Qui la locandina del convengo “Rossana per noi“, che si terrà il 22 e il 23 aprile al Teatro Argentina a Roma, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura.

Lo specchio convesso del vulcano
di Alberto Olivetti

Articolo pubblicato sullinserto speciale “Il secolo di Rossana” de “il manifesto” in uscita il 23 aprile 2024.

A Rossana, di Ginostra, credo di aver parlato fin dal 1968. Allora, per la prima volta, mi ero recato a Ginostra sull’isola di Stromboli e vi avevo trascorso un mese tra il luglio e l’agosto.

Ginostra, io studente di filosofia alla Sapienza fortemente impegnato nel movimento del Sessantotto a Roma, mi aveva subito avviluppato in difficili ragionamenti, e ne ero tornato portando nel bagaglio le domande, non di poco conto, che quel soggiorno aveva suscitato in me. Argomenti che, da allora, lungo gli anni, ho studiato con una qualche costanza e ho cercato di dipanare: il tempo della natura e il tempo della storia; la contemplazione e quanto interviene a mutare la relazione sociale; la pittura come teoresi in rapporto alla filosofia. Sono passati quasi sessanta anni e, vecchio come sono, posso dire che su Ginostra ho misurato la gran parte delle forme della mia quale che sia consapevolezza.

Nel 1981 Rossana decise di passare a Ginostra il mese di agosto. Da ormai tredici anni io avevo fatto di Ginostra il luogo di lunghi soggiorni approfittando degli intervalli che mi erano consentiti dal regolare svolgimento del mio lavoro universitario. Di quelle settimane nell’isola Rossana scrisse, in settembre, su «il manifesto». I fantasmi di Ginostra, questo il titolo di un intenso articolo che le valse non ricordo quale premio giornalistico, e che ristampò in Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986, pubblicato nel 1987 da Feltrinelli.

Era un articolo di denuncia. Rossana scriveva: «I fantasmi di Ginostra girano di giorno. I più evidenti siamo noi… siamo fantasmi perché transitori e voraci: poggiamo sull’isola e ne assorbiamo un pezzo, poi ce ne andiamo e chi s’è visto s’è visto. E non che siamo ciechi; solo che quel che ne vediamo lo guardiamo come i fichi d’india o le sassaie o lo scoglio che ci spella». Le sembrava intollerabile che quei «fantasmi in cerca di abbronzatura» non ‘vedessero’ Ginostra come «la forma estrema della spossessione e del declino» del Mezzogiorno. E come, si chiedeva, non farsi allora attiva parte, prendere l’iniziativa e denunciare uno Stato «che prima lascia il sud ammalarsi poi ne affitta, grazie all’estate, la malattia»?

In quelle pagine ritrovo gli argomenti politici (l’emigrazione, l’incuria, l’abbandono e come intervenire e sanare) e, quasi a contrasto, i discorsi sulle bellezze intatte e immemoriali dell’isola (i tramonti sul mare, gli stellati delle notti col bagliore del fuoco dei crateri) che animavano le discussioni nostre di quei giorni. Con Karol, con Maria Luisa Boccia, con Nini Mulas, con Giulio Einaudi. Nelle pagine dell’articolo le ragioni di carattere ‘civile’ si intrecciano alle notazioni delicate, commosse che Rossana, «affascinata da questa terra in agonia», tratteggia. Lo fa ora osservando il «cassone da marinaio dal coperchio dipinto (uno schooner tutte le vele al vento)»; ora la «tenda nuziale un po’ appassita, con l’orlo a smerli che sfiora l’antico pavimento». E gli «stravaganti fiori del cappero»; o, tra gli ulivi, il «tappeto scricchiolante di foglie sotto i tronchi annodati». O quel sentirsi conciliata «assieme ai miei cari gechi e lucertole, in pace ormai col topo con cui ho condotto e perduto una cavalleresca guerra». Ma quell’articolo è motivato da una ragione politica sullo sfondo della quale, certo, avverti lo spettacolo della natura che a Ginostra determinava in lei una speciale tensione, al contempo intellettuale e sentimentale.

