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Le politiche sanitarie italiane, ieri, oggi e domani

L’eccezionalità della pandemia ha riportato in primo piano le insufficienze delle condizioni strutturali del SSN, minato dalla controrivoluzione neoliberale e da anni di definanziamento, che hanno ridotto la spesa pubblica sanitaria pro-capite italiana a metà di quella francese o tedesca. Il rilancio di un servizio sanitario universalista, egualitario, senza discriminazioni di accesso e finanziato dalla fiscalità generale dipende da una riscrittura democratica del sistema di welfare e da un movimento culturale teso a rivalutare il ruolo svolto dalla sanità pubblica. Una versione estesa di questo articolo verrà pubblicata in "Rapporto sullo Stato sociale 2020", a cura di F. Pizzuti, M. Raitano, M. Tancioni (Sapienza Università editrice)
Pubblicato il 20 Novembre 2020
Materiali, Salute, Scritti, Studi e ricerche, Temi

Foto di fernando zhiminaicela da Pixabay

1. Le origini storiche e politiche del Servizio sanitario nazionale

Un servizio sanitario in grado di garantire una copertura universale, finanziato attraverso la fiscalità generale e con una capacità di intervento sia preventivo, sia diagnostico-terapeutico, a livello territoriale e a livello ospedaliero, è l’unica organizzazione capace di affrontare con efficacia una condizione come la pandemia di Covid-19. Nessuno schema di assicurazione, privata o sociale, che si basi sul principio di equivalenza fra contribuzione e benefici e separi la prevenzione collettiva dall’assistenza individuale potrebbe affrontare con eguale ampiezza di intervento e disponibilità di risorse un evento come quello attuale1.

In questo senso, è proprio la pandemia a sollecitare una riflessione ampia e radicale, e soprattutto di natura politica, sulla sanità e sulla salute; una riflessione che va articolata su due livelli.

In primo luogo, nella vicenda della pandemia hanno pesato le conseguenze delle politiche di privatizzazione e mercificazione di sanità e welfare effettuate negli ultimi trent’anni, e in particolare dei tagli realizzati nella spesa sanitaria. In secondo ordine, la pandemia ci spinge a ritornare alle origini storiche e alle ragioni politico-sociali dello strumento che è stato maggiormente investito dall’emergenza: il Servizio Sanitario Nazionale (SSN), che nei suoi caratteri essenziali e “originari” ha costituito un mezzo fondamentale a disposizione della collettività per tutelare il diritto alla salute. I limiti mostratisi nel servizio sanitario pubblico a fronte dell’impatto dell’emergenza sono derivatisoprattuttodal suo depotenziamento, dallo spazio lasciato alla sanità privata e dall’indebolimento della medicina territoriale, che ha invece informato la fisionomia dell’istituzione del SSN.

Se consideriamo la spesa sanitaria pubblica, in Italia essa rappresenta oggi il 6,5% del PIL, in linea con la media OCSE, ma ben distante dai livelli di spesa di Germania e Francia. In termini pro capite il SSN spende la metà della Germania e la spesa sanitaria totale per abitante è del 15% in meno rispetto alla media UE2.

Calcolando la spesa in termini reali, al netto dell’inflazione, dopo un aumento in linea con gli altri paesi sino al 2009, le risorse pro capite per la sanità pubblica italiana nel 2018 sono cadute del 10%, mentre in Francia e in Germania sono aumentate del 20%3. Questi dati fotografano l’entità della riduzione delle risorse pubbliche particolarmente grave in un paese ad alto invecchiamento della popolazione e un decisivo disinvestimento dalla sanità pubblica che, come si vedrà, si è palesato soprattutto in termini di riduzione dei servizi e del personale, con l’effetto di uno spostamento della domanda verso il mercato privato4.

