Siamo in guerra, violando la Costituzione
La guerra è tornata al centro della politica. Conta la forza, meglio se armata: chi vince è legittimato e detta le regole. La guerra militarizza il linguaggio e le pratiche, risignifica i conflitti, si incista nella quotidianeità e trascina tutti e tutte nella contrapposizione frontale, nell’aut-aut dell’affermazione identitaria e della negazione dell’altro come nemico.
Con il rischio del ricorso al nucleare la guerra registra un salto di qualità. Un pericolo che dovrebbe indurre a fare ogni sforzo per fermare le armi e per impegnare tutte le risorse politiche nel negoziato. Ma il ricorso alla mediazione sembra ancor più che vano, un modo per favorire l’invasore, sottraendosi all’imperativo di combattere e vincere il nemico, identificato con il Male.
Siamo in guerra, ma non viene detto chiaramente. Al contrario, tutto il fronte occidentale – Usa, Gran Bretagna, Unione europea, Nato – afferma di essere dalla parte dell’Ucraina, compiendo tutti gli atti compatibili con il non coinvolgimento diretto nella guerra. Lo confermerebbe il rifiuto della richiesta di No Fly zone fatta da Zelensky. Ma tutto dice, al contrario, che siamo coinvolti direttamente in questa guerra. Con le armi, con le sanzioni, con le parole, con le iniziative diplomatiche. È comprensibile, e anche condivisibile, che non si voglia dichiararlo. Ma c’è in questo tacere un’ipocrisia che intossica non solo il discorso pubblico, ma la coscienza di noi tutti e tutte sulla guerra in atto. L’ipocrisia di fare la guerra “per procura”, mettendo a rischio le vite altrui; il veleno di fare ciò che è giusto per l’Ucraina, per la democrazia, per la pace. Sì per la pace. La parola “pace” ha cambiato significato: l’antica massima “se vuoi la pace prepara la guerra” si presenta in versione radicale “non c’è pace senza guerra ”. Dopo gli ossimori della “guerra preventiva” e della “guerra umanitaria”, siamo a quello della “ guerra pacifista”: “è come se avessimo delegato alla guerra la missione di pace”, ha lucidamente scritto Nichi Vendola.
Restando all’Italia, “nel momento in cui ci troviamo a fare i conti con una delle più gravi e minacciose crisi internazionali che abbia mai investito il mondo contemporaneo, l’art. 11 è stato silenziato nel dibattito pubblico (…). In modo grave e precipitoso l’intervento umanitario si è trasformato in intervento bellico e l’offerta di aiuto a un popolo aggredito con l’invio di armi a un governo straniero, si presenta come una sorta di dragging into war. E tutto ciò in assenza di specifiche risoluzioni dell’Onu”. Non si tratta di una disattenzione, “ma di una precisa scelta politica. Se oggi dell’articolo 11 nessuno più parla è perché la sua vigenza è ritenuta scomoda, un ingombro normativo che è meglio scansare” (Claudio De Fiores, “Il principio rimosso”, il manifesto, 25 marzo 2022 ). Ma il ripudio della guerra non è una norma tra le altre è un principio “in grado di vincolare l’azione di tutti i pubblici poteri e di prevalere automaticamente su qualsiasi altra fonte del diritto interna o anche esterna al nostro ordinamento” (ivi).
Questa è una ragione cogente per dire esplicitamente che siamo in guerra. La coscienza pubblica del paese deve sapere che lo Stato italiano, il suo governo, le sue istituzioni hanno deciso di prendere parte a una guerra. Si deve rendere tutti e tutte consapevoli che è stata violata la Costituzione, invece di nasconderlo dietro la retorica degli “aiuti”. Se si ritiene che quel ripudio della guerra non sia più realistico è bene non tacerlo; serve solo a lasciare indefinito e arbitrario chi può, e se quando e come, decidere che ricorrere alla guerra è “necessario”. Serve insomma a tenersi le mani libere e a violare ancora la Costituzione. Non è un problema tecnico, di interpretazione di questa o quella norma, ma di portare alla coscienza pubblica e democratica che la guerra è tornata all’ordine del giorno della politica, la impregna tutta, coinvolge la nostra vita quotidiana, la nostra convivenza, i nostri rapporti più prossimi e più lontani. C’è chi è convinto che vi siano ragioni ineludibili per questo ritorno; bene le si faccia valere, motivando perché quel ripudio, così cogente, non deve essere rispettato.
