Articolo pubblicato su “Il Riformista” il 06.10.2021.
Il voto registra il primo effetto Draghi nella rideterminazione dei confini del sistema politico. Chi interpretava il nuovo governo come il frutto di un oscuro complotto di potenze internazionali non aveva compreso l’impatto devastante che avrebbe sprigionato, proprio sulla tenuta delle postazioni del populismo sinora trionfante, il recupero del principio di realtà come base del governo non “dei migliori” ma di sicuro responsabile e con un ordine più razionale delle priorità. Anche le letture suggerite da Canfora e Revelli di un Draghi come il capo del “partito unico dei padroni”, artefice di una restaurazione conservatrice di violenta marca proprietaria, si rivelano del tutto caricaturali. Il governo Draghi, con la sua opera di modernizzazione-razionalizzazione della struttura economica, destituisce la ragion d’essere del sovranismo di destra perché definisce le necessarie coordinate per impostare in termini più efficienti le funzioni competitive del capitalismo italiano afflitto dalla trentennale stagnazione.
Entro queste nuove coordinate che sono sì di segno produttivistico-espansive ma allo stato delle cose non più rinviabili, pena il declino storico e sociale dell’intero sistema-paese, tutte le forze e le culture devono ridefinirsi, anche quelle del lavoro (il conflitto costruttivo tra le classi si ha nello sviluppo delle forze produttive, non certo nella decrescita). Gli elementi di conflitto in nome di esigenze sociali-redistributive non sono scindibili in questa fase dalla condivisione di un paradigma che vede la politica impegnata nella progettazione di una struttura di impresa più avanzata e innovativa. Questa è la profonda e cruciale funzione politica del governo Draghi: scorporare le esigenze della crescita dell’economia dal dialetto populista disvelato come disfunzionale, e con le sue fughe dai nodi reali anche conferma della ragione profonda del declino.
La destra sovranista esce ridimensionata nelle grandi città proprio perché viene percepita dagli stessi interessi economico-sociali di riferimento come un campo politicamente inaffidabile, con una classe dirigente in larga parte impresentabile, oltre i limiti del dilettantismo. Il suo linguaggio “bestiale” non è più decodificato dalle imprese, dagli amministratori e quindi dagli elettori come un messaggio persuasivo. Il ripiegamento della destra sovranista è, per questa sua carenza di rappresentatività rispetto a solidi interessi, un dato generalizzato (esplosivo l’annichilimento della Lega a Milano) che nasce dallo scarto tra azione di governo e chiacchiera della comunicazione. La condivisione da parte della destra sovranista delle categorie biopolitiche di Cacciari e Agamben, censori della discriminazione e pifferai della disobbedienza alla dittatura dell’emergenza, ha accentuato ancor più la sua perdita di credibilità tra gli stessi settori produttivi ansiosi di riprendere le attività.
Non è tramontata la destra, che in discesa ovunque vede un sorpasso di una stanca Meloni sull’ancor più acciaccato Salvini, ma caduta è di sicuro la credibilità di una offerta di governo affidata al duello per la leadership, tra il capitano e la signora in nero, che viene giudicato dallo stesso Berlusconi come una vera follia. Basterebbe però che il cavaliere imponesse una ridefinizione delle parole chiave sfornate delle sue Tv, con le conduzioni all’insegna del sovranismo militante di Del Debbio e Giordano, per liquidare ancor più l’egemonia della destra radicale alla testa di un polo oggi scarsamente competitivo anche perché sprovvisto della rassicurazione di un soggetto centrale con un netto ancoraggio al popolarismo europeo. Senza fare nulla di eclatante, e anzi registrando la insignificanza delle sue proposte di bandiera annunciate con evanescenti tweet, il Pd esce come il vincitore della tornata elettorale, nel senso che raccoglie più di ogni altro i frutti della scossa Draghi. Semplicemente restando fermo su punti essenziali, e però limitandosi ad accantonare le categorie suicide di Bettini, Boccia e Zingaretti, l’immobilista Letta consolida la sua posizione. Per la sua residuale ma significativa persistenza organizzativa, il Pd si conferma un elemento di tenuta del sistema. Trionfa a Milano combattendo la destra e il M5s, ridotto all’insignificanza, vince a Rimini o a Salerno e compete bene a Torino e Savona adottando lo stesso spartito all’insegna di un duplice nemico. Anche a Roma il Pd conferma la sua rilevanza strategica combattendo con efficacia su due fronti, la destra e il M5S.
