Cinquantasei anni or sono come oggi, qui, su questa scalinata della Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza, nella tarda mattinata del 27 aprile 1966, Paolo Rossi ha incontrato la morte.
Ferve la campagna elettorale per il rinnovo degli organismi rappresentativi studenteschi. Siamo qui a distribuire volantini con i nomi dei candidati dei Goliardi Autonomi, la lista unitaria di ispirazione democratica ed antifascista.
D’un tratto veniamo aggrediti da un gruppo di studenti neofascisti che salgono di corsa la scala. Una dozzina. Li conosciamo.
Noi siamo assidui alle lezioni. Ci impegniamo ad essere diligenti. Questi dodici sono tra gli esponenti i più decisi e in vista che, nei viali della Città universitaria, tengono verso di noi atteggiamenti minacciosi e aggressivi, ci provocano, ci deridono, e cercano di impaurirci.
Stamani sono qui a darci una lezione pratica di squadrismo. Spintoni, cazzotti, calci. Ci difendiamo, i volantini con i nostri nomi sparsi a terra.
In una delle fotografie che scatta Adriano Mordenti si riconosce Paolo che tenta di calmare, che si interpone, trattiene. Che ci si fermi. No alla violenza. Colpito da una gragnuola di pugni, Paolo Rossi, dolorante e stordito, per riaversi si siede sul lastrone di travertino del parapetto, qui, davanti a noi, e sviene. Cade da questa altezza sull’erba del prato sottostante. Spira dopo poche ore. Ogni soccorso è risultato vano.
Qui dunque, stamani come qui quel giorno.
Qui. E un così vasto arco di anni, in me che vi parlo, si contrae e recede fino ad animarsi delle voci, degli atti e delle passioni di quell’ora, nella luce di quel giorno che è la medesima di questo, lo stesso riverbero bianco dei travertini, lo stesso il colore lucido e intenso delle foglie qui sempre verdi.
E qui sento ora il tonfo sull’erba del corpo di Paolo caduto. Precipita senza un gemito o un grido che sovrasti lo strepito della mischia violenta.
«Vittima inerme e pure non inconscia delle ragioni e degli ideali che l’hanno condotta a morte, Paolo credeva e voleva che il mondo fosse liberato da ogni oppressione, fosse più aperto, più puro, più degno degli uomini veri. E perciò prendeva posizioni ed impegni con sé stesso e con gli altri». Queste parole Walter Binni dice il 30 aprile davanti al feretro di Paolo Rossi. Le ascoltiamo noi in silenzio mentre dal pronao del Rettorato si spandono per l’ampio piazzale della Minerva.
Le consapevoli ragioni e i consapevoli ideali di Paolo Rossi, a diciannove anni.
Ha conseguito la maturità presso il Liceo Artistico nel luglio del 1965 e si è iscritto alla Facoltà di Architettura.
Il 18 agosto di quell’anno il generale americano William Childs Westmoreland dà inizio alle operazioni Starlite, Highland e Silver Bayonet in Vietnam, dove da lungo tempo la guerra imperversa. Da quella estate si fa più intensa e crudele. «Search and Destroy», cerca e distruggi, questo il programma: scovare nei villaggi gli abitanti e i combattenti e bombardarli con il napalm.
1965, 2022. Cinquantasette anni e continue nel mondo le guerre. E il sangue. In Asia, in Africa, in Medio Oriente, in America Latina, in Europa. Vi parlo qui, ora, mentre tra europei ci si uccide con crescente ferocia, oggi, 27 aprile, dal 24 febbraio scorso. Tra i corpi straziati e le città devastate si incita alla guerra, se ne rivendica la giustezza. Si intende perseguire – fino alla vittoria ci dicono – la distruzione del nemico.
Paolo Rossi prende posizione contro la guerra in quei mesi, tra un agosto e un aprile, l’ultimo agosto e l’ultimo aprile della sua giovane vita. Paolo, cresciuto nello scoutismo cattolico, conosceva bene l’auspicio di Papa Giovanni XXIII, formulato nelle intense pagine della lettera enciclica Pacem in terris rivolta, nell’aprile del 1963 «a tutti gli uomini di buona volontà».
«È evidente, o almeno dovrebbe esserlo per tutti, che i rapporti fra le comunità politiche, come quelli fra i singoli esseri umani, vanno regolati non facendo ricorso alla forza delle armi, ma nella luce della ragione; e cioè nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante». Continua Papa Roncalli: «È un obiettivo desideratissimo. Ed invero chi non desidera ardententissimamente che il pericolo della guerra sia eliminato e la pace sia salvaguardata e consolidata?».
Di un giovane poeta tragicamente morto a ventisei anni, scelte da Vincenzo Ussani, sono le parole poste sotto il bassorilievo del Dioscuro scolpito a ornare il prospetto di questo edificio che accoglie la nostra Facoltà di Lettere e Filosofia.
Quel giovane poeta ardententissimamente denunciò negli esametri del suo poema incompiuto la «guerra atroce» ossia «la violenza fatta legge», la «gara di nefandezze», le «forze del mondo sconvolto levando arma minacciosa contro arma». Confidava nell’opera sua se, come leggiamo sulla nostra facciata, SACER ET MAGNUS VATUM LABOR, OMNIA FATO ERIPIT (la sacra e grande fatica dei poeti tutto sottrae alla morte).
Vorremmo consentire con questi versi di Marco Anneo Lucano noi, che ci incontriamo oggi qui dove dalla violenza omicida fu recisa la vita di Paolo Rossi. Nessuno torna dalla morte. Ma, oltre la morte, di Paolo Rossi resta la memoria che agisce in noi vivi come un retaggio attivo di intelligenza e di umanità. Affidata a noi cinquanta sei anni fa è l’elaborazione del suo lascito, il quotidiano impegno che, ammonisce Lucano, donat mortalibus aevum, elargisce ai mortali una vita che non si estingue.
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