Torno a quei lontani giorni di mare e di sole. Torno a quel ricco intreccio di lucidità e di passione che dava il tono alle serate, durante le conversazioni a tavola, alla luce delle lampade a petrolio, le falene volteggianti. Giulio, con cortesia sorniona, facendo mostra di voler rispettosamente temperare certe punte polemiche di Rossana, otteneva il risultato (previsto, quando non, ad arte, cercato) di renderle, se mai, più acuminate. E Rossana segretamente (ma poi non tanto) a suo modo soddisfatta di poter constatare un limite ‘estetizzante’ in Giulio. Karol, da parte sua, decise pochi giorni dopo l’arrivo di ripartire con la prima nave. Abbandonò senza indugio la Natura per tornare quanto prima nella Storia.

Dipinsi il ritratto, Rossana in posa, in tre o quattro sedute, di mattina, prima di scendere insieme, lungo le vene delle antiche lave, fino agli scogli di Lazzaro. Del ritratto non sta a me dire oltre. Cedo la parola a Rossana. Chi ha letto La ragazza del secolo scorso sa bene il rilievo che la pittura ha nella sua formazione (le lezioni di Storia dell’Arte di Matteo Marangoni, la laurea in Estetica con Antonio Banfi) e il suo costante colloquio con «gli amati dipinti», come scrive. Riporto questa sua riflessione: «Dipingere è tradurre consapevolmente un ‘vero’ in segno e colore. Nel ritratto sono in tre, l’opera che nasce dal pittore (mano e coscienza e cultura) fra due, dei quali uno guarda e l’altro è guardato, scomposto e ricomposto, una relazione della quale il meno che si possa dire è che è assai problematica, forse perversa»

Tematiche intorno all’arte sulle quali ci piaceva di intrattenerci, lei ed io, talvolta «sotto quegli ulivi, dietro al frondeggiare di tenere foglie, il ramo già spoglio che sempre gli sta accanto, esili dita alla Giacometti che avvertono, fra un anno, fra due, sarai come me».

Lasciata Ginostra, Rossana, a settembre da Roma, mi inviò questa lettera: «Alberto, ho passato un’ora non col tuo quadro, come ho valorosamente fatto in questi giorni, ma col mio ritratto. Avevo ragione di temerlo. Hai dipinto quel che più pesa e, non capisco come, il mio terrore più grande – forse, spero, infondato. Vuol dire che la pittura è una lettrice spietata, quando è – e che tu sei un pittore. Questo è quel che conta. Solo per dirti perché non potrei viverci assieme ora, finché la paura non sarà finita. Questa è una comunicazione personale e da scordare – se non per quel che conta. Che dipingere è ancora un modo di conoscere e di dire, cosa che avevano tentato di farci dimenticare. Ciao, Rossana. E poi ci sono le cose preziose con cui si dà forma al …, lasciamo andare. C’è un’innocenza della materia, un suo splendore».

Rossana Rossanda e Alberto Olivetti, Ginostra, agosto 1981. Fotografie di Katia Tenenbaum.

Da donna a donna, da amica ad amica
di Maria Luisa Boccia

Articolo pubblicato sul sito del CRS il 24.09.2020.

Faccio a Rossana Rossanda la promessa che feci a Pietro Ingrao cinque anni fa. Lavorerò per tenere viva la sua opera, di cui è parte essenziale come è vissuta. Ora posso condividere con voi qualcosa di quello che è affiorato.

Sul computer ho un file, che ho nominato “la mia Rossana”. Ma è sbagliato. Rossana non è “mia”, non è “nostra”, qualunque cosa intendiamo con questo: marxista, comunista, del Pci, del manifesto, del femminismo, o del rapporto privato. Neppure è della storia d’Italia, o della storia d’Europa. Non c’è definizione che le si addice; ne ho lette tante, alcune più felici di altre, ma alla fine mi sono apparse tutte riducenti.

Rossana è del mondo, perché nel mondo ha abitato, con la mente, con le passioni, anche con il corpo. Ne ha ascoltato le voci, sentito i bisogni e desideri, condiviso le vicende; sempre scegliendo una parte, mai appartenendo soltanto e del tutto ad una di essa.

