L’ultima consultazione referendaria sarà priva di conseguenze immediate e dirette poiché, come è ampiamente noto, non essendo stato superato il quorum per la sua validità resta integralmente in vigore la normativa vigente. A urne chiuse e a risultato definito, risulterebbe inappropriato il commento e il vaglio critico delle argomentazioni a sostegno del sì, del no e dell’astensione. Ed è certamente superfluo ed intempestivo esporre la personale opinione e le ragioni della opzione di voto sui quesiti referendari. Certo la questione non è affatto chiusa e probabilmente il dibattito pubblico tornerà presto a riaccendersi, quando le questioni – la guerra, la pandemia, la situazione economica – che oggi attraversano e attraggono l’attenzione e le preoccupazioni del ceto politico e dei cittadini si saranno dissolte, come tanti di noi sperano.
Tuttavia, poiché il tema generale sotteso ai quesiti referendari non è affatto irrilevante – anzi – sembra opportuno provare a sviluppare una breve riflessione sulla partecipazione alla consultazione e sui risultati emersi dagli scrutini. Essa potrebbe risultare utile su un duplice versante. In primo luogo, potrebbero venire corroborati e sostanziati argomenti a sostegno di diverse, se non opposte, interpretazioni dei risultati della consultazione referendaria in ordine al tema generale in questione: l’amministrazione della giustizia nel nostro paese. Soprattutto, l’analisi della partecipazione al voto può fornire qualche elemento per precisare lo stato della crisi della democrazia nel nostro paese, in base al presupposto che essa derivi ed esponga tendenze e traiettorie contradditorie. E dunque, sebbene rapidamente archiviato l’esito di questo referendum, l’osservazione dei tassi di affluenza alle urne potrebbe fornire qualche elemento di discussione e potrebbe sollecitare l’attenzione su aspetti con i quali la politica in tutte le sue espressioni – partiti e forze politiche, associazioni, movimenti, centri studi, organizzazioni sindacali – dovrà confrontarsi nel futuro prossimo.
Tabella 1 – Consultazione referendaria del 12 giugno 2022. Votanti (%) e favorevoli (%) ai cinque quesiti con riferimento a tutti gli elettori (Italia+ estero) e a quelli residenti in Italia.
Come molti osservatori avevano previsto, l’affluenza alle urne è rimasta molto al di sotto della soglia del 50%+1 necessaria per la validità della consultazione. Ciononostante, il livello di partecipazione è stato inusitatamente basso, fino a spingere qualcuno a parlare con un linguaggio sportivo di una sorta di record negativo del turnout in Italia. È opportuno osservare che livello di partecipazione registrato tra gli elettori residenti in Italia non viene alterato significativamente se il calcolo viene effettuato con riferimento all’elettorato complessivo ossia considerando anche i cittadini residenti all’estero. Inoltre, non è inutile evidenziare che i tassi di affluenza alle urne sono sostanzialmente gli stessi per i cinque quesiti, a conferma della circostanza che le ragioni della partecipazione sono stati di carattere generale (l’amministrazione della giustizia) e non specifico.
Si tratta di un esito atteso, ma non scontato dato che la consultazione è stata presentata come il referendum sulla giustizia, una tema su cui da decenni si discute animatamente in Italia, persino prima della “discesa in campo” di Berlusconi. Già nel 1987 la responsabilità civile dei giudici era stata oggetto di uno dei quesiti referendari proposti in quella tornata assieme alla questione del nucleare. In quella occasione il quorum era stato abbondantemente valicato poiché l’affluenza alle urne aveva superato il 65% e la percentuale di favorevoli all’abolizione della normativa al tempo in vigore aveva superato l’80%.
L’esito di quest’ultimo referendum è stato prevalentemente ascritto all’insuccesso della campagna referendaria. La responsabilità è stata attribuita alla disattenzione dei mezzi di comunicazione, alla “distrazione” delle forze politiche impegnate in faccende di politica corrente, alla sottovalutazione e alla diserzione dei cittadini più consapevoli e attenti alle faccende politiche. Si tratta di interpretazioni che hanno, ovviamente, un fondamento e che sembrano ragionevoli. Non vi è dubbio, infatti, che al di là delle intenzioni, le routine produttive hanno orientato i media mainstream a focalizzare l’attenzione su altre questioni al di là della loro oggettiva maggiore rilevanza. Di fatto la copertura giornalistica si è limitata all’offerta “istituzionale”, mentre la discussione è stata quasi assente nei talk show e nella programmazione cosiddetta pop che ormai da anni viene segnalata come canale strategico per la diffusione della percezione della salienza di una data questione. E non vi è dubbio che le forze politiche hanno sottovalutato o depotenziato, a seconda dei casi e del loro orientamento di fondo sulla questione, la campagna referendaria. Per altro le forze politiche che più di altre hanno sostenuto le ragioni del referendum presentavano argomenti diversi e non del tutto convergenti. Si pensi alle posizioni espresse dai radicali e dalla Lega o Forza Italia.
