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A fronte del prolungarsi dell’emergenza Covid e in un contesto segnato dalla guerra e dalla drammatica irruzione della crisi sociale, l’offensiva delle destre tende a farsi sempre più netta e incalzante: abolizione del reddito di cittadinanza, opposizione al salario minimo la cui adozione è stata recentemente sollecitata finanche dall’Ue, nuovi benefit per le imprese. Parte integrante di questa piattaforma è anche la ripresa a tappe forzate dei progetti di regionalismo differenziato. Il Ministro Gelmini punta a veder approvata la legge entro questa legislatura, contando su un ampio consenso in Parlamento e soprattutto sulla pressione politica trasversale dei presidenti delle giunte regionali di Veneto, Lombardia, Emilia (a cui sembra dovrebbero aggiungersi anche i governi di Piemonte, Toscana e Liguria). Quanto basta al Ministro per procedere sulla strada della disgregazione sociale del Paese.

Base di partenza della “bozza” è la proposta dell’ex ministro Boccia. Un disegno di legge mai discusso in Parlamento e neppure dal Consiglio dei ministri. Défaillance maldestramente compensata, in passato, attraverso il repentino coinvolgimento della Conferenza delle Regioni: mero luogo di confronto e d’intesa tra gli esecutivi nazionale e regionali. E, più di recente, da un fugace question-time svoltosi alla Camera, coronato da una risposta del Ministro Carfagna, dai contenuti, per alcuni aspetti, criptici, per altri elusivi. E tutto ciò in linea con la trama di un progetto che, ancor più di ieri, tende ad assegnare al Parlamento un ruolo marginale, di consulenza e di mera ratifica della “intesa”.

Né un valido argine, in grado di frenare i processi disgregativi dell’unità della Repubblica, potrebbe mai esser garantito dall’apposita stesura di una legge-quadro, come in passato già proposto dal ministro Boccia. Sia perché una legge ordinaria non dispone della forza idonea a vincolare i contenuti delle intese siglate per mezzo di leggi rinforzate (nulla impedirebbe a queste di rimodulare quanto fissato nella legge-quadro). Sia perché non può ritenersi una garanzia efficace quella di vincolare l’approvazione di queste intese all’adozione dei livelli essenziali di prestazione (Lep).

Il richiamo alla lett. m) dell’art. 117, lungi dal rivelarsi un potenziale fattore di coesione, potrebbe all’opposto trasformarsi in un dirimente fattore di istituzionalizzazione delle diseguaglianze. E, pertanto, prefigurare l’adozione di differenziati standard di prestazione fra le diverse regioni. Un rischio, questo, per molti aspetti derivante dalla stessa articolazione del potere normativo così come delineata dalla riforma del titolo V.

In base al nuovo art. 117 della Costituzione, spetterebbe oggi allo Stato in via esclusiva solo la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. E niente di più. E quindi nemmeno la definizione delle modalità di tali erogazioni, la dimensione di questi servizi, la loro articolazione territoriale, i criteri da seguire per la fornitura di queste prestazioni su tutto il territorio nazionale. Tutto ciò è stato implicitamente riservato alla competenza delle autonomie territoriali e all’iniziativa individuale (ex art. 118 Cost.). Gli effetti li conosciamo. L’applicazione dei Lea (Livelli essenziali di assistenza, l’equivalente dei Lep in sanità) più che assicurare la garanzia dei diritti sociali, hanno attivamente contribuito alla distruzione del Servizio sanitario nazionale.

Con quali mezzi e avallando quali soluzioni lo Stato potrà allora intervenire per arginare i crescenti squilibri economici esistenti fra le Regioni?

Una delle risposte più convincenti la troviamo nella Legge fondamentale tedesca, essa all’art. 72 prevede che «quando e nella misura in cui la creazione di condizioni di vita equivalenti nel territorio federale o la tutela dell’unità giuridica o economica […] rendano necessaria una disciplina legislativa federale» ad intervenire debba essere lo Stato.