È questo l’effetto delle politiche di austerità introdotte a partire dalla crisi del 2008, ma è anche il riflesso della più complessiva “controrivoluzione” neoliberista affermatasi a partire dagli Ottanta del Novecento e segnata da spinte alla privatizzazione e alla trasformazione in merce di salute, istruzione, ricerca, cultura, ambiente. Tuttavia, il contesto italiano presenta un dato di controtendenza, relativo al fatto che in Italia una delle più importanti riforme in materia di welfare, forse la più rivoluzionaria, si realizzò quando altrove in Europa stava per iniziare la controrivoluzione neoliberale. L’approvazione della legge (n. 833) di istituzione del SSN è del dicembre 1978 e fu l’effetto dell’emergere di nuove e collettive soggettività, di una inedita pressione dal basso, di aspirazioni trasformative del tessuto sociale e dell’assetto istituzionale. La realizzazione del servizio sanitario nazionale, come di altre istituzioni del welfare degli anni Settanta, sono leggibili riannodando il lungo filo rosso di quel momento storico in cui vennero varate molte delle riforme che hanno contribuito a disegnare il volto dell’Italia attuale e che contribuirono all’attuazione di alcuni principi costituzionali rimasti a lungo congelati.

È in questa chiave che è possibile comprendere lo “sfasamento” italiano rispetto al contesto internazionale. La stessa iniziativa autonoma di molte Regioni prima della riforma costituì un’anticipazione di molte delle soluzioni adottate dopo la legge n. 8335.

Il SSN fu dunque espressione di quella che potremmo chiamare una politica delle alleanze, nella quale si saldarono le conquiste del movimento operaio e quelle sindacali in fabbrica, le pressioni e mobilitazioni portate avanti dalle varie realtà di movimento, da quello femminista, a quello studentesco, a quello di “lotta per la salute”, a quello della psichiatria radicale, nonché ­i primi provvedimenti di pianificazione regionale sanitaria, rafforzati dal decentramento territoriale dei servizi socio-sanitari6.

Con ogni evidenza, l’assetto universalista, pubblico e decentrato del SSN rispose a una visione della salute come fatto sociale e politico, fondata su un’impostazione integrata dell’intervento sanitario e di quello sociale, sulla centralità del momento preventivo, del dato qualitativo e dell’approccio epidemiologico, su una organizzazione territoriale, su un impegno diffuso capace di investire anche le questioni legate alle condizioni di lavoro e alla tutela dell’ambiente. La peculiarità della realtà sanitaria italiana attesta quindi l’importante convergenza politica e culturale che si realizzò tra gli anni Sessanta e Settanta rispetto al progetto di riformulare in termini universalistici l’assetto sanitario, confermando la capacita di resistenza ancora inscritta nel SSN.

2. Luci e ombre della sanità italiana

Una delle contraddizioni di fondo della sanità italiana riguarda da un lato l’ottima posizione di cui ancora gode il paese in termini di mortalità (tra le più basse nei paesi europei), di speranza di vita alla nascita (in base ai dati del 2018, quest’ultima in Italia è di 83 anni contro gli 80,9 della media UE)7, e di speranza di vita all’età di 65 anni (l’Italia è tra i paesi più longevi di Europa e del mondo). Dall’altro lato, il paese registra un livello di spesa sanitaria, sia pro capite, sia in percentuale sul PIL nettamente inferiore rispetto ai maggiori paesi europei con simile speranza di vita.

Il quadro complessivo della spesa sanitaria italiana è il seguente: nel 2018 la spesa totale è stata di 155 miliardi di euro, di cui 115 miliardi (il 74,2%) di spesa pubblica (pubblica amministrazione e assicurazioni sanitarie a contribuzione obbligatoria), 35,8 miliardi (il 23,1%) di spesa privata delle famiglie e 4,2 miliardi (il 2,7%) di spesa in regimi di finanziamento volontari (ossia assicurazioni sanitarie volontarie, spesa finanziata da istituzioni senza scopo di lucro e quella finanziata dalle imprese)8.

Inoltre, dal 2010 al 2018 la quota di spesa sanitaria pubblica sul totale è scesa dal 78,5 al 74,2% mentre quella relativa alla spesa diretta delle famiglie è salita dal 20,5 al 23,1%. Se consideriamo l’evoluzione di lungo periodo, tra il 1995 e il 2018, la spesa pubblica per la salute ha prima registrato un progressivo aumento – dal 4,9% al 7% del Pil – tra il 1995 e il 2008; successivamente gli effetti della crisi e delle politiche di austerità hanno riportato in basso la spesa, pari al 6,5% del Pil nel 2018, riaprendo un crescente divario nei confronti di paesi come Francia e Germania.

