Articolo pubblicato per la rubrica “Divano” su “il manifesto” del 01.10.2021.
Non è detto che il continuo discorrere di mafia dal quale siamo circondati e quasi travolti, come in questi giorni è accaduto in occasione d’una sentenza relativa alla cosiddetta «trattativa Stato-mafia», non debba essere sottoposto ad attente verifiche e precisazioni. A cominciare proprio dal carattere convenzionale attribuito al termine mafia. Carattere che mette capo a un connotato di mafia per l’appunto convenuto, ossia trito e ritrito, quale si è depositato almeno da un trentennio in qua.
Esso è riconosciuto e recepito dal largo pubblico e nell’opinione diffusa specialmente negli stilemi del cinema e della televisione; negli stereotipi di scontati personaggi e ambientazioni di maniera quali ci vengono descritti da una letteratura corriva e di consumo; nella attrattiva che esercitano resoconti e commenti a crudeli fatti di cronaca; e via dicendo.
Non è invece assunto nella acquisizione critica e meditata dei numerosi e importanti contributi degli studi storici, economici e politici dedicati alla mafia nell’ultimo ventennio. Studi relativi alla mafia in atto, non alla mafia in figura. In figura, ossia a una rappresentazione della mafia per nulla circostanziata, anzi, per dir così, prestabilita e, dunque, niente affatto adeguata (e anzi fuorviante) quando si intenda dar conto della consistenza effettiva di una realtà italiana attuale e viva la cui imponente rilevanza e perentoria presenza segna nel profondo la società del nostro paese e ne determina essenziali dinamiche.
Par giusto affermare insomma che, nel ragionare che si fa di mafia, continuo è oggi il ricorso a una idea riduttiva, fissa e stantia che poco ha a che vedere con la mafia attuale. Un’idea forse capace di dar conto di una mafia dei Corleonesi – «tra città e campagna», tra latifondo e speculazione edilizia – che era già in via di esaurimento mezzo secolo fa, i suoi capi arretrati e sorpassati. Una mafia di pizzini rapidamente sovrastata, in quel torno di anni, dalla mafia mutata e rinnovata della droga, in piena fase di affermazione e rinnovamento dagli anni Settanta, non più a Corleone ma già a Milano, pronta, dalla grande impresa capitalistica, a entrare tempestivamente, con un ruolo di protagonista, nell’inedito universo digitale e ad agire negli ambiti del capitale finanziario globale. Quei vecchi capi che bisognava allora potar via e quasi, diresti, più utili ai nuovi «dirigenti» se affidati alla giustizia dello Stato.
Si potrà così parlare all’opinione pubblica (proprio in concomitanza di un suo mutamento e nel momento d’un suo nuovo inizio all’altezza dei tempi nuovi) di sconfitta della mafia, della sua fine.
«Forse è bene chiarire che cosa è da intendere per fine» della mafia, ha scritto Francesco Renda, che così argomenta: «La mafia, come si evince dal suo essere associazione criminale di tipo speciale, è costituita da due distinte entità: dall’essere associazione criminale organizzata e dall’avere diffusi rapporti con la società, con la politica, con le istituzioni e con il potere. La fine della mafia vuol dire appunto l’interruzione di tali rapporti, perché vive e prospera in tali rapporti come il pesce nella propria acqua». E Renda conclude: «Il compito di annullare tali rapporti è compito della società, della politica, delle istituzioni, del potere, e la liberazione da tali rapporti è da intendersi come un’autoliberazione».
Società, politica, istituzioni, potere diciamo con Renda a intendere Stato. La fine della mafia non si dà come soppressione di un ente, la mafia, altro dallo Stato, ma come soppressione dei costitutivi rapporti Stato-mafia, intrinseci e vitali, ciascuno a suo modo, ai due enti.
Si comprende allora quanto falsificante sia la rappresentazione convenzionale che quotidianamente ci viene propinata dal cinema, dal dibattito televisivo e in gran parte della pubblicistica. Essa riguarda una mafia non più esistente, da intravedere forse proprio nella vicenda della «trattativa Stato-mafia» agli esordi degli anni Novanta, con le sue estreme (e per questo sanguinarie) imprese e le sue mediatiche (e per questo popolate in gran confusione di comprimari e di seconde parti) propaggini.
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