In questo autunno raffigurato dalla politica nazionale e dal relativo racconto giornalistico come una sorta di prepartita in vista dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica, sembra prevalere, come nei giorni che precedono un derby decisivo per le sorti di un campionato, quella che nel gergo del giornalismo sportivo si chiama pretattica. Quell’insieme di posizionamenti, dichiarazioni, prove di forza e uso strumentale di informazioni vere o presunte, allusioni e previsioni, è o dovrebbe essere funzionale per ciascuna squadra ad arrivare all’ora cruciale, alla partita vera e propria, nella condizione più agevole per giocarla e, possibilmente, vincerla. Ciò che rischia però di passare in secondo piano è una visione complessiva degli obiettivi strategici da perseguire in questa delicata fase della storia del Paese e dell’Europa in relazione ai quali il passaggio – importantissimo – dell’elezione del Presidente della Repubblica deve necessariamente essere pensato. In fondo, anche una buona pretattica ha bisogno di avere alle spalle una piena consapevolezza del tipo di campionato che si sta giocando e dei risultati che ci si aspetta di conseguire a fine stagione.
Fuor di metafora, è evidente come le questioni che agitano il dibattito, a partire dalle quali dovranno articolarsi le scelte dei prossimi mesi, ruotino tutte attorno al destino del Governo guidato da Mario Draghi. Non si tratta di una questione qualsiasi, perché non si tratta di un Governo qualsiasi. Mario Draghi, agli occhi delle classi dirigenti mondiali il più illustre italiano vivente, è stato chiamato a garantire per l’Italia la gestione ordinata della transizione in atto nel capitalismo europeo e occidentale. Si può dire che il Governo Draghi sia, con tutte le sue contraddizioni e tensioni interne, la versione italiana della ristrutturazione sistemica che i segmenti egemoni del capitalismo occidentale stanno affrontando in risposta alla crisi generale con cui sono alle prese ormai da anni, che si presenta nella forma di tre distinte crisi: quella economica esplosa con la grande recessione e mai davvero superata, quella egemonica determinata dall’avanzata dell’antagonista cinese, quella politica che si esprime nella reazione nazional-populista che interessa trasversalmente Europa e America. È persino superfluo segnalare quale potentissimo fattore di accelerazione sia stato, da questo punto di vista, il SARS-CoV-2.
Su questa base si può dunque dire che hanno ragione coloro i quali, da sinistra, invitano a prendere sul serio il tornante rappresentato dall’insediamento di questo Governo e dal suo incedere pur contraddittorio. Esso costituisce infatti un terreno di contesa sul quale non possono che confrontarsi opzioni diverse in merito al modo in cui l’Italia deve e dovrà attraversare la transizione in atto, nel quale però l’indiscutibile e fedele riferimento ai fondamentali, alle cosiddette compatibilità di sistema (dal punto di vista dei paradigmi economici, della fedeltà atlantica e dell’adesione al liberalismo politico) resta garantito dall’autorevolezza che tutti sembrano disposti a riconoscere all’attuale Presidente del Consiglio dei Ministri. Ancora più ragione hanno, in questo quadro, coloro i quali invitano la sinistra a porsi le domande giuste.
Alla prima di queste domande fondamentali è stata già fornita una risposta de facto attraverso una scelta netta, compiuta dalla parte maggioritaria della sinistra politica, sostenuta dalla quasi unanimità della sinistra sindacale e culturale del Paese: entrare a far parte del Governo Draghi, sostenerlo, accettare da un lato il vincolo di responsabilità sulla sua tenuta e dall’altro la condivisione di quel vincolo con le forze politiche, sociali e culturali della destra, ha significato e significa ritenere di dover presidiare dall’interno o da vicino, cioè dal Governo, garantendosi l’accesso a importanti leve di gestione e di manovra, o almeno di supervisione e controllo, la complicata fase di uscita dalla temperie pandemica e di ingresso in una fase nuova degli assetti politici ed economici globali, europei e nazionali.
Ciò che appare meno chiaro e definito è il come della partecipazione della sinistra alla gestione della transizione. La seconda e decisiva domanda, che è in realtà una domanda – per così dire – originaria, riguarda dunque il punto di vista a partire dal quale si guardano le dinamiche sistemiche che si sviluppano nell’articolazione delle tre crisi sopra menzionate e verso quali obiettivi strategici si orienta la presenza e l’iniziativa della sinistra nella transizione in atto. Sembra diffondersi, persino nell’ambito di autorevoli settori del gruppo dirigente di un partito nato proclamandosi interclassista come il PD, la consapevolezza che a questa domanda si possa e di debba rispondere con una parola: lavoro. Negli ultimi anni sono infatti esplose le contraddizioni, le ingiustizie e le fragilità di un mondo costruito attorno a un capitalismo che, almeno in Occidente, ha perso, alla fine del secolo scorso, il suo grande antagonista storico ovvero il movimento operaio. È una dialettica con il punto di vista del lavoro che occorre al capitalismo per trovare, all’uscita da questo passaggio critico, un assetto più razionale ed equilibrato; è un capitalismo più razionale ed equilibrato che occorre al punto di vista del lavoro per trovare, all’uscita di questo passaggio critico, un terreno più agevole e rapporti di forza più favorevoli anche nell’ottica del rilancio di un più radicale e generale antagonismo nei confronti dello stato di cose presente. L’esigenza di una profonda riforma del capitalismo, poi, si trova come è evidente in un rapporto di reciproca co-implicazione con quella di un’Europa più forte politicamente e più autonoma strategicamente. A partire da questa reciproca co-implicazione, può essere costruita la strategia di una sinistra che, riconquistato un punto di vista critico sul mondo così come è, ritrovi anche una propria specifica funzione storica.