Tabella 2 – Consultazione referendaria del 12 giugno 2022. Votanti (%) e favorevoli (%) al quarto quesito con riferimento a tutti gli elettori residenti in Italia e agli elettori residenti nelle nove regioni che hanno proposto il referendum e guidate dal centrodestra.
Eppure, paradossalmente, le modalità con cui era stata avanzata la richiesta avevano immediatamente ed esplicitamente connotato questo referendum sotto il profilo dello schieramento politico. Il referendum, infatti, era stato proposto da nove regioni guidate dal centrodestra. In queste zone del Paese risiede la metà degli elettori presenti in Italia e, dunque, sarebbe stato possibile modificare in misura significativa l’esito del referendum. Ebbene, se si osservano i risultati relativi al quarto quesito per il quale la partecipazione, complessivamente calcolata, è più elevata, si rileva che effettivamente il livello di affluenza alle urne nelle nove regioni guidate dal centrodestra è più alta di quella calcolata sul piano nazionale, ma solo di poco meno di due punti percentuali (1,8). Dunque, il centrodestra non è riuscito a modificare in misura significativa l’esito del referendum neppure nelle sue “roccaforti”. È probabile che abbia inciso la minore presa sull’elettorato delle forze politiche, come la Lega, più esposte ed impegnate, ma anche i toni piuttosto tiepidi, almeno fino all’ultima settimana, delle altre forze politiche presenti in quello schieramento. Mi riferisco a FdI che in questo momento è accreditato del maggiore consenso elettorale nello schieramento di centrodestra.
La disattenzione dei media e la “distrazione” delle forze politiche hanno contribuito a rafforzare tra i cittadini la sensazione che ci fossero altre urgenze e priorità e che il referendum non fosse ai primi posti dell’agenda politica. Le voci flebili che i cittadini ascoltavano non erano in grado di dissipare dubbi circa la rilevanza del referendum o meglio del collegamento reale ed effettivo tra i quesiti proposti e la questione della “buona giustizia” che veniva evocata. E d’altro canto, la complessità dei quesiti, difficili da decifrare sotto il profilo strettamente tecnico, aveva rafforzato la propensione all’astensione e alla delega. Non era stato argomentato un orientamento chiaro e vigoroso dei partiti che potesse rappresentare una sorta di ancoraggio al momento di assumere la decisione in cabina elettorale.
Fin qui, in questa riflessione sono stati ripercorsi itinerari e interpretazioni del “flop” del referendum piuttosto ricorrenti e che – è opportuno ribadirlo – sembrano ragionevoli. Tuttavia, è utile provare a sviluppare qualche considerazione, valicando la contingenza. In altre parole, sarebbe necessario collocare l’analisi sulla partecipazione a questo referendum in uno schema che tenga conto di una dinamica di lungo periodo. Come suggeriva Stein Rokkan l’analisi dei risultai elettorali deve considerare due dimensioni. La prima, micro-macro, riguarda i tratti individuali degli elettori e le caratteristiche del sistema politico. La seconda, distante-prossimo, concerne il momento in cui matura la scelta di voto, che nel caso del referendum abrogativo è anticipata dalla decisione di recarsi al seggio. E dunque necessario incardinare il basso livello di affluenza alle urne in occasione del recente referendum all’interno delle tendenze di lungo periodo della partecipazione al voto nel nostro Paese.