Lo dico con le sue parole: “Voglio essere ebrea se l’ebreo è quel che in noi può essere sempre l’altro”1. Si è pensata e vissuta così, sempre. È dall’altra che le è venuta la coscienza di sé donna, che l’ha trasformata profondamente, senza divenire la sua identità prima, tanto meno esclusiva. Non è stata trascinata dall’onda del femminismo, anzi a lungo ha opposto resistenza: “Interessante, dicevo, e tornavo alle mie vastissime faccende”2. Dalle quali non si farà distrarre mai, piuttosto le ha intrecciate, riordinate, nominate altrimenti.

Non voglio perciò parlare solo di Rossana femminista, del resto, anche il nostro rapporto non è stato solo questo. Traggo alcuni frammenti dall’immersione di questi giorni. Nel 1943, studentessa, frequenta quotidianamente la Biblioteca di Warburg: “Sprofondavo tra ombra e ombra nel colore del silenzio”3. Dopo pochi mesi dovette dire “addio alla bellezza che poteva esserci nella solitudine del sapere, capire, vedere”4. Perché “non bastava più capire, occorreva intervenire”5. Non vi tornò più, ma “ero stata là e là sarei rimasta come se fossi stata marcata una volta per sempre”. “Per chi si fece adulto in quegli anni l’identità non sarà mai un fatto privato… tutto il mondo passò sopra di noi e da allora non cessò di passare”. E il rombo è così forte che non sente la voce delle donne; al più l’avverte come “un particolare modo di patire o fuggire”.

Con sintesi mirabile nella sua asciuttezza, scandisce le date della sua vita: “A quindici anni è la guerra, a venticinque la guerra fredda, a trentacinque è il comitato centrale del più grosso partito comunista d’occidente, a quarantacinque questo partito si libera di me… A cinquantacinque eccomi qui, nel riflusso dell’onda di una mareggiata di cui conosco le andate e i ritorni e che mi trascinerà sempre. La mia persona è scandita dai fatti altrui: Stalin non l’ho scelto, le masse non sono una frequentazione facoltativa, sono entrate e uscite decidendo i tempi di me-donna. Donna? E le altre donne? Il rombo di questo tempo è stato così forte che la voce delle donne non la ricordo: quella che decifro oggi nelle amiche femministe non l’ho avvertita mai prima”.

E ne restituisce il senso: “C’è un filo che corre fra chi crede nelle stesse cose (specie se deve lottare per essere, specie se è dura) che non è un rapporto personale né di amore né di amicizia; ma è un rapporto straordinario. Chi lo crede astratto (…) non ha mai conosciuto quel contatto fuggevole e permanente, fatto di volti mai visti, riconosciuti, sguardi, linguaggi… Per il resto ho corso in quegli anni guardando le donne distrattamente, vedendole soltanto o per quelle supersfruttate che anche sono. Questo mi era chiaro ed era chiaro anche ai compagni maschi. Con i quali forse il tacito contratto fu che io, non vedendo altro, consentivo anche a loro di non vedere. Quel che le femministe mi rimproverano è giusto. Ma esse sanno più di me quanto l’abbiano pagato quelle come me; io non ho conti da presentare: Mi andò bene”. Come emancipata, meno come dirigente del partito. Le ragioni le ricostruisce nell’autobiografia La ragazza del secolo scorso, e vanno lette e meditate. Non posso però non nominare, sia pure brevemente, l’esperienza della sinistra del Pci negli anni Sessanta. Nello scritto, in occasione degli Ottanta anni di Pietro Ingrao, pubblicato su il manifesto, Rossana, come sempre, formula la domanda giusta, più che dare risposta.

Cosa sarebbe dovuto diventare il Pci a fronte del rivoluzionamento sociale in atto? Come andare oltre il disegno togliattano della ‘via italiana al socialismo’? Il problema era e resta quello di “come si esprime il soggetto del movimento storico della modernità”6. Pietro e Rossana hanno avuto questa comune convinzione, direi un comune assillo; si sono separati e ritrovati nella ricerca pratica della risposta.

