E come per gli artisti, e per coloro la cui realtà si scinde in esistenza e professione, vita e opera, anche nel racconto di Zdeněk Zeman, allenatore boemo, non possiamo che trarre origine dall’opera. Quest’ultima, infatti, si autonomizza, diviene forma, e, ad ogni modo, quell’al-di-là dalla vita è l’azzardo per esprimere le nostre di esistenze. Opera, professione e, al fondo, la stessa teoria divengono nell’al-di-là per esprimere ciò che è dalla parte del vissuto.
Perché al centro, e al fondo, vi è sempre la vita, ma per esprimerla, in alcuni casi, è necessario separarsene, e solo in quella estraniazione si dà il ‘principio speranza‘ della ricomposizione. È questo che ci conduce all’opera zemaniana, poiché è solo traendo origine dal modo di giocare delle sue squadre che possiamo ritornare nell’al-di-qua, al carattere Zeman.
È la verticalità ossessiva il primo tratto riconoscibile delle sue squadre, una tensione irrequieta affinché, come scrive il regista di ‘Zemanlandia‘, Giuseppe Sansonna, ‘possa manifestarsi in ogni momento l’evento cardine del gioco: il gol’. È questa la cifra stilistica e, insieme, sostanziale delle sue squadre, la creazione di occasioni per segnare. Una creazione che, nelle sue modalità, ricorda quel genio di Andrea Pazienza, e, in particolar modo, il suo celebre ‘pensavo fosse uno sprazzo, invece era un inizio’.
Una creazione continua, immediata, in cui qualsiasi passaggio intermedio assume la forma dello sprazzo, il quale serba in sé la possibilità di essere inizio ed apertura. Ciò che è immediatamente visibile sono energia e caos, e, ad ogni modo, ciò che li sostiene, e fonda, sono l’ordine e la codificazione dei movimenti. Un disordine tenuto a freno, o, ribaltando i termini della questione, la ricerca di ordine sullo sfondo del caos. Contraddizione che vive in azioni che si assomigliano, eppure sempre diverse, in un ‘ripetersi del non ripetersi’, poiché, infatti, è quella evoluzione creatrice, a cui accennavamo, che dissolve la mediazione in energia, rendendo quei processi mai compiutamente riproducibili.
E, ancora, una cultura che si fonda sull’errore, sulla possibilità dell’errare, sulla necessità di sopportarei molteplici fallimenti affinché essi, ad ogni modo, siano inferiori alle creazioni divenute. Un azzardo costante, in cui la presa in carico del negativo è l’imprescindibile altro lato della possibilità e dell’espressione di un positivo multiforme.
È nell’opera zemaniana, dunque, che si possono ritrovare testimonianze del carattere Zeman. Sono le parole di Manilo Cangogni, il quale dedicherà un romanzo all’allenatore boemo, ad introdurci nella contraddizione di quest’uomo silenzioso e ritirato, in apparente contraddizione con il caos creativo delle sue squadre, ‘di Zeman mi colpì l’aspetto. Così alto, magro, dinoccolato, una specie di grande pinocchio. Mi piacevano le sue risposte sibilline. Mi piaceva quella faccia che, nonostante l’apparente calma, malcelava un rovello interiore’.
È il rovello interiore il nodo, quello stesso tormento presente nelle sue creazioni, e che, ora, ritroviamo nel carattere. Perché, infatti, vi è possibilità di potenza in un apparente silenzio, la quale, con la sola presenza, serba in sé la forza di contrastare ciò che non accetta, quello che la propria inquietudine impone di criticare, anche se questo fosse il mondo intero. In questo racconto non vi è spazio per vicende giudiziarie, o giudizi esplicitamente morali, e, ad ogni modo, se ci si vuole approssimare al carattere Zeman, a ciò dobbiamo accennare, a una persona la quale, nella sua apparente calma, per criticare un’istituzione, ha dato il proprio corpo in pasto ad essa.
Ad ascoltare le sue parole, tuttavia, sembra che quella possibile frantumazione del carattere non lo abbia sfiorato. Perché si può abitare e vivere nel potere, criticare il potere, senza mai farsi risucchiare da esso, anche quando quest’ultimo ti rigetta. Si può conservare, nel profondo, uno spazio ulteriore, un diverso abitare al fondo di tutte le contingenze terrene, che ti consente di dire, ‘io senza il calcio non sto bene. Fosse per me arriverei a morire in tuta, a novant’anni, all’aria aperta, a insegnare pallone a qualche ragazzo che avesse ancora voglia di starmi a sentire’.