Lo stesso andamento si ritrova, con maggior nettezza, nei dati di spesa espressi in termini pro capite a prezzi costanti; la spesa sanitaria pubblica in Italia è passata da 1.288 euro nel 1995 a 1.830 euro nel 2018, con una diminuzione nei confronti del 2010. Il confronto con i maggiori paesi europei vede nel 2018 la Francia con una spesa sanitaria pubblica pro capite di 3.248 euro e la Germania con una spesa di 3.775 euro, il doppio della spesa italiana. Anche in questo indicatore il divario con l’Italia risulta crescente e di rilevante entità.

La composizione della spesa pubblica italiana vede il 59% destinato all’assistenza sanitaria per cura e riabilitazione e il 10,8% per l’assistenza sanitaria a lungo termine (LTC). L’insieme di queste due voci si ripartisce per oltre due terzi in attività ospedaliere e per meno di un terzo per attività ambulatoriali e domiciliari. Il resto della spesa comprende farmaci e apparecchi terapeutici per il 15,5%, mentre ai servizi della prevenzione è destinato appena il 5% della spesa totale9. In percentuale del PIL, la spesa per l’assistenza ospedaliera è del 3,8%, mentre le risorse destinate all’assistenza sul territorio si attestano all’1,2% del PIL (con questo impegno finanziario molto modesto l’Italia si colloca al 15° posto nell’UE)10.

La spesa sanitaria sostenuta privatamente dalle famiglie (out of pocket) è destinata per il 44% alla cura e riabilitazione e per il 38% all’acquisto di farmaci e apparecchi. Gli ambiti in cui la spesa delle famiglie è particolarmente rilevante rispetto al totale della spesa sanitaria pubblica e privata – anche a confronto con altri paesi – sono le visite ambulatoriali e dei servizi ausiliari (servizi di laboratorio di analisi, di diagnostica per immagini, di trasporto di pazienti o di soccorso di emergenza), finanziati per un quarto dalle famiglie, e la spesa per prodotti farmaceutici e apparecchi terapeutici, dove queste ultime coprono il 43% della spesa totale, mentre in Germania e Francia le percentuali sono di appena il 24% e il 27%11.

Gli elementi di fondo della spesa sanitaria italiana riguardano quindi la dimensione modesta della spesa pubblica rispetto ad altri paesi europei; una crescente spesa diretta delle famiglie sia per le cure (cresciuta tra il 2012 e il 2018), sia per i farmaci; le scarse risorse destinate all’assistenza territoriale.

L’offerta di assistenza territoriale ruota attorno alla figura del medico di medicina generale, il principale riferimento per le cure di base dei cittadini. I dati al 2018 contano la presenza di 7,1 medici di medicina generale ogni 10 mila residenti, con una diminuzione di 2.450 unità rispetto al 2012, soprattutto nelle regioni del Centro-Nord e in Sardegna12.

Ulteriori elementi di contraddizione risiedono nella buona qualità della cura che il SSN ha continuato ad assicurare, nonostante gli elementi di criticità messi in rilievo proprio dall’emergenza sanitaria. Questi ultimi riguardano in particolare: il sotto-finanziamento della spesa sanitaria già evidenziato, le registrate diseguaglianze nell’accesso ai servizi (sia in termini territoriali, sia sociali), un «eccessivo carico posto sulle spalle degli operatori della sanità (dai medici agli infermieri e alle altre figure professionali) in termini di condizioni di lavoro»13, e un’alta quota di risorse economiche assorbite dalla sanità privata. Se questi fattori rappresentano le problematiche del sistema salute italiano, essi diventano oggi più che mai il banco di prova per un’agenda di rinnovamento della sanità pubblica.

Nello specifico, i dati relativi alle diseguaglianze nell’accesso ai servizi – in termini di accesso fisico ed economico14 – fotografano il divario tra Nord e Sud del paese, riemerso tra la fine del XX secolo e gli inizi del nuovo millennio (ad esempio, nella speranza di vita in buona salute alla nascita). Altre criticità emergono nell’equità di accesso ai servizi, con un sensibile aumento della percentuale di quanti dichiarano di aver rinunciato a visite mediche per motivi economici, in specie tra i cittadini a basso reddito15.