Figura 1 – Votanti in Italia dal 1948 al 2022 per tipo di consultazione elettorale
La figura 1 evidenzia che il livello di affluenza alle urne tende a diminuire nel corso del tempo e in misura significativa. Poco più di due terzi degli aventi diritto si reca al seggio per scegliere i membri della Camera dei Deputati. E tale quota si riduce a poco più della metà quando si tratta di eleggere i rappresentanti al Parlamento europeo. La linea spezzata che descrive l’andamento dell’affluenza alle urne in occasione dei referendum mostra che la propensione a partecipare al voto risente di situazioni contingenti legate alla fase politica, ma anche ad una tendenza al declino della partecipazione al voto di carattere generale. Non è questa la sede per discutere le diverse ipotesi esplicative di queste tendenze, ma esse vanno riferite sia ai cambiamenti che hanno riguardato i cittadini sia alle trasformazioni dei soggetti politici collettivi e in primo luogo dei partiti. Si tratta di tendenze che si rafforzano vicendevolmente.
Il sistema politico italiano sta entrando in una fase post-elettorale in cui cioè le elezioni hanno sempre minore valore e in ogni caso un significato diverso rispetto a quello che veniva loro attribuito solo qualche decennio fa. Alcuni cittadini scelgono di non partecipare alle elezioni perché non ritengono che esse consentano davvero di influenzare la decisione politica. Altri trovano maggiore soddisfazione impegnandosi, soprattutto grazie alla rete, in azioni individualized collective, a detrimento delle tradizionali azioni collectivist collective.
Nell’uno e nell’atro caso la diserzione dei seggi elettorali è rafforzata dai “comportamenti” dei partiti. Al di là della retorica sulla competizione, si assiste ad un crescente scollamento tra i risultati elettorali e le decisioni politiche. Persino la selezione dei decisori, particolarmente nei ruoli esecutivi non apicali, sembra prescindere dal voto espresso dai cittadini.
In sostanza, la procedura elettorale attrae una quota sempre più esigua di cittadini. Alcuni cittadini sembrano sfiduciati e poco motivati ad esprimere il loro voto e altri attraverso l’astensione segnalano il loro risentimento verso partiti che non accolgono le loro istanze di partecipazione. La sfiducia evolve nel disinteresse e rafforza atteggiamenti di definitivo distacco dalla politica e dalle sue procedure, il risentimento può sviluppare disimpegno oppure protesta attiva.
Il livello di partecipazione ai referendum può essere riferito da un lato alla sfiducia verso i partiti percepiti sempre più lontani e distanti alimentando disinteresse e disillusione, e dall’altro al risentimento verso i partiti, la classe politica, le procedure elettorali e le istituzioni in generale. Sommariamente, possiamo asserire che la partecipazione tende a diminuire nel corso del tempo, ma in alcune occasioni è risalita in esito ad un atto di protesta e di sanzione nei confronti dell’establishment. Si pensi a tal proposito al risultato degli ultimi due referendum costituzionali. Un segnale di questo genere arriva anche dall’ultimo referendum. I livelli di partecipazione sono tutto sommato simili per tutti e cinque quesiti, ma si osservano differenze rilevanti per quanto riguarda la percentuale di favorevoli all’abrogazione delle relative norme. Infatti, mentre per i due quesiti che sono stati presentati come espressione del garantismo (Incandidabilità dopo condanna e imitazione misure cautelari) la percentuale di “sì” si attesta poco sopra la maggioranza dei voti validi, per gli altri tre quesiti, che sembrano sottendere una valutazione sui magistrati e la magistratura, la quota di “sì” sale sopra il 70%. In altre parole, la leva di mobilitazione al voto più efficace sembra sia stata l’avversione verso la magistratura la quale negli ultimi anni è stata attraversata da scandali che ne hanno minato la credibilità.
Insomma, la polemica anti-establishment ormai coinvolge non solo i soggetti politici in senso stretto ma si è estesa anche ad altre autorità e istituzioni. Tuttavia, in occasione dell’ultimo referendum questa leva non è stata sufficiente a far lievitare i livelli di affluenza alle urne fino alla soglia del 50%+1.
La speranza è che le forze politiche non si limitino ad archiviare il referendum come una occasione persa o un pericolo sventato, ma riflettano su questo esito considerandolo una manifestazione della più generale crisi della partecipazione al voto e sulle conseguenze che essa comporta. Ovviamente è auspicabile che si sperimentino nuove modalità di partecipazione e di influenza dei cittadini sulla decisione politica. Ma non deve essere sottovalutato a addirittura ignorato che la propensione all’astensione non si distribuisce nella stessa misura tra le diverse fasce sociali e che la propensione ad adottare altre modalità di partecipazione e ad utilizzare altri strumenti di influenza riguarda in misura minore i cittadini deprivati di occasioni, risorse e opportunità.
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