Un diverso abitare come una seconda natura, la quale prescinde dalla compromissione o meno con il potere, e che, ciò nonostante, custodisce in sé la possibilità di riformulare e mettere in discussione le categorie istituenti. E, nel tempo-ora, in particolar modo, in cui l’unica possibile critica all’istituzione sembra essere quella di coloro che si richiamano al ‘calcio di una volta’, il quale, in realtà, nelle sue radici, nasconde darwinismo e corruzione.
Lorenzo Insigne, attuale capitano del Napoli, dice di Zeman ‘mi consigliava di giocare come se fossi in strada e divertirmi’. Ed è questa tensione di rivoluzionare l’istituzione, dall’interno, con l’ausilio di una seconda natura, a rendere possibile la ricerca di una impossibile sintesi con l’autentico ‘calcio di una volta‘, quello che non coincide con alcun tempo storico, ma, esclusivamente, con il tempo ‘mitico‘ della nostra infanzia, con ‘quell’allegria di essere vivi, come scriveva Roberto Bolaño, senza dover dare spiegazioni al riguardo’.
Questa allegria nello stare al mondo, che si ambisce a restituire agli osservatori. I tifosi presenti sugli spalti che non sono lì per osservare, esclusivamente, il tabellone con il risultato, bensì per comprendere come ci si arrivi a quest’ultimo, e, ancora più a fondo, alle radici dell’osservazione, per meravigliarsi di fronte a un evento artistico. Nel si dice, e nella chiacchiera di coloro che contrappongono semplicisticamente risultato, e modo di arrivare ad esso, Zeman è descritto come un ‘eterno perdente‘, e, ad ogni modo, bisognerebbe tentare di andare oltre una ossessiva ‘cultura della vittoria‘, la quale, dimentica, inoltre, i mezzi di partenza diseguali, nel tentativo di comprendere le molteplici canalizzazioni dell’esperienza dell’allenatore, tra cui, anzitutto, educare umanamente giovani persone, e sportivamente fare crescere talenti, e, soprattutto, andare oltre questa contrapposizione di risultato e gioco, nel tentativo di pensare i due termini non più scissi, bensì in una totalità organica e dialettica.
Sono queste categorie che si sono tentate di approfondire, la possibilità della creazione, ‘l’allegria di stare al mondo’ e, ancora, il tentativo di dare gioia all’osservatore, che entrano in relazione, nell’opera e nella vita, con la forma di vita delle nostra società. E, in particolar modo, nel dibattito odierno, in cui le origini di una Superlega, dedita esclusivamente al profitto, si sono volute ritrovare in una ‘società dello spettacolo’ di cui sarebbero anticipatori coloro che hanno tentato, nel corso delle loro esperienze, di valorizzare quell’aspetto creativo del gioco, nella tensione continua verso il suo evento-cardine, quei ‘momenti, descritti da Pasolini, che sono esclusivamente poetici: i momenti del goal’.
Perché, qui è il nodo, questo divertimento che si è tentato di esprimere non è il ‘divertissement’ Pascaliano, distrazione, evasione, e, dunque, ‘ancilla del capitale‘, bensì possibilità di una cultura alternativa a quella dominante. ‘Zemanlandia‘ non è la giostra del capitale, la massima esemplificazione di una società spettacolarizzata, bensì l’impossibile tentativo di un mondo altro, in cui sono la il caos creativo e il diverso abitare, a cui abbiamo accennato, a mettere in discussione le categorie dominanti.
Non è il non plus ultra del capitale, bensì quel residuo che tenta di interromperlo. È quella rivolta, nell’opera e nella vita, che tenta di ribellarsi, nel binomio di allegria e creazione, alle istituzioni, nella tensione verso quella ‘festa del tempo‘, estrema possibilità di interruzione, anche se momentanea, del capitale.
È in questa dimensione di momentaneo, di intravisione incapace di durare, nell’aver privilegiato, al fondo, il disordine e il caos, che vi è una possibile traccia della rivoluzione mancata di Zeman, e di una intera ‘Kultur‘.
E, ciò nonostante, non possiamo che essere grati per queste interruzioni, per queste provvisorie vie di uscita, le quali manifestavano, con la loro presenza, possibilità ulteriori e mondi sospirati. E il racconto, dunque, non può concludersi che con un inno a Zeman, nella speranza che questo passato divenga presente, e, dunque, futuro, ma trasfigurato in una diversa ‘Kultur‘ e in una forma strutturata.
Con le parole di Zeman, ‘sparita Zemanlandia… mo ce la faccio vedere di nuovo’.
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