È solo quando ha “gran parte della vita alle spalle” che vede le donne e non distoglierà più lo sguardo. Questo sesso che non è un sesso lo diviene per lei, come parzialità scelta. E si trova “di fronte a molti pensieri. Il primo è di pacificazione. Dal momento in cui il linguaggio delle donne ha cessato di apparirmi come parzialità subita, un ritardo, ma come una parzialità scelta, un segnale, una condizione iscritta e accettata, vissuta, affiorante, razionalizzata o no, ma determinata nella sua ribellione o felicità o dolore, non ho più potuto non vederle”. Ma non c’è solo riappacificazione, “il rivolermi bene nelle altre. Ci sono gli impreveduti risvolti d’un mondo che può essere rivisto con l’occhio delle donne.

Torna, in modo inedito, “la sola battuta di ottimismo del vecchio Marx: l’umanità si pone soltanto i problemi che può risolvere”. E se nella sua radicalità, il femminismo non fosse che l’emergere del problema numero uno, il farsi improvvisamente stretto della politica, come l’abbiamo conosciuta”. Se fosse “non solo il sintomo d’una crisi più generale, del farsi stretta la politica che abbiamo conosciuto, ma l’embrione di una critica rivoluzionaria della politica, come la classe operaia rivoluzionaria fu la critica dell’economia?”

“A questo punto ero e sono rimasta”, scrive in Le altre. Non più stimolo da parte di altre donne, la critica è divenuta sua. Non ha mai smesso di interrogarsi e interrogarci, a noi femministe, in amicizia. Un’amicizia tra donne mutanti, ribelli, carica di parole mai dette prima, così forte e inedita da sconcertare e scomporre il mondo circostante.

Ti ringrazio Rossana del dono della tua amicizia, generosa ed esigente, per me e per tante, tantissime donne.

Note

1 Rossana Rossanda, Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano, 1987, p.123.

2 Id., Le altre, Bompiani, Milano, 1979, p.21.

3 Anche per me. Donna, persona, memoria dal 1973 al 1986, cit., p.134.

4 Ibidem.

5 Questa e le citazioni a seguire in Le altre, cit., alle pp.11, 16, 14, 32, 31, 34.

6 Rossana Rossanda, “Ingrao”, il manifesto, 31.03.1995; in Id., Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, p. 134. L’articolo è disponibile sul sito del CRS.

I doni di Rossana
di Ida Dominijanni

Articolo pubblicato su “Internazionale” del 21.09.2020.

Nella primavera del 1980 all’improvviso mi arrivò, non ricordo più bene tramite chi, una convocazione di Rossana Rossanda nella redazione del Manifesto: vorrebbe fare due chiacchiere, mi dissero. Ero una perfetta sconosciuta, avevo scritto per il giornale quattro o cinque articoli in tutto, escluso che mi convocasse in base a quelli. Varcai il portone di via Tomacelli, dal centralino mi indicarono la sua stanza. Mi accolse col suo sorriso dolce e severo, mi disse che s’era incuriosita ascoltandomi in un seminario su donne e lavoro, parlammo un poco di questo e d’altro, poi mi guardò negli occhi e mi chiese perentoriamente: “Che cosa pensi di fare della tua vita”? Balbettai qualcosa senza dirle l’essenziale, cioè che mi sarebbe piaciuto lavorare con lei e che questo desiderio mi era venuto leggendo i suoi pezzi sul movimento del ‘77, i soli a coglierne sia pure in ritardo la natura e le ambivalenze, e quelli sul 7 aprile, i soli a denunciare la piega emergenzialista che la democrazia italiana stava prendendo (altro che lo stato d’eccezione da covid-19). Ma lei quel desiderio lo afferrò da sola. Di lì a poco mi ritrovai nella redazione dell’Orsaminore, un mensile femminista che Rossana stava progettando con altre amiche comuni, e due anni dopo in quella del Manifesto. Molto di quello che sono diventata lo devo a quell’incontro.