I numeri e le condizioni di lavoro degli addetti alla sanità registrano una presenza di personale medico in rapporto alla popolazione in linea con i maggiori paesi europei (intorno a 4 medici per mille residenti), anche se con un’età media più alta che altrove (nel 2018 più della metà dei medici ha superato i 55 anni e in generale l’età media dei dipendenti del SSN è salita a 51 anni, quale conseguenza dello scarso turnover)16. Una grave lacuna si registra per il personale infermieristico, con 5,8 infermieri ogni mille residenti (ossia la metà di Francia e Germania) e un’età media di 48 anni.

In termini assoluti, tra il 2012 e il 2018 si è avuta una riduzione del personale complessivo del comparto sanità del 3,8%; i medici e gli infermieri, che rappresentano oltre metà del personale, hanno riportato riduzioni rispettivamente del 2,3% e dell’1,6%17. In conseguenza, si è registrata una riduzione degli oneri per il personale dipendente del SSN in percentuale della spesa sanitaria totale dal 31,4% al 30% tra il 2014 e il 2017, per effetto anche del blocco dei rinnovi contrattuali e delle retribuzioni18.

Nelle vicende storiche della parabola sanitaria italiana, i blocchi del turnover, così come l’estensione dei ticket e la compartecipazione degli utenti ai costi delle prestazioni hanno contraddistinto le politiche sanitarie non solo negli ultimi anni e riflettono le spinte volte a risparmi di spesa e all’adozione di modelli privatistici, in un quadro segnato dal progressivo passaggio da un impianto universalistico proprio alla riforma del 1978 a uno selettivo/condizionale19.

Infine, un ultimo aspetto resosi palese durante la pandemia concerne la mancata transizione organizzativa del SSN: la chiusura di alcuni reparti ospedalieri non si è infatti affiancata a un potenziamento degli interventi territoriali e residenziali, della medicina territoriale, di servizi socio-sanitari, in agenda da decenni. Agli stessi grandi accorpamenti che hanno caratterizzato le politiche sanitarie dagli inizi del nuovo secolo, in specie nella riduzione delle aziende sanitarie locali – dalle 180 ASL del 2005 si è giunti alle 101 del 201820 – non ha corrisposto il potenziamento di una rete territoriale dei servizi socio-sanitari. Né hanno corrisposto politiche di rafforzamento della prevenzione primaria, capaci di affrontare le deficienze dell’assistenza territoriale, di quelle dell’organizzazione domiciliare, con tutte le conseguenze che ciò ha comportato in termini di pressione sugli ospedali, peraltro sempre più indeboliti nel numero dei posti letto disponibili21. Riduzione dei posti letto (diminuiti in media dell’1,8% l’anno tra il 2010 e il 201822) e del personale sanitario (in specie in alcune Regioni), contrazione delle prestazioni e riordino della rete ospedaliera sono stati i mezzi utilizzati negli ultimi anni per il controllo della spesa, rimasta sostanzialmente stabile, a fronte dell’aumento di domanda di cure legate soprattutto all’invecchiamento della popolazione23.

Vi è poi un ulteriore dato significativo emerso a fronte della pandemia:affrontare i nuovi problemi posti da essa richiede di conciliare le logiche della clinica e della sanità pubblica delle malattie da infezione con quelle proprie delle malattie cronico-degenerative «e di tradurre entrambe in forme organizzative integrate dentro sistemi già di per sé estremamente complessi»24. La risposta a questa situazione ha creato difficoltà soprattutto nel settore della sanità pubblica e dei servizi territoriali, sia perché questi ultimi dovrebbe contribuire a contenere la rapidità di progressione del contagio per permettere al sistema ospedaliero di approntare le risorse necessarie per trattare gli infetti, sia perché i servizi territoriali costituiscono una componente fondamentale della risposta assistenziale al contagio.

L’eccezionalità della pandemia ha così riportato in primo piano le insufficienze delle condizioni precedenti. In ambito assistenziale, si è registrata una sottoutilizzazione della medicina generale, confinata in un ruolo marginale, e uno stentato sviluppo dei servizi sanitari a elevata integrazione sociale, frutto anche delle difficili relazioni fra Comuni e Aziende sanitarie25.