Anche per chi contrasta non solo “questa” guerra, ma la rinnovata centralità della guerra nella politica, risulterebbe più impellente la domanda su “come” risolvere altrimenti i conflitti, combattere le dittature, governare la convivenza. Lo ripeto, non è un problema di rispetto formale della norma costituzionale, ma di portare il confronto nella coscienza pubblica, sui nodi più aspri e difficili. Per questo dire “siamo in guerra”, non è l’affermazione faziosa di una parte, ma il riconoscimento della situazione in cui siamo, a partire dalla quale ci si confronta e divide, e ognuna delle posizioni deve farsi carico di tutte le implicazioni della propria scelta.
La riduzione della politica a guerra
Le piazze ricolme di tante città di Europa, dalla Russia all’Atlantico, con gli striscioni “Peace No War” e “Fuori la guerra dalla storia”, sono apparse lontane dalla politica, incapaci di affermarsi contro la potenza delle armi. E sono state bollate di indifferente equidistanza, quando non accusate di “filoputinismo”, neologismo orrendo nel verbo e nella sostanza.
La riduzione della politica a guerra, come vide bene Pietro Ingrao (Pietro Ingrao, La guerra sospesa), aveva già segnato un salto di qualità con la guerra del Golfo nel 1990. Contro questa riduzione Ingrao ripropose la differente politica dell’agire collettivo, in grado di incidere sulla trama dei poteri. Non come utopica cancellazione della forza, ma come “costruzione di forme, scelta di terreni e di strumenti” in grado di far “crescere il protagonismo, il peso, il potere di grandi masse”. Una scelta realistica, poiché è stata questa la politica che ha prodotto le trasformazioni sociali più significative nei decenni del dopo guerra. Una politica di civilizzazione del conflitto, alternativa alla semplificante logica amico/nemico. Coerente con l’art. 11 della Costituzione che andrebbe letto nella sua interezza, per comprenderne appieno non solo la rilevanza ma la chiara indicazione di come attuarlo, operando per la pace. Ripudiando la guerra infatti l’Italia “consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. L’Onu e i suoi organismi furono istituiti per questo. Ma, come è noto, l’ordinamento internazionale è stato stravolto, piegato di volta in volta alle ragioni delle potenze, grazie anche al diritto di veto nel Consiglio di sicurezza. E oggi è di fatto marginalizzato, al suo posto agiscono i governanti dei singoli Stati, ciascuno più attento agli interessi nazionali che a quelli della pace e della giustizia.
Nel 1990 il movimento pacifista ricolmò le piazze del mondo, e fu definito dal New York Times la seconda potenza mondiale; riconducendolo così dentro la logica dei rapporti di forza, per significare che avrebbe potuto incidere sui poteri. Purtroppo quel movimento mondiale non fermò la guerra, né fu in grado di frenare la riduzione della politica a guerra. Da allora le guerre si sono succedute, a bassa o alta intensità, in molte aree del mondo. Una delle menzogne più atroci che sento ripetere è che la guerra in Ucraina segna il ritorno della guerra in Europa. Si cancellano così dalla storia e dalla memoria, le guerre nella ex Jugoslavia, in Cecenia, nella stessa Ucraina. Oltre alle tante guerre in cui Stati europei, e tra questi l’Italia, sono stati direttamente coinvolti, con invio di truppe e non solo di armi.
Se il ritorno della guerra è post dato, cancellando 32 anni di storia, si può parlare di una “prima volta” per intere generazioni, e ricongiungerle così, nel sentimento di ripulsa dell’invasore, alle generazioni della Resistenza, quelle dei padri e delle madri della democrazia, delle Costituzioni, della libertà. E della pace che come fu conquistata andrebbe conquistata oggi e sempre con le armi. Non importa se questa abbreviazione non solo viola, come ho detto, l’art. 11. Tantomeno conta che così si ribalta e travolge il senso e il vissuto di larga parte degli uomini e delle donne che parteciparono alla Resistenza, e che trovarono compiuta espressione proprio in quel ripudio solenne scritto in Costituzione. Ma soprattutto quel vissuto guidò il loro agire politico, ispirò il senso e il valore della loro partecipazione alla politica. Quello che Ingrao voleva rilanciare contro il ritorno della guerra.
Oggi quell’“io e altri insieme” sembra vana retorica, condannato all’impotenza. Non solo non è considerata più la strada maestra per contrastare la guerra, ma porta su di sé la macchia di connivenza, più o meno voluta, con il nemico aggressore. Per non sottostare a questo stravolgimento, bisogna porsi domande aspre su cosa è oggi la politica. Come, perché, quando si è prodotta la frattura tra la politica agita in prima persona e la politica delle sedi in cui si decide? Come, perché e da quando conta solo chi esercita il potere, fino al ricorso delle armi? Come, quando e perché conflitto è tornato a coincidere con guerra, e l’antagonista, o semplicemente l’altro/a coincide con “nemico”? Non è stato sempre così, sappiamo quanto la “politica prima”, per dirlo con una formula, quella dei partiti e movimenti di massa, abbia inciso sugli eventi storici.