Nelle città dove il Pd ottiene un grande successo (Bologna, Ravenna e Napoli) alleandosi con il M5S, il partito di Conte in grave sofferenza è ridotto ai limiti dell’irrilevanza. In nessuna di queste città l’apporto grillino è determinante per il successo, neppure a Napoli conta per davvero. La sostanza del voto è che l’affermazione del Pd non è legata a una specifica formula politica. Riesce competitivo adottando le più diverse strategie. Questo significa che per il Pd la costruzione della coalizione allargata è una cosa secondaria rispetto alla rivendicazione della sua funzione di cerniera sistemica. Il sostegno al governo Draghi, imposto dalle cose e non sempre scontato nei vertici, visti i malumori delle vedove del Conte due, più che le alquanto fantasiose trovate sulle donne prete, sulla dote ai diciottenni, ha premiato il Pd. Rispetto al mesto declino, anzitutto culturale prima ancora che organizzativo, dei ceti politici di ascendenza comunista (eccezion fatta per l’area di Orfini che ha letto adeguatamente il momento), Letta ha avuto un solo merito, quello di congedarsi senza gesti clamorosi dall’innamoramento bizzarro e impolitico di Bettini, di Leu (le cui sigle vanno bene a Bologna, anche se ridimensionate rispetto alle attese e al precedente turno elettorale, e paiono in affanno altrove, soprattutto a Roma) per Conte quale leader naturale dei progressisti e quindi per le elezioni anticipate a sostegno proprio dell’avvocato del popolo.
Adesso però per il Pd viene il difficile perché, per continuare a ricavare un significativo plusvalore politico, non basta più stare fermi e lasciare parlare i processi reali innescati in origine dalla follia costruttiva di Renzi che dichiarò la crisi del Conte due (regalò un fantastico biglietto vincente a Zingaretti che invece scappò via urlando “vergogna”). Anche nel 1992-93 la sinistra vinse agevolmente le comunali, qualsiasi alleanza venisse proposta agli elettori (con la rete, con Segni, con la società civile) conquistava il municipio. Nell’ebbrezza del successo che percepiva come un evento già annunciato, il Pds non si curò di cosa avrebbe dovuto fare da grande il presidente del consiglio in carica Ciampi. E, per questa strana dimenticanza che aprì un vuoto nel percorso della transizione, la gioiosa macchina da guerra si tramutò in una armata acefala destinata alla disintegrazione a seguito della comparsa dell’invenzione politica di Berlusconi a lungo sottovalutata nella sua ardita intuizione in materia coalizionale.
Senza premature investiture, prefigurazioni di cose e invocazioni di leadership che è vano anticipare prima che i tempi siano maturi, il Pd dovrebbe comunque rammentare la lezione del 1994. Dovrebbe cioè guardare con estremo disincanto agli accadimenti, lavorare con maggiore forza per curvare in senso più sociale le politiche pubbliche e però nel contempo accantonare con decisione la fretta della astratta modellistica che suggerisce di registrare trionfalmente un ritrovato assetto bipolare. Se la sua lettura del voto amministrativo è quella di una liberatoria ricomparsa del bipolarismo, che si ripresenta finalmente a brillare nel sistema politico solo affidandosi a diversi interpreti rispetto a quelli tradizionali, il Pd adotta occhiali troppo deformanti per governare con efficacia il vuoto di sistema. E così però, esaurendo la propria funzione all’allargamento della coalizione al M5S che versa in una crisi organica (e per questo è un potenziale eversore dell’equilibrio di governo e dunque del bene politico primario della stabilità innovatrice che attualmente fa crescere il Pd), Letta rinuncia a gestire con un effetto di influenza i processi fluidi.
Nella loro incertezza essi richiedono di essere affrontati in coerente sinergia con Draghi anche se le cose, e non le scelte preventivate, dovessero portare nel 2023 oltre Draghi. La formula lettiana di “raccogliere il testimone da Draghi” corregge le intemperanze strategiche di Bettini ma annuncia il progetto di una sostituzione della leadership che è naturalmente un legittimo proposito e però allo stato attuale appare rischioso e comunque intempestivo. Se il Pd ha vinto le comunali è solo perché è apparso più di altri come il partito del momento Draghi, cioè una forza impegnata nella funzione storica della riforma modernizzatrice del capitalismo italiano, della ricostruzione delle infrastrutture, dei servizi, dell’amministrazione. Annunciare nel mezzo della battaglia un dopo Draghi è semplicemente un azzardo.
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