Il 16 febbraio 2022 sarà una data da ricordare nella storia dell’Unione europea, a poco più di due anni dall’adozione del Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che condizionava l’erogazione dei fondi del bilancio pluriennale e quindi, anche del Recovery fund, al rispetto dello Stato di diritto da parte degli Stati beneficiari, la Corte di giustizia europea respinge il ricorso di Polonia e Ungheria.
Per capire questa storia bisogna fare un passo indietro e tornare a quel dicembre 2020 quando, proprio per impedire l’entrata in vigore del regolamento, Polonia e Ungheria minacciarono di mettere il veto sull’intero bilancio pluriennale e bloccare così le risorse dell’intera Unione.
Il Parlamento europeo, con il ruolo determinante del suo presidente David Sassoli, non si fece intimorire ed approvò definitivamente il Regolamento in questione. La cancelliera Merkel propose ai due oppositori di inoltrare un ricorso alla Corte di giustizia così che, nel frattempo, il regolamento sarebbe stato di fatto “congelato”. Questa mediazione convinse Orban e Morawiecki a togliere il veto.
Oggi, la Corte si è pronunciata e ha respinto in pieno il ricorso, tuttavia, vale la pena di approfondire meglio l’intera questione.
Innanzitutto salta agli occhi il ruolo svolto dal compianto presidente Sassoli e il contrasto con il fatto che tra i Paesi che hanno sostenuto in giudizio il Parlamento e il Consiglio non vi fosse l’Italia. Io non so spiegarlo e spero che questo fatto venga chiarito al più presto da chi di dovere.
In secondo luogo, la Corte tiene a specificare che la sua sentenza si riferisce esclusivamente al danno economico che la mancanza di rispetto dello Stato di diritto può arrecare al corretto utilizzo delle risorse del bilancio dell’Unione e non alle violazioni in sé.
La Corte specifica, inoltre, che la procedura contenuta nel regolamento finanziario non elude la procedura prevista dall’art. 7 del Trattato dell’Unione e che conferisce al Consiglio europeo il potere di intervenire sulle cause del non rispetto dello Stato di diritto di cui quelle economiche sono solo una delle conseguenze. Su questo tema ci siamo soffermati in un articolo pubblicato il 21 dicembre 2020 in cui si denunciava l’impotenza del Consiglio europeo a far applicare i principi dell’art 7 e, riprendendo una proposta contenuta nella proposta di Trattato costituzionale di Altiero Spinelli, si sosteneva, appunto, che dovesse essere la Corte di giustizia a occuparsene. La sentenza rafforza questa direzione e mi auguro che se ne tenga conto.
Infine, la Corte respinge l’obiezione di Polonia e Ungheria basata sul fatto che il Regolamento non fissa i principi dello Stato di diritto, con l’argomento che tali principi sono stati sufficientemente elaborati dalla Corte stessa costruendo una giurisprudenza europea ampiamente condivisa dagli Stati membri e base della fiducia reciproca così importante per un affidamento anche nell’uso delle risorse comuni.
Nelle prossime ore valuteremo le reazioni, a cominciare da quelle dei diretti interessati. Certo è che questa sentenza indica la strada a chi crede in un progetto europeo democratico e condiviso, libero dai ricatti che la cappa intergovernativa ha imposto alle istituzioni dell’Unione e che non può prescindere dai valori che sono alla base di quello che chiamiamo “Stato di diritto”.
Il più grande rimpianto è che Davide Sassoli non abbia potuto condividere con noi la soddisfazione per quello che è a tutti gli effetti un suo successo.
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