Democrazia, Diritto, Politica, Temi, Interventi

Articolo pubblicato su “il manifesto” del 18.03.2022.

Sul principio pacifista è calato l’oblio. Non ne ha parlato il Presidente del Consiglio nella sua informativa alle Camere. E neppure le Camere nella risoluzione approvata pressoché all’unanimità il 28 febbraio. Anche i leader delle grandi formazioni politiche hanno taciuto. E non diverso è stato il comportamento assunto dal sistema mediatico.

È così accaduto che, proprio nel momento in cui ci troviamo a fare i conti con una delle più gravi e minacciose crisi internazionali che abbia mai investito il mondo contemporaneo, l’art. 11 è stato silenziato nel dibattito pubblico.

Eppure l’art. 11 non è una norma di dettaglio della Costituzione italiana. In esso è sancito il ripudio della guerra: un principio supremo dell’ordinamento. E in quanto tale inderogabile, irrivedibile, in grado di vincolare l’azione di tutti i pubblici poteri e di prevalere automaticamente su qualsiasi altra fonte del diritto interna o anche esterna al nostro ordinamento, dal momento che anche l’adattamento al diritto internazionale (ex art. 10 Cost.) «non potrà in alcun modo consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale» (Corte cost., sent. n. 48/1979).

Un principio, quello pacifista, che il Costituente ispirandosi alla costituzione repubblicana spagnola (1931), volle formulare impiegando parole quanto mai forti, fino a preferire, alla meno efficace formula «rinuncia», il verbo «ripudia», proprio in considerazione del suo «accento energico» che «implica così la condanna come la rinunzia alla guerra» (Intervento di Meuccio Ruini in Assemblea Costituente, 24 marzo 1947).

Certo, potremmo continuare a far finta di nulla, seguitare a rifugiarci in soluzioni interpretative di comodo. E illuderci che, in fin dei conti, si tratta solo di mere distrazioni commesse dai vertici delle istituzioni italiane oggi, sempre più, alle prese con gli scenari di guerra. Ma sbaglieremmo. Perché non di disattenzione si tratta, ma di una precisa scelta politica. Se oggi dell’articolo 11 nessuno più parla è perché la sua vigenza è ritenuta scomoda, un ingombro normativo che è meglio scansare. È quanto è avvenuto il 28 febbraio 2022, quando – contestualmente all’instaurazione dello stato di emergenza – l’esecutivo italiano ha deciso di «sostenere le autorità governative ucraine, mediante la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari». E tutto ciò con decreto e in “deroga” alle disposizioni di cui alla legge 9 luglio 1990, n. 185. Legge che, richiamandosi espressamente ai «principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», all’art. 1 vieta «l’esportazione e il transito di materiali di armamento… verso i Paesi in stato di conflitto armato» (art. 1, dl. 16/2022).

L’Italia ha risposto all’appello del Presidente Zelensky» ha detto Draghi in parlamento. E non avrebbe potuto essere diversamente a fronte di una guerra di aggressione scatenata nei confronti di uno Stato sovrano e condotta attraverso bombardamenti a tappeto su civili, città, obiettivi strategici. Di qui l’impegno assunto dal Governo italiano (di concerto con gli altri esecutivi europei) finalizzato ad arginare alcune delle conseguenze più gravi prodotte dalla crisi umanitaria in atto. A cominciare dall’adozione di precise misure per l’accoglienza dei profughi.

Tutto cambia però, in modo grave e precipitoso, quando l’intervento umanitario predisposto da uno Stato si trasforma in intervento bellico e l’offerta di aiuto a un popolo aggredito inizia improvvisamente a degenerare, attraverso l’invio di armi a un governo straniero, in una sorta di dragging into war. E tutto ciò in assenza di specifiche risoluzioni dell’ONU, analoghe a quelle approvate nel 1990 all’indomani dell’invasione irachena del Kuwait (risoluzione 660 e seguenti). Ma esclusivamente sulla scorta di un mandato in bianco conferito dal Parlamento italiano al Governo. Un mandato esercitato dal Ministro della difesa (congiuntamente ai Ministri degli affari esteri e dell’economia), avente a oggetto la discrezionale compilazione dell’ «elenco dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari oggetto della cessione … nonché le modalità di realizzazione della stessa» (art. 1, d.l. 16/2022).

Insomma il dubbio che inizia inquietantemente a emergere è che l’Italia, anziché ripudiare la guerra, come prescrive l’art. 11, abbia messo in conto di farla. È quanto è possibile, fino a oggi, percepire non solo dall’invio di armi in Ucraina o dall’informazione di guerra che continua a pervadere il Paese, ma anche dal recente ordine del giorno approvato alla camera che impegna il Governo a incrementare le spese militari fino al 2% (così come preteso dalla Nato).  E domani? Cosa accadrà? Cosa accadrà quando comprenderemo che l’invio delle armi non ha scalfito i rapporti di forza e che la resistenza del popolo ucraino non sarà in grado di sconfiggere il potente esercito russo? Invocheremo anche noi, animati dalle politiche di riarmo, l’intervento della Nato? Decideremo che l’escalation è l’unica soluzione perseguibile – costi quel che costi – compresa l’assunzione del “rischio nucleare”?

Mi auguro che ci si fermi in tempo. E che in tempo si comprenda che aver rimosso dal dibattito politico l’art. 11 non è stata una buona scelta. Così come mi auguro che la politica italiana si persuada, una volta per tutte, che il principio costituzionale pacifista non è uno strumento obsoleto e l’art. 11 non è una disposizione “vigliacca”.

Perseguire con determinazione la via diplomatica e scartare, a priori, la guerra quale strumento di risoluzione delle controversie internazionali è l’unica soluzione realisticamente perseguibile.

Ad avercelo insegnato è stata la generazione costituente. Donne e uomini forgiati dai valori della resistenza antifascista, umanamente provati dai “flagelli” di due guerre mondiali, atterriti da Hiroshima. È a loro che si deve la decisione di collocare il principio pacifista tra i pilastri portanti del nostro ordinamento democratico. Una lezione di civiltà (ma anche di realismo) che la Repubblica ha, oggi più che mai, il dovere di fare propria.

Un commento a “Il principio rimosso”

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