3. Conclusioni

È chiaro che molte delle problematiche oggi riscontrate, comprese quelle presenti nei rapporti tra Stato e Regioni, affondano le loro radici nei decenni passati, a cominciare da quanto attuato con la “controriforma” che ha investito la sanità pubblica a partire dai primi anni Novanta.

Con le nuove spinte alla depoliticizzazione dell’assistenza sanitaria e la svolta manageriale, invero iniziata già a partire dagli anni Ottanta, cominciò a mutare il quadro espansivo del periodo precedente e iniziarono ad affacciarsi tutti quei pericoli connessi a un abbandono da parte dell’Italia dei principi universalistici che essa aveva adottato per prima tra i paesi dell’Europa continentale26. Con la riforma del 1992, definita “la riforma della riforma” (D. legs. 23 dicembre, n. 502, sotto il dicastero di Francesco De Lorenzo) si procedette in tre diverse direzioni: aziendalizzazione, regionalizzazione del servizio, privatizzazione del sistema. Se il riferimento esplicito alla possibilità di uscita dal SSN rappresentò una rottura con i suoi ricordati principi fondamentali, i continui cambiamenti nel corso degli anni Novanta delle relazioni tra Stato, Regioni, aziende sanitarie e strutture private fecero emergere forti differenze nell’organizzazione e nel funzionamento dei servizi sanitari regionali, determinando «un profondo sconvolgimento nel processo di formulazione delle politiche sanitarie»27. Di fatto, la regionalizzazione del sistema, l’aziendalizzazione della sua gestione e il contesto di restrizione finanziaria negli anni Novanta produssero cambiamenti importanti nel funzionamento del SSN uscito dalla riforma del 1978. La stessa emersione dei disavanzi sanitari è stata ed è l’effetto di una sottostima del fabbisogno del SSN, legato anche alla progressiva riduzione dei finanziamenti destinati a esso nel corso del tempo.

Dinnanzi ai problemi di squilibri crescenti si sono rafforzate ipotesi e soluzioni in contrasto con i principi SSN: dalla secessione fiscale, con cui si rischia di venire meno alla solidarietà tra i territori e di alimentare ulteriori differenziazioni tra le Regioni; ai tentativi di consolidamento dei sistemi multipilastro, con una riduzione del ruolo del SSN.

In sintesi, le debolezze emerse con la pandemia, anche in termini di diseguaglianze territoriali e in ordine all’abbandono della prevenzione nei luoghi di vita e di lavoro, allo stentato sviluppo dell’assistenza primaria e territoriale, all’enfasi sui grandi ospedali, al ruolo della sanità privata, sono state il risultato dei cambiamenti subentrati a partire dall’ultimo ventennio del Novecento. Esse sono state il prodotto delle spinte al ridimensionamento della spesa sanitaria e alla privatizzazione dei decenni passati, aggravatisi con gli ulteriori tagli introdotti dalle politiche di austerità seguite alla crisi del 2008. Nella lunga recessione seguita alla crisi, il paese ha avuto maggiori difficoltà a finanziare il welfare; la spesa previdenziale è aumentata per l’effetto di una popolazione più anziana, mentre quella sanitaria si è allontanata dai livelli dei maggiori paesi europei.

