“Il manifesto” del 14 maggio ha dedicato un ampio inserto di analisi sui dieci anni fin qui trascorsi, da quando in una Spagna piegata dalla crisi e dell’austerità si sviluppò la mobilitazione più importante nel periodo della “transizione democratica”. Il movimento degli “Indignados” capace di generare il fenomeno politico di “Podemos” arrivato fino al governo del Paese e oggi entrato in crisi con l’abbandono della politica da parte di Pablo Iglesias, il suo fondatore più rappresentativo.
Quel tempo, nel 2011, era il tempo delle Primavere Arabe e di “Occupy Wall Street” mentre montava la protesta contro gli effetti sociali della crisi economica del 2008.
È il caso di ricordare come, in quell’estate si inaugurasse anche in Italia la stagione dell’austerità, dalla lettera Trichet-Draghi, alla caduta del governo Berlusconi e all’ascesa del governo Monti.
In Italia come in Spagna quel frangente fu attraversato dall’idea di una rivolta che rifiutasse vecchi simboli e liturgie rompendo gli schemi di una democrazia ingessata: nel caso italiano però quel moto prese l’aspetto del Movimento 5 stelle fondato – a differenza di Podemos – sul motto “né di destra, né di sinistra”, sulla democrazia diretta del “web”, sul ruolo dei “portavoce dei cittadini”.
Anche la parabola del Movimento 5 stelle appare in fase conclusiva, lasciando pesanti strascichi sul sistema politico italiano e sulla sua credibilità complessiva.
Ci ritroviamo così, in una situazione di eccezionale emergenza, con un Paese prostrato, incapace di esprimere una qualche “rimostranza collettiva” verso la crescita esponenziale delle disuguaglianze verificatasi in questo periodo.
Il Governo è praticamente commissariato in una dimensione dove appare stridente il contrasto tra l’agire politico e la tecnocrazia dominante. Una tecnocrazia dominante che adesso usa come strumento di governo l’espansione della spesa.
Può allora valere il parallelo Spagna-Italia così come questo era stato interpretato dieci anni fa, se riusciamo a sviluppare una attenta riflessione sulla esigenza di strutturazione che può essere assunta in questo momento dall’intreccio tra dissenso (latente e privo di dimostrazioni evidenti) e la richiesta di alternativa.
Il tema è quello delle trasformazioni avvenute nel corso degli anni nel rapporto tra organizzazione e struttura sociale.
Il M5S ha interpretato, da questo punto di vista, una doppia funzione: quella dell’antipolitica (in questo caso intesa in una dimensione abbastanza “classica” tra Giannini e Poujade) e quella della “democrazia del pubblico” ridotta all’uno vale uno e alla cosiddetta “democrazia diretta”.
Ne è sortito un quadro di accentuata semplificazione nel rapporto istituzioni-società realizzato all’insegna del modificarsi, prima di tutto, dell’agire sociale avvenuto sulla base della spinta dei nuovi strumenti comunicativi.
In questo modo è stato definito un impianto politico fondato su quello che è stato definito “individualismo competitivo”. Anche il PD per la verità, e non soltanto il M5S, ha cercato di muoversi all’interno di quest’orizzonte, mentre altri soggetti hanno seguito percorsi più vicini all’idea del partito personale.
Tutto questo mentre si accelerava il processo di trasformazione della “forma – partito”, da partito a integrazione di massa, al modello del “catch-all-party” e via via, partito azienda, appunto partito personale, modello delle “primarie” fino alla virtualità del web assunta come futuribile agorà dell’immediatezza nella scelta.
Il M5S ha fatto dell’occupazione delle istituzioni e dei ruoli di sottogoverno il proprio punto specifico d’identità nel nome del “rinnovamento”.
Tutto questo ha significato prima di tutto che è completamente mancata una volontà e capacità di riflessione su di un punto fondamentale: quello della rappresentanza politica.
Non si è contemplata, infatti, la possibilità di costituire per determinati soggetti sociali un punto di riferimento posto proprio sul piano della rappresentanza.
Non si è compreso e si ha difficoltà di comprendere che soltanto dalla rappresentanza può discendere la funzione di governo come punto di concretezza rispetto agli interessi materiali sui quali si suscita il conflitto: interessi che debbono essere tradotti in progettualità e programmazione attraverso una visione del mondo e del futuro, con tutte le implicazioni che muoversi in questo modo deve comportare sul terreno di una strutturazione di “rappresentanza dell’universalità”, non fondata sul semplice riconoscimento di una sorta di segmentazione sociale fondata sul corporativismo lobbistico.
Invece è stata seguita la via della disintermediazione e di una sorta di spontaneismo finalizzato a incrementare una visione esasperata dell’autonomia del politico, spinta ben oltre quanto introdotto di modifica sull’azione collettiva dal processo di personalizzazione della politica che già aveva caratterizzato, dalla caduta dei grandi partiti di massa la lunga transizione italiana avviatasi fin dagli anni ’90.
Sotto quest’aspetto, certamente non tanto e non solo da parte del M5S, sono stati causati danni gravissimi alla credibilità complessiva del sistema causandone una fragilità congenita con l’esposizione a rischi di involuzione su di un terreno non propriamente identificabile come di allargamento del quadro democratico.
Rimane da rimarcare l’assenza, sempre facendo riferimento al sistema italiano, di elementi di controtendenza sia sul piano culturale sia dell’organizzazione dell’agire politico.
È evidente come questo stato di cose abbia aperto un varco a destra di rilevanti dimensioni. Varco che abbiamo definito “populismo” adesso provvisoriamente coperto dal governo Draghi . Un’operazione di copertura temporanea e parziale che non potrà sventare i pericoli insiti nella stessa natura della destra italiana.
In sostanza cosa sta avvenendo:
1) affermazione dell’autonomia dell’imprenditorialità politica in funzione lobbistica nell’esercizio del potere (questo punto vale soprattutto verso la forma e i contenuti da esprimere rispetto alle grandi “transizioni” in atto. Ecologia e digitale rappresentano tematiche decisive affrontate attraverso la logica prevalente del capitalismo tecnocratico e sotto la spinta degli interessi immediati di lobbies che si stanno imponendo in un vaso campo d’azione);
2) sviluppo della “democrazia recitativa”, come forma raffinata di demagogia che fa apparire il rapporto tra il leader e la folla come la costruzione di un (illusorio) funzionamento democratico della società.
Un possibile futuro di un ritorno ad una democrazia avanzata risiederà allora nella nostra capacità di riaffermare l’esigenza di autonomia della soggettività posta direttamente in rapporto con una rappresentanza ben individuata nella mediazione sociale dalla quale fa riemergere il concetto (ormai pressoché dimenticato) di rappresentanza della visione del futuro, delle idee, del conflitto.
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