Pensando con Virginia Woolf
Porsi queste domande può apparire un divagare, perfino un alibi di fronte al corso tragico della guerra. Parlo innanzitutto di me. Mi sono spesso bloccata nel formulare questi pensieri, per un senso di colpa; come se fosse un’illusoria via di fuga dall’angoscia e dall’impotenza. Mi sono venuti in soccorso parole e gesti compiuti in altri contesti di guerra. Ho già detto di Pietro Ingrao: del suo “No, non si può tacere” di fronte all’adesione dell’Italia alla guerra del Golfo (la prima guerra “giusta”, mossa in nome della libertà e della democrazia contro un dittatore, per liberare il suo popolo, prima di tutto le donne).
Ora mi rivolgo a Virginia Woolf, a quel testo straordinario del 1940 Pensieri di pace durante un’incursione aerea. Al buio di notte, Virginia sente sua quella lotta, “ma come può lottare per la libertà senza armi da fuoco?”. Come può aiutare il giovane uomo inglese a sconfiggere il nemico? E si risponde che può “combattere con la mente”, può fabbricare idee (…). Ma perché le idee siano efficaci, dobbiamo essere in grado di spararle (…). Combattere con la mente significa pensare contro la corrente, e non a favore”. La corrente “veloce e rapida” dice ogni giorno “che siamo un popolo libero che combatte per difendere la libertà”. Ma “non è vero che siamo liberi”, lui a combattere in cielo, lei al buio nella sua stanza. Virginia Woolf è consapevole che “bucare i palloni gonfiati d’aria e smascherare i germi di verità”, pensando contro corrente, espongono lei donna all’insulto e al disprezzo.
Ma “abbandonare la futile attività di produrre idee” incoraggia all’irresponsabilità, lascia la lotta solo alle armi del giovane inglese in cielo. Lui è da sempre educato all’onore e alla gloria conquistata “uccidendo perfetti sconosciuti”. Pensare anche per lui richiede di sottrarlo alla “guida delle voci che straripano dagli altoparlanti e dai politici” e attivano “gli antichi istinti, istinti incoraggiati e nutriti dall’educazione e dalla tradizione”. Pensare contro corrente vuol dire, allora, “portare alla coscienza l’inconscio hitlerismo che tutti ci opprime: è il desiderio di aggressione; il desiderio di dominare e di schiavizzare” .
Dobbiamo “aiutare i giovani uomini inglesi a strapparsi dal cuore l’amore delle medaglie e delle decorazioni”, possiamo “creare attività più onorevoli per chi cerca di dominare in se stesso l’istinto al combattimento, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle armi”. “Dobbiamo aprire l’accesso ai sentimenti creativi. Dobbiamo fare felicità. Dobbiamo liberarlo dalla macchina. Dobbiamo tirarlo fuori dalla sua prigione, all’aperto. Ma a che cosa serve liberare il giovane inglese, se il giovane tedesco e il giovane italiano rimangono schiavi?
Questa è per Virginia Woolf la condizione reale per il disarmo, per la pace. Oggi verrebbe bollata come fuga nell’astrazione, perfino indifferenza colpevole verso chi la guerra la patisce, sia chi è in armi, sia chi è inerme. Confesso di subire a più riprese questo giudizio come un interdetto. E ancora mi viene in aiuto Virginia: non sto esagerando la mia incapacità, per sottrarmi al disprezzo, all’insulto? Ed eccomi qui a scrivere, sulle sue tracce, i miei pochi pensieri sulla guerra e su come lottare senza ricorrere alle armi.
Penso che non sia parlare d’altro, rispetto all’urgenza tragica degli atti quotidiani di guerra, nominare gli istinti inconsci del dominio e della schiavitù che ci abitano e ci muovono. E che si debba risalire alle condizioni non immediate che hanno prodotto l’aggressione della Russia all’Ucraina e che sorreggono gli atti, le scelte e le reazioni dell’una e dell’altra parte. Penso che oltre a comprendere le strategie, gli obiettivi e le finalità militari e politiche dei leader – compito nel quale non posso né voglio addentrarmi – sia essenziale contrastare il clamore delle voci che guidano la corrente della guerra nelle menti e negli animi di noi tutti e tutte. Senza dimenticare che ben diverso è trovarsi dove si combatte – nel 1940 nel cielo di Londra, oggi nel cielo e nella terra di Ucraina. Ma, come Virginia Woolf, sento che questa guerra mi riguarda e che non posso non pensare a come impegnarmi in questa lotta. Senza armarmi, al contrario per silenziare le armi e le voci che le accompagnano.