La transizione organizzativa del SSN che dovrà accompagnare il dopo-pandemia nei prossimi anni non potrà non comportare una nuova fase espansiva della spesa sociale, anche a fronte della crescita delle diseguaglianze. La storia del SSN propone allora uno strumento e un metodo oggi più che mai di grande utilità. Lo strumento è nel raccordo fra una programmazione regionale condizionata da un Piano sanitario nazionale volto a ottenere prestazioni uguali e uniformi in tutto il territorio, con obiettivi di eguaglianza delle prestazioni fornite. In tal senso, la riforma del 1978 muoveva dalla preoccupazione di garantire universalità, equità di accesso, globalità di copertura, omogeneità di quelli che vennero poi chiamati livelli essenziali di assistenza, così come da una idea di solidarietà tra le Regioni28. Preoccupazione questa ben fondata alla luce degli effetti delle politiche di bilancio degli anni Ottanta e della progressiva dissociazione tra politiche nazionali e politiche regionali degli anni Novanta, quando i livelli essenziali di assistenza divennero semplici “obiettivi” in funzione delle disponibilità finanziarie. Il metodo riguarda i soggetti chiamati ad esprimersi. Le vicende storiche alle origini del SSN dimostrano che gli esperti non bastano. La sua capacità di resistenza, può infatti dipendere dalle scelte politiche che a livello nazionale, europeo e internazionale si compiranno; nonché dalla rimessa in campo di un progetto comune informato da principi e pratiche di democrazia, di responsabilità condivisa, di socializzazione della cura in ogni spazio quotidiano. Viceversa, la rinuncia all’uso del servizio pubblico – non solo da parte della classe sociale più agiata, ma anche di cittadini con reddito medio-basso i quali più che optare per il privato finirebbero per essere esclusi da servizi e cure universalmente erogati – minerebbe definitivamente il SSN e i suoi principi costitutivi, con conseguenze irreversibili sul piano delle diseguaglianze sociali e territoriali.

Il rilancio di un servizio sanitario pubblico, universalista, egualitario, senza discriminazioni di accesso e finanziato dalla fiscalità generale può dipendere da una espansione di quelle istituzioni e servizi collettivi del welfare che sono stati oggetto delle politiche di austerità, ma che sono anche terreni cruciali per prefigurare forme più ampie e alternative di organizzazione sociale ed economica. Può infine dipendere, oltre che dalla rimessa in campo del principio dell’integrazione socio-sanitaria (proprio allo spirito dei riformatori degli anni Sessanta-Settanta); da una pianificazione/programmazione nazionale dei servizi e dal loro decentramento territoriale; da una nuova politica delle alleanze; da una inedita combinazione di lotte e mobilitazioni; da un «movimento culturale teso a rivalutare il ruolo svolto dalla sanità pubblica»29; da una nuova stagione di diritti sociali; dalla soddisfazione di antichi e nuovi bisogni; da una riscrittura universale e democratica del sistema di welfare.

Note

1 Una versione estesa di questo articolo verrà pubblicato in Rapporto sullo Stato sociale 2020, a cura di F. Pizzuti, M. Raitano, M. Tancioni, Sapienza Università editrice, Roma, 2021. Si riprende inoltre qui, C. Giorgi, F. Taroni, Il Servizio sanitario nazionale di fronte alla pandemia. Passato e futuro delle politiche per la salute, in “La Rivista delle Politiche sociali”; F. Taroni, C. Giorgi, I regionalismi sanitari in Italia nel contesto internazionale: lezioni dalla pandemia, in “Costituzionalismo.it”, fascicolo 2, 2020.

2 OCSE, Osservatorio Europeo delle politiche e dei sistemi sanitari. Italia. Profilo della sanità 2019, Lo Stato della salute nell’EU, OECD, Parigi/Osservatorio europeo delle politiche e dei sistemi sanitari, Bruxelles, 2019.

3 Ufficio parlamentare di bilancio, Lo stato della sanità in Italia, Focus tematico, n. 6, 2 dicembre 2019.

4 Ibidem.

5 Si rinvia a C. Giorgi, I. Pavan, Le lotte per la salute in Italia e le premesse della riforma sanitaria. Partiti, sindacati, movimenti, percorsi biografici (1958-1978), in “Studi storici”, n. 2, 2019, pp. 417-455; C. Giorgi, La traiettoria di una sanità pubblica e universale, in “L’antivirus. Dialoghi oltre la quarantena”, 10, aprile 2020.

6 Cfr. G. Vicarelli, La politica sanitaria tra continuità e innovazione, in Storia dell’Italia repubblicana, III, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, t. 2, Istituzioni, politiche e culture, Einaudi, Torino, 1997; F. Taroni, Politiche sanitarie in Italia. Il futuro del SSN in una prospettiva storica, Il Pensiero scientifico, Roma, 2011; Id., Il volo del calabrone. 40 anni di Servizio sanitario nazionale, Il Pensiero scientifico, Roma, 2019; S. Luzzi, Salute e sanità nell’Italia repubblicana, Donzelli, Roma, 2004.