Il tema del punto di vista pone una terza questione, quella dell’organizzazione. Uno sguardo, un pensiero critico che non sia anche una forza storica quasi mai riesce a uscire dall’ambito delle declamazioni di principio e delle rivendicazioni velleitarie, condannandosi a una condizione di scollamento da quello che dovrebbe essere il suo blocco sociale di riferimento – e dunque di inefficacia politica – non meno di una forza che quel punto di vista abbia messo da parte, abbandonato o rinnegato. In ciò sta la speculare e complementare inadeguatezza delle sinistre per come sono oggi configurate. Da una parte un partito di grandi dimensioni che, abbandonato un qualsiasi punto di vista critico sulla società e sui poteri che la governano, si è rinchiuso nel fortino dei ceti agiati insieme alle élite il cui punto di vista sembra avere strutturalmente assunto; dall’altro, una galassia di sigle e di personalità magari bene orientate, ma incapaci di esprimere una forza percepibile come tale da coloro i quali di quella forza avrebbero bisogno per emanciparsi e migliorare la propria condizione. Due insufficienze che non fanno una sinistra moderna capace – coniugando visione e manovra, strategia e tattica – di incidere nei processi storici in atto, cosa di cui sarebbe in grado solo una grande forza del lavoro capace di organizzare, attorno al punto di vista del lavoro e a partire dalla tutela intransigente e riconoscibile degli interessi delle persone che per vivere hanno bisogno di lavorare, le altre istanze critiche e potenzialmente trasformatrici di cui sono gravide le nostre società, innanzitutto quelle che mettono al centro la contraddizione produzione-natura e quelle che perseguono un’idea di progresso in termini di ampliamento dei diritti civili.
A ciò non giovano tutti quegli elementi che negli ultimi decenni hanno determinato la pressoché totale dissoluzione di un sistema della rappresentanza politica e istituzionale fondato da un lato sulla presenza di grandi partiti portatori di culture politiche ben definite capaci di organizzare vasti settori della società e dall’altro sulla centralità del Parlamento come luogo della rappresentanza, del conflitto e della mediazione. La quarta domanda riguarda allora il tema della ricostruzione, in forme rinnovate, di un sistema di rapporti politici e istituzionali capace di assolvere alla necessaria funzione di rappresentanza, organizzazione e mediazione degli antagonismi presenti nella società attraverso il filtro di culture politiche riconoscibili e all’altezza delle grandi questioni del nostro tempo e di quello a venire. Occorre però preliminarmente riconoscere il fallimento del tentativo di incardinare il sistema politico italiano nello schema di un bipolarismo rigido, costruito attraverso gli artifici delle leggi elettorali maggioritarie. Il vuoto di rappresentanza, che quel tentativo ha significativamente, anche se non da solo, contribuito a determinare, ha prodotto gli attuali tassi di astensione dal voto, la volatilità degli orientamenti elettorali, la personalizzazione della politica, lo svuotamento dei partiti, l’appiattimento programmatico tra le forze politiche, le ondate demagogico-populiste, l’esautorazione progressiva del Parlamento e lo slittamento della costituzione materiale del Paese verso una forma di governo che, nella prassi, è sostanzialmente diversa da quella parlamentare pensata dai costituenti.
Per offrire una risposta sensata a ciascuna delle questioni che si è qui provato a porre, non basta e non basterà una buona tattica né tanto meno una pretattica. Neppure sarà sufficiente un buon programma, magari scritto attraverso un bel percorso di partecipazione democratica. Serve e servirà anche ridiscutere i nodi fondamentali della cultura politica e organizzativa della sinistra, della sua visione del mondo, delle categorie con le quali si propone di comprenderlo, della strategia con la quale si propone di cambiarlo. I dirigenti, gli intellettuali, i militanti della sinistra che verrà dovranno dimostrarsi capaci di questo, anche in vista dei prossimi decisivi passaggi istituzionali e politici, dall’elezione del Presidente della Repubblica alle prossime elezioni politiche e oltre.
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