Lottare con i nostri corpi disarmati
Qui mi assale il pensiero dei corpi, investiti dalla guerra, in tanti modi, tutti tremendi. Nel femminismo ho appreso il pensiero incarnato che non riduce i corpi a oggetto da colpire o da usare nello scontro armato, ma li assume come misura e senso del proprio essere e del proprio fare. Un porsi nella situazione che è sempre anche un esporsi con il corpo e non solo con la mente. Da qui il pensiero pressante sul che fare. Ovvero su come rilanciare la possibilità di agire “io e altri insieme” che resta per me la politica da mettere in campo contro la politica centrata sul potere e sulla guerra.
Nadia Fusini ha nominato meglio di me il paradosso che “assilla e strangola” chi vuole lottare, mettersi in gioco interamente per la pace, senza armarsi. “Non si può difendere la pace con la guerra – ha scritto su Facebook – né mandando le armi agli ucraini invasi, né creando nel cielo la zona di non sorvolo – atto che servirebbe al ricattatore Putin per scatenare una terza guerra mondiale. Insieme, detesto dal profondo del cuore l’idea di soccombere al ricatto, e rifletto e ragiono: non si può neppure lasciare solo un popolo, uomini e donne e bambini; né si può confidare nella diplomazia, visti gli attori in gioco; né credere nelle virtù nascoste di soluzione e di giustizia in mano a potenze mondiali e europee, che giorno dopo giorno danno semmai prova di impotenza. Una impotenza agghiacciante e al fondo colpevole”. Da qui Fusini avanza una proposta: “mi chiedo allora: se organizzassimo una resistenza passiva di inermi? Se noi donne e uomini europei di buona volontà dall’Italia, dalla Francia, dalla Spagna partissimo disarmati e andassimo al confine con l’Ucraina e cercassimo di entrare, semplicemente a testimoniare che siamo con loro: in tanti, tanti corpi vivi che vanno a condividere la minaccia di morte, che un superpotente viriloide e fascista, colluso con un sistema di governo mondiale ambiguo e ipocrita, impone a un popolo, noi stessi diventando quel popolo? Questo non avrebbe senso?”.
Penso non solo che abbia senso ma sia sempre più urgente tradurre le sue parole in un’azione concreta, carica di potenza simbolica. Possiamo mettere in gioco i nostri corpi disarmati, farne una grande massa da interporre all’aggressione armata; esposti ai colpi dal cielo e da terra, a rischio; protetti solo dall’essere una “massa” estesa e animata da un unico forte intento: far tacere le armi, porre fine alla politica della guerra. Potranno essere bersaglio da colpire come sefossero un edificio o un carro armato nemico? È il rischio da assumersi, ma non è difficile immaginare che sarebbe arduo giustificare, e dunque attuare la decisione di colpire questo bersaglio.
Dalle pagine de Il Riformista Luca Casarini, di Mediterranea Saving Humans, ha rivolto l’invito a chi è favorevole all’invio di armi, tra gli altri Enrico Letta e gli “opinionisti con stivali ed elmetto”, “di mettere da parte le divisioni sull’invio di armi per organizzare insieme una marcia per la pace a Kiev per fermare le bombe. Creiamo una variabile nuova in una storia che sembra già scritta. Viviamo in un mondo dove decidono tutto i tre grandi imperi di Usa, Russia e Cina, ma rimane sempre una variabile inattesa: l’umano. Può cambiare le cose”.
Sono proposte diverse ma affini, mosse dallo stesso intento: esserci, prendere parte nel vivo del conflitto, mostrando la possibilità di un’alternativa al prendere le armi. È difficile spezzare la logica ferrea che porta a un intensificazione della guerra, della sua potenza distruttiva, dei massacri di civili inermi, dei rischi legati alle armi nucleari. Nelle guerre contemporanee non c’è più regola né limite. E questo fa paura, genera impotenza, perfino rassegnazione.
Per non subire, imprigionati nelle menti e nei corpi, il corso ineluttabile degli eventi bellici, dovremmo fare uno sforzo di invenzione sulle forme di lotta per la pace. A me l’età e la fragilità del corpo non consentono più di un’attenzione sollecita. Come Virginia, credo che possa servire anche questo stimolo. Ed è con questo intento che ho ripreso le proposte di Fusini e Casarini. Come loro sono convinta che “dobbiamo crederci. Dobbiamo rischiare”.
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