7 Istat, Rapporto annuale 2020, capitolo 2, Sanità e salute di fronte all’emergenza Covid-19.

8 Si veda anche Istat, Rapporto annuale 2020, cit., p. 101.

9 Istat, Rapporto annuale 2020, cit., p. 103.

10 Ivi, p. 100.

11 Ivi, pp. 101 ss.

12 Ivi, p. 110. Simile percentuale di diminuzione si è registrata per i pediatri di libera scelta, altra figura importante della rete di cure primarie, ammontanti a 7.500 sempre nel 2018. Infine, rispetto all’attività dei Servizi di continuità assistenziale (ex guardia medica) i medici di continuità assistenziale sono 17.306, ossia 2,9 ogni 10 mila residenti.

13 E. Pavolini, Il paradosso della sanità italiana, in “Fact Sheet”, n. 10, ottobre 2019; Id., Criticità latenti e nuove sfide. La sanità italiana alla prova del COVID-19, in “Quaderni della coesione sociale”, n. 3, 2020.

14 Per alcuni dati recenti sulle difficoltà di accesso fisico, in specie nelle liste di attesa, si rinvia a Ministero della Salute, Rapporto annuale sull’attività di ricovero ospedaliero (Dati SDO 2018), 2019.

15 Ufficio parlamentare di bilancio, Lo stato, cit. Sulla più recente persistenza dei divari interregionali, soprattutto tra regioni del Centro-Nord e regioni del Sud in relazione agli indici di rendimento istituzionale, si rinvia a E. Pavolini, Il funzionamento e la performance dei sistemi sanitari regionali italiani, in Id. (a cura di), Il cambiamento possibile. La sanità in Sicilia tra Nord e Sud, Donzelli, Roma, 2012. In relazione alle diseguaglianze sociali cfr. G. Costa, T. Spadea, M. Cardano (a cura di), Diseguaglianze di salute in Italia, in «Epidemiologia e Prevenzione», n. 3, 2004, pp. 1-161.

16 Istat, Rapporto annuale 2020, p. 106.

17 Ibidem. Di fatto il turn-over è rimasto costantemente al di sotto del livello di sostituzione; le riduzioni di personale sono state particolarmente consistenti nelle Regioni in piano di rientro.

18 Ibidem.

19 M. Ferrera, Verso un servizio sanitario selettivo? in “Stato e mercato”, n. 14, 1985, pp. 293-305.

20 N. Dirindin, È tutta salute. In difesa della sanità pubblica, Ezioni GruppoAbele, Torino, 2018, p. 121.

21 E. Pavolini, Criticità latenti, cit.

22 Se anche la media europea in termini di posti letto è diminuita tra il 2007 e il 2017 (passando da 5,7 a 5), l’Italia presenta numeri nettamente inferiori a essa (nello stesso arco di anni il paese è passato da 3,9 a 3,2).

23 Istat, Rapporto annuale 2020, cit., p. 100, p. 108.

24 F. Taroni, Andrà tutto bene? Come sta funzionando il Servizio Sanitario Nazionale in A. Mastrandrea, D. Zola (a cura di), L’epidemia che ferma il mondo. Economia e società al tempo del coronavirus, Roma, 2020.

25 C. Giorgi, F. Taroni, Il Servizio sanitario, cit.

26 Per un quadro sintetico delle trasformazioni subentrate nei sistemi sanitari durante gli anni Novanta si rinvia a F. Taroni, C. Giorgi, Espansione pubblica e riorganizzazione privata. Come sono cambiati i sistemi sanitari in Italia e in Europa in J. Perazzoli (a cura di),< Al posto della paura. Percorsi di storia dei modelli sanitari tra passato e futuro, Feltrinelli, Milano, 2020.

27 F. Taroni, Il volo, cit., p. 78.

28 La solidarietà tra le Regioni era obiettivo centrale nel dettato della legge del 1978, che infatti all’articolo 2 specificava che il SSN perseguiva, tra gli altri scopi, il superamento degli squilibri territoriali nelle condizioni sociosanitarie del paese.

29 N. Dirindin, È tutta salute, cit., p. 125.

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