Vladimir Putin non vuole sicuramente perder passo e primato nella corsa sciagurata che la sua aggressione all’Ucraina ha imposto al mondo. Specie negli ultimi giorni e dopo che il Governo britannico ha annunciato la fornitura a Kiev di munizioni a “uranio impoverito”. Inaspettato è però giunto l’annuncio da parte russa di un nuovo accordo con Aleksandr Lukashenko per dispiegare grappoli di atomiche tattiche sul territorio bielorusso. Il tutto mentre trovano conferma i rapporti che certificano la presenza in Bielorussia di almeno 10 aerei capaci di trasportare atomiche e di alcuni missili Iskander sui quali possono esser montate ogive nucleari.
Sotto simili colpi la lancetta del Doomsday Clock – l’orologio del «Bulletin of The Atomic Scientists» vocato a segnalare l’avvicinarsi di una possibile catastrofe nucleare – appare avanzare inesorabile nella sua corsa alla ‘Mezzanotte’ dell’umanità. In realtà, la decisione di Putin di muover guerra all’Ucraina è stata costellata fin dall’inizio dalla minaccia del ricorso a misure ultime: «Chiunque tenti di ostacolarci, e ancor di più di creare minacce per il nostro Paese, per il nostro popolo, deve sapere che la risposta della Russia arriverà immediatamente e porterà a conseguenze che non avete mai visto nella storia». Così il nuovo Zar del Terzo Millennio nell’annuncio fatale del 24 febbraio 2022.
Da allora la cronaca quotidiana conosce sottolineature angosciose. Titoli e resoconti di giornali e social-network, così come i lanci di tg e talk show, sono zeppi di ricorsi a scenari catastrofici. Davanti ai nostri occhi su schermi d’ogni dimensione – smartphone, computer e TV – si moltiplicano nubi o funghi malefici. Così come cresce un’angoscia assoluta quando veniamo a sapere che altrove, in trasmissioni televisive, la minaccia del ricorso alla soluzione finale può divenire materia diretta di intrattenimento televisivo: «I Polacchi debbono sapere che in trenta secondi non resterebbe più nulla di Varsavia», si è gridato nel corso di una diretta di «Rossyia 1».
È ormai più di un anno che viviamo sospesi tra interrogativi fatali. Unitario il ricorso alla riproposizione globale di un clamoroso interrogativo: “Rethinkink the Unthinkable”? “Ripensare l’Impensabile”? Con tanto di inevitabile rinvio al suo autore: a quel “Thinking the Unthinkable”, dovuto alla penna di Herman Khan, scienziato e ricercatore della Rand Corporation, che, per primo e in solitaria, aveva pensato a come rendere possibile il ricorso a un first strike ultimativo, un «primo colpo» al di fuori delle costrizioni della deterrenza nucleare, senza la sicura garanzia dell’annichilimento generale. Sforzo vano, rimasto fortunatamente confinato nel titolo di un malefico libro dei sogni che ha popolato le biblioteche del mondo e guadagnato all’autore l’immortalità nel capolavoro di Stanley Kubrick: Il dottor Stranamore.
Da allora i continui richiami alla possibile mutua distruzione, come conseguenza di un qualche azzardo nella vicenda ucraina, si sprecano. Conditi però ora da molteplici enumerazioni di ben altre fatali occorrenze. Che diamine accade nel caso ci si acconci – come sembra già accaduto e per più volte – all’utilizzo del fosforo bianco? E se si fa ricorso ad altri composti chimici? Qualcuno potrebbe pensare forse ad armi batteriologiche? E se queste sfuggissero da questo o quel laboratorio?
Il tutto accompagnato da mille avvertenze sulle soglie già varcate, sul fatto che le parti in battaglia – specie i russi – appaiono allo stremo: la situazione ormai sfugge di mano, non vi sono più apparenti vie d’uscita. Si teme, si paventa ormai anche la possibilità che, nel tentativo di trovare una rapida soluzione, una scorciatoia, vengano azzardate mosse estreme: e se provano infine a passar parola all’atomica? Non quelle micidiali proiettate all’altro lato del mondo dai vettori intercontinentali. Magari facendo ricorso a qualche bomba “tattica”: un multiplo modesto – per dir così – dei funghi sbocciati su Hiroshima o Nagasaki …
La giostra su giornali e TV allora diventa irrefrenabile. E la parola passa agli esperti. Vi è bisogno di orizzontarsi in maniera assai professionale, seria. È l’ora delle stellette, degli strateghi di ogni indirizzo e cultura. Il tutto però tradotto nel linguaggio immediato dei talk show, condito magari – e a intermittenza – da lazzi e lanci pubblicitari. Lo spettatore o il lettore comune fa fatica a orizzontarsi, a destreggiarsi con cartine e mappe complicate, sigle astruse. Può capitare poi all’improvviso qualche menzione per qualche venticello fatale.
