine Neutrality and Security Guarantees”) fu annunciato a Istanbul con un comunicato a seguito dell’incontro del 29 marzo; furono poi scambiate varie versioni del testo – l’ultima il 15 aprile – e si prevedeva che i due presidenti potessero risolvere gli ultimi punti controversi e firmare a fine aprile o poco dopo.

Gli autori definiscono “sorprendente” la disponibilità della Russia a soluzioni di compromesso, e la spiegano con gli insuccessi militari che avrebbero indotto Putin a cut losses, ad abbandonare quindi la mal pianificata avventura per limitare i danni.

Non negano che la decisione di Zelensky di affossare il piano sia stata influenzata dal messaggio negativo portato da Boris Johnson, venuto in visita a Kiev il 9 aprile: non vi fidate di accordi firmati da Putin, continuate a combattere, vi forniremo gli aiuti necessari. Ma l’affermazione di Putin secondo cui gli anglo-americani avrebbero costretto il presidente ucraino a tirarsi indietro, in modo da logorare e indebolire la Russia, sarebbe semplicistica. Infatti i negoziati proseguirono per almeno una settimana dopo quella visita. Zelensky si sarebbe irrigidito dopo la scoperta delle atrocità commesse dagli invasori a Bucha e Irpin, e sarebbe stato incoraggiato dagli insuccessi russi e dalle promesse occidentali di aiuti a mirare a una vittoria.

Rimane il fatto che il Primo Ministro britannico, e sia pure in modo meno drastico, gli statunitensi negarono il loro sostegno all’accordo (“It is a non-starter”) perché prevedeva un impegno, loro e degli altri garanti, ad assistere militarmente l’Ucraina se attaccata. Dunque una garanzia “assoluta”, a differenza di quella concessa con il Memorandum di Budapest del 1994, e più vincolante persino dell’articolo 5 del Trattato NATO. Era però rimasto da sciogliere un nodo che (forse volutamente) poteva far deragliare tutto il progetto: la Russia pretendeva il diritto di veto su qualsiasi azione collettiva o individuale in difesa dell’Ucraina (!)

Il naufragio di quell’accordo fu dunque dovuto in misura rilevante anche se non esclusivamente al rifiuto anglo-americano di impegnarsi ad affrontare militarmente la Russia nel caso di una nuova aggressione. Il che è più che comprensibile; ma allora quanto può sentirsi protetta l’Ucraina dall’ombrello NATO qualora ammessa?

Oggi la situazione è molto cambiata rispetto a due anni fa, con le forze russe in avanzata e quelle ucraine allo stremo, per cui ci si può aspettare una posizione negoziale russa assai più dura di allora. È perciò interessante che Lukashenko l’11 aprile, in presenza di Putin, si sia pronunciato in favore di un negoziato partendo da quell’accordo, da lui definito “ragionevole”.

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