Quella fu la prima volta che la vidi. L’ultima è stata poco più di due mesi fa, prima di partire per l’estate, a casa sua, con Maria Luisa Boccia. Il lockdown ci aveva tenute separate, Rossana a Roma io no, e durante il lockdown lei aveva avuto un malore, poi risoltosi. “Come stai, Rossana?”. “Abbastanza bene, tutto sommato”. Non era vero. Non stava bene, il corpo affaticato, la voce flebile. Ma Rossana aveva mantenuto nella malattia, da quando un ictus le aveva limitato i movimenti ma non la lucidità, la stessa misura che aveva sempre avuto nel parlare di sé, mai un aggettivo sopra le righe. Del resto, si accendeva ancora non appena si parlava di politica. A settembre dobbiamo fare qualcosa, disse, questo paese non può andare avanti così. Progettammo fra il serio e il faceto questo qualcosa che ora che è settembre non faremo più. Ero preoccupata di non poterla vedere di nuovo per tante settimane, ma a fine agosto ho saputo che Doriana era riuscita a portarla al mare per un paio di settimane, e dal mare Rossana tornava sempre rigenerata; presto ci saremmo incontrate di nuovo. Invece no.

Il momento della fine è quello in cui più forte scatta la tentazione di appropriarsi di chi se ne va, e più forte si manifesta la sua inappropriabilità. Rossana lo sapeva benissimo, tanto da sottrarsi esplicitamente (lo scrisse in La perdita, con Manuela Fraire e Lea Melandri, 2008) al rito dell’esposizione funeraria, quando un corpo non ha più possibilità di replica allo sguardo altrui. Ognuno, ognuna ha la “sua” Rossana, ma Rossana non è di nessuno e la sua biografia resta di una singolarità assoluta, come assoluto, indomabile, è stato il senso della libertà che l’ha ispirata e che ha trasmesso a chi sapeva coglierlo. Suonerà strano, di questi tempi, questo connubio fra una libertà irriducibile e un’altrettanto irriducibile appartenenza comunista, eppure Rossana era questo connubio e questa eresia: non la postura intellettuale del pungolo critico che tutti sono disposti a riconoscerle, ma il vissuto in prima persona, passione e croce, di una contraddizione che se la forma-partito aveva reso impraticabile la forma-giornale rendeva invece feconda. Non si capisce niente dell’esperimento-Manifesto – del Manifesto secondo Rossanda almeno – se non si parte da questa passione della libertà, che ha consentito a chi l’ha condivisa di leggere il presente violando le certezze del partito preso e i criteri dell’informazione mainstream. Il contrario dell’ideologia, l’opposto del conformismo, l’inverso del minoritarismo: questa era Rossana e questo ci ha sfidate e sfidati a essere.

Non era una sfida facile, soprattutto per noi donne. Perché quello stesso senso forte della singolarità e della libertà la rendeva allergica a qualunque identificazione che potesse vagamente evocarle il fantasma del gregarismo, sì che più ti avvicinavi più lei si allontanava. E perché Rossana era una madre fragile ma potente come tutte le madri, ed esigente come poche soprattutto verso le sue simili, a maggior ragione da quando aveva visto nel femminismo un’irruzione di libertà che a sua volta la sfidava e la metteva in discussione (Le altre, 1989). Ma è stata una sfida generativa di posizioni culturali e politiche che altrimenti non sarebbero esistite nel panorama italiano, e che nello stesso Manifesto non sono state prive di ostacoli e conflitti.

Due fra tutte: la difesa dello stato di diritto e del garantismo ai tempi dell’emergenza antiterrorismo negli anni ottanta, un precedente che nei novanta avrebbe impedito a “noi rossandiani” di cedere agli usi politici della giustizia che hanno accompagnato il crollo della cosiddetta prima repubblica e la parabola infelice della cosiddetta seconda. E l’interpretazione dell’89 e del ‘91, perché Rossana, che anche grazie al rapporto con K.S. Karol teneva sempre sotto osservazione i paesi dell’est europeo e aveva creduto nell’esperimento di Gorbačëv, come tutto il gruppo fondatore del giornale vide nel crollo del muro di Berlino e nel tracollo dell’Urss più il segno di un nuovo disordine geopolitico che quello della liberazione dal partito-stato che ci vedevano molti di noi. Fu il momento di massima divisione, nel giornale, fra la generazione dei fondatori e quella del ‘68: un altro conflitto sul senso della libertà. E a giudicare le cose col senno di poi, dopo trent’anni di trionfo neoliberale, avevano la vista lunga più loro di noi (Appuntamenti di fine secolo, scritto nel 1995 con Pietro Ingrao, è un libro da rileggere).