E allora anche il termine più astruso, più strambo – “spill-over” – si illimpidisce e rivela i suoi risvolti mostruosi. Che succede e dove se nell’attimo fatale in cui si sgancia un composto chimico, batteriologico o atomico – “tattico”, per carità – su qualche angolo di Ucraina, il vento spira da Ovest? E se non è Tramontana, con strascichi sul Mar Nero, ma Libeccio? O Ponente? Tutto rischia di tornare indietro, di rivoltarsi contro, verso la casa madre? Magari in faccia a chi ha sganciato?
Allora anche il lettore meno acculturato, lo spettatore meno smaliziato ricorda qualcosa. Non è la prima volta. C’è di che trasalire e rabbrividire. Alle nostre latitudini, nel Mezzogiorno, ne abbiamo già fatto esperienza. In buona parte d’Europa abbiamo già conosciuto questi venti e questi annunci col disastro di Chernobyl. Vietato andare per boschi a raccogliere funghi. Meglio lasciar perdere verdura e finocchi. Sui campi è calata una nebbiolina di incerta natura. Meglio esser prudenti. In Francia ci si ricorda ancora dello scandalo e dei brutti quarti d’ora rimediati allora da Chirac e Sarkozy per colpa dei servizi metereologici nazionali. Sicuri avevano annunciato che la nube radioattiva non aveva valicato le alture francesi. Ancora oggi grava il peso per le accuse e i dubbi del tempo.
Non vi sarebbe spazio adesso se non per malinconici o mesti sorrisi. Solo che a turbare ora i nostri sonni stanno torrenti assai inquietanti di news. La chiacchiera abituale si infoltisce e rabbuia alle prese con i comunicati provenienti dalle svariate riunioni dei Grandi riuniti in consessi emergenziali. I vertici di NATO, Unione europea e G7 fanno a gara nella produzione di angoscia. Dai retrobottega in gran fermento di quei meeting vengono quotidianamente notizie assai allarmanti. Ci dicono che si è pensato di modificare i paragrafi dei documenti relativi alla cosiddetta “postura strategica”. E così la NATO modifica naturalmente l’ambito del suo possibile intervento: dall’Atlantico originario ora mira al Pacifico e al contenimento della nuova Cina. O magari si comincia a pensare a quali risposte brandire nel caso qualche malaugurata nube chimica, radioattiva o atomica superi il confine ucraino e raggiunga terre “atlantiche” o “europee”? Magari in Polonia o sul Baltico? Le risposte sembrano vaghe, ma rinviano tutte a un rafforzamento delle capacità di concreta deterrenza, adeguate alla minaccia. Insomma il possibile ricorso a misure estreme sembra ormai esser contemplato da ogni versante.
Il tutto mentre all’Onu appaiono bloccati tutti gli strumenti di intervento. La Russia si fa forte del suo seggio permanente in Consiglio di sicurezza ed esercita spregiudicatamente il cosiddetto «potere di veto». Non rimane spazio che per solenni ma inconcludenti risoluzioni dell’Assemblea generale, dimidiate ulteriormente dal ricorso all’astensione di realtà fondamentali: prime fra tutte, Cina e India. E allora diventa inevitabile interrogarsi sul tempo che viviamo, su questo XXI secolo.
Siamo ancora in un mondo governato dalla Carta delle Nazioni unite? Ci orientiamo ancora tutti su quell’altra bussola guadagnata tempo fa per navigare nel nostro tempo? Su quell’altra regola, su quel comandamento supremo solennizzato alla fine del secondo conflitto mondiale? «Salvare le future generazioni dal flagello della guerra»?
Intanto chiediamoci noi Italiani: per noi – orgogliosi portatori della “Costituzione più bella” – quella Carta Onu vale ancora così come il ripudio della guerra sancito in Costituzione? Come ci muoviamo? Ci riconosciamo ancora, anche noi, in quel Trattato di non proliferazione nucleare firmato nel 1968 e finora ratificato da quasi 190 Stati sovrani? Non ci siamo forse anche noi impegnati (in base al suo articolo II) a non accettare il trasferimento sul nostro suolo di qualsiasi arma nucleare? E allora perché mai ospitiamo nelle basi di Aviano e Ghedi tra 70 e 90 atomiche cosiddette “tattiche”, marchiate a «stelle e strisce», nell’ambito del programma di condivisione della deterrenza nucleare NATO?
Ancora: perché mai – assieme a tutte le potenze atomiche e a quelle aderenti alla NATO e poche altre – non abbiamo ancora firmato il Trattato per la proibizione delle armi nucleari del 2017? Non è stato forse sottoscritto già da 129 nazioni e 7 organizzazioni internazionali? Non è forse già entrato in vigore il 22 gennaio 2021? È così che rispettiamo quel «ripudio della guerra» sancito nell’art. 11 della nostra Carta fondamentale?
Sarebbe forse il caso allora di mettere a frutto una lezione che ci è stata impartita proprio dall’Ucraina. Un precedente purtroppo relegato in qualche libro di storia (non in molti libri di storia e soprattutto dimenticato oggi nelle cronache quotidiane dei nostri giorni terribili). Pochi ricordano che gli ucraini, sia pure divisi da lingue e culture diverse e qualche volta contrapposte, hanno saputo in frangenti difficilissimi assumere decisioni esemplari. Oggi sono sommersi da fuoco e da ceneri micidiali. Sarebbe veramente assurdo se questa catastrofe fosse la risposta alla decisione presa il 5 dicembre 1994 quando l’Ucraina, dopo aver dato vita nel 1991 assieme a Bielorussia e Federazione Russa alla CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), firmò il Memorandum di Budapest rinunziando, con l’aiuto logistico e finanziario degli USA, a migliaia di ogive e vettori nucleari: un passo allora compiuto assieme a Bielorussia e Kazakistan, questi ultimi però con impegni e per armamenti inferiori. Furono allora tutti ceduti alla Russia di Eltsin o utilizzati come combustibile nelle varie centrali atomiche nazionali. A garanzia di quella decisione gli Ucraini ottennero rassicurazioni dalla Russia e dagli altri paesi firmatari circa la sicurezza, l’indipendenza e l’integrità territoriale: tutte impunemente violate con l'”operazione speciale” decisa da Putin. È il caso di non dimenticare mai che quel micidiale armamentario, ereditato dalla dissoluzione dell’Urss, costituiva allora il terzo arsenale atomico del mondo per numero di testate e potenza. Ancor oggi farebbe dell’Ucraina il terzo incomodo, per grandezza, della deterrenza o minaccia globale, secondo i punti di vista.
E allora bisogna affrettarsi rispetto alla decisione di Putin di tornare a schierare in Bielorussia nuove armi atomiche, tattiche o meno. In questo modo si rimette all’indietro l’orologio della storia, ma soprattutto si rischia di settarlo su cadenze mortali. È forse il caso di disporsi con ben altra disponibilità ad apprendere da vicende relegate in angoli remotissimi di una memoria troppo spesso tribalizzata da una comunicazione frettolosa e strumentale. È in questi frangenti che la storia torna ad esser utilmente maestra.
Perché non dar sostanza, allora, al grido per la pace che sostanzia oggi comunque la lotta a fianco del popolo ucraino? Perché non lanciare una grande raccolta di firme per chiedere all’Italia di ratificare il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, TPNW? Non è forse questo un passo concreto per farla finita con l’ospitalità fornita alle atomiche a “stelle e strisce” parcheggiate ad Aviano e Ghedi? E di rispettare lettera e sostanza anche del Trattato di non proliferazione?
Per di più in questo modo si invoglierebbero anche altri paesi dell’Alleanza atlantica a fare altrettanto. Soprattutto si farebbe un passo concreto, reale: liberare di ogni vassallaggio l’Unione europea e dotarla di una reale politica estera e di sicurezza. Finché nell’Ue vi saranno potenze dotate di atomica – come oggi la Francia e, fino alla Brexit, anche il Regno Unito – non vi sarà mai una politica estera e di sicurezza davvero comunitaria. Quale capo di Stato o di Governo è disposto a cedere il potere sul fatale “bottone rosso” – simbolo estremo di sovranità – a favore di un qualche commissario della tanto vituperata o osannata Commissione europea? E laddove anche si dovesse accedere miracolosamente a una qualche soluzione di questo atroce passaggio di consegne, sarebbe questa l’Europa che vogliamo davvero edificare?
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