L’allontanamento di Rossana dal giornale comincerà pochi anni dopo e per altre ragioni – ma “allora sbagliai a non resistere”, mi aveva detto di recente – anche se diventerà definitivo solo nel 2012, lasciando in lei e non solo in lei il segno di una ferita non rimarginata. Bisognerà leggere la sua versione della vicenda del Manifesto nel libro che aveva da poco licenziato – “ma non mi è venuto bene”, continuava a dirmi – e che comincia dove La ragazza del secolo scorso finiva. Mentre il “suo” secolo si chiudeva ingloriosamente in Italia e nel mondo, le cose della vita l’hanno strappata alla nostra quotidianità, perché Rossana aveva molto chiare le priorità dell’esistenza e non esitò un minuto a trasferirsi a Parigi quando le condizioni di Karol lo richiesero.

A lungo ci sono mancate le incursioni nella sua stanza di via Tomacelli dove le confidenze su amori e separazioni non erano meno frequenti delle discussioni politiche, le cene fra amiche (era un’ottima cuoca) dove si parlava di cinema e si litigava sul femminismo, lo stile inconfondibilmente novecentesco delle sue case (in affitto, non ne ha mai posseduta una) con i divani neri modernisti e le librerie bianche in perfetto ordine (“buttare le carte inutili fa parte del lavoro intellettuale”), le sue poche ma salde civetterie femminili (“non penserai che i capelli bianchi non abbiano bisogno di cura”), la sua inimitabile eleganza minimalista ante litteram, le piccole bugie depistanti che elargiva quando si ostinava a difendere l’indifendibile, gli snobismi che solo lei si poteva consentire (“ma questo Osama chi è, il più giovane dei Laden?” chiese per telefono da Parigi mentre noi ci affannavamo a chiudere l’edizione speciale sulle torri gemelle). Una volta, sarà stato a fine anni ottanta o poco dopo, l’accompagnai a Francoforte dove era stata invitata a tenere una lezione magistrale sul femminismo. Era sola sul palco, tailleur nero impeccabile e sciarpa bianca, al centro di un cono di luce che rompeva il buio tutt’intorno. In un’altra vita, pensai, sarebbe stata Greta Garbo.

Comunismo e femminismo, tracce di una vita

Video del seminario, tenutosi il 20 settembre e organizzato da Casa delle Donne e CRS, a partire dal libro di Rossana Rossanda “Un secolo, due movimenti” (Futura Editrice). Interventi di Alberto Olivetti, Ida Dominijanni, Alfonso Iacono, Luciana Castellina e Maria Luisa Boccia. Coordinamento di Emiliano Sbaraglia.

Ordine degli interventi

  • Emiliano Sbaraglia da 00:00:00
  • Alberto Olivetti da 00:03:37
  • Ida Dominijanni da 00:23:44
  • Alfonso Iacono da 00:43:37
  • Luciana Castellina da 00:58:06
  • Maria Luisa Boccia da 01:06:26

Novecentosettantotto. I giovani, le Brigate rosse, Aldo Moro

Il video della presentazione, tenutasi il 4 giugno e organizzata da CRS e Bordeaux Edizioni, del volume “Novecentosettantotto. I giovani, le Brigate rosse, Aldo Moro” di Pietro Ingrao e Rossana Rossanda, a cura di Alberto Olivetti. Ne hanno discusso con il curatore Davide Conti, Ida Dominijanni e Alfonso Maurizio Iacono. Intervento di Fabrizio Scrivano. Coordinamento di Maria Luisa Boccia.

Ordine degli interventi

  • Maria Luisa Boccia da 00:00:00
  • Davide Conti da 00:11:08
  • Ida Dominijanni da 00:27:04
  • Alfonso Maurizio Iacono da 00:45:36
  • Fabrizio Scrivano da 01:03:10
  • Maria Luisa Boccia da 01:10:08
  • Alberto Olivetti da 01:20:12
  • Maria Luisa Boccia da 01:35:53
Alberto Olivetti, Ritratto di Rossana Rossanda, da un taccuino di disegni, Argentario, agosto 2019.

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