La dissonanza tra il sistema dei Lep e la soluzione costituzionale tedesca è evidente: diversamente da quanto stabilito dal Grundgesetz, il sistema dei Lep non si prefigge di assicurare l’uniformità delle condizioni di vita, ma si limita esclusivamente a riconoscere un sostegno parziale e circoscritto (e proprio per questa ragione “essenziale”) a favore delle aree del paese più disagiate.

Ne discende che l’idea dei livelli essenziali di prestazione, seppure astrattamente conciliabile con il principio di solidarietà, non ha nulla da spartire con la dimensione costituzionale del principio di eguaglianza. L’eguaglianza, così come recepita all’art. 3 Cost., è un principio strutturalmente innervato nei diritti sociali, il cui fine ultimo è quello di porre le condizioni per un progressivo superamento (e non solo contenimento) delle diseguaglianze sociali ed economiche.

L’enfasi posta, in questi anni, attorno alla nozione di “contenuto essenziale” dei diritti, le bizantine distinzioni tracciate, in sede giuridica, tra “contenuto essenziale” dei diritti e “livello minimo” delle prestazioni, le singolari teorie sulla presunta esistenza di una “soglia invalicabile di tutela” vanno, quindi, giudicate con diffidenza e non poca circospezione. E questo perché i diritti costituzionali non possono essere vivisezionati, scomposti, smembrati nella loro essenza, selezionando, a nostro piacimento, ciò che è fondamentale e ciò che è superfluo, ciò che è essenziale e ciò che è accessorio.

Nel tentativo di arginare le ricadute devastanti che deriverebbero dall’attuale disciplina del regionalismo differenziato e dall’impiego maldestro dei Lep è stato recentemente presentato un disegno di legge di iniziativa popolare mirante a modificare gli articoli 116.3 e 117 della Costituzione.

Parte integrante del progetto è la previsione di un articolato procedimento referendario idoneo ad assicurare alle altre regioni e ai cittadini la possibilità di pronunciarsi su una riforma che li coinvolge direttamente. Il suo obiettivo è quello di provare nuovamente a sintonizzare le disposizioni del titolo V con la vocazione unitaria della Repubblica.

Di qui la benefica torsione della lettera m) che, in base al progetto di revisione, andrebbe a garantire non più, come oggi, i «livelli essenziali», ma, con formulazione assai più incisiva, i «livelli uniformi delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».

Procedendo nella stessa direzione e con le stesse finalità (la salvaguardia dell’unità nazionale) il progetto si propone altresì di sanare un altro vulnus della riforma del titolo V: la cancellazione dell’interesse nazionale. Una riforma, quella del 2001, che nell’euforia di dare all’ordinamento un’impronta “federalista”, “a tendenza federale”, “regional-federale”… (le definizioni escogitate in quella stagione politica sono state le più varie) aveva “dimenticato” di dotarsi di un istituto tipico di questi sistemi: la clausola di supremazia. Un istituto necessario per tutelare le istanze unitarie dell’ordinamento e fisiologicamente connesso ai consueti moduli di organizzazione dei riparti legislativi per materie tra Stato e territori. Riparti, per loro natura, incerti, forieri di conflitti e che necessitano di strumenti coerenti di composizione sul terreno politico. È questa la natura giuridica della supremacy clause nei sistemi a forte regionalizzazione e in quelli federali. E così anche nell’esperienza costituzionale americana dove questo istituto ha sempre operato alla stregua di una costante fisiologica della supremazia della Costituzione e dell’unità della nazione. Istanze delle quali esclusivo interprete politico è sempre stato lo Stato, come confermato anche dalla Corte Suprema nel caso Edgar (1982).

La modifica proposta introduce, al primo comma dell’art. 117 Cost., una clausola di supremazia della legge statale finalizzata alla tutela dell’interesse nazionale e dell’unità giuridica ed economica della Repubblica. Una soluzione ampiamente condivisibile, in quanto protesa a introdurre in Costituzione una disposizione di per sé idonea a farsi carico del rispetto dei vincoli di solidarietà (tra i cittadini e tra le aree del Paese), ma allo stesso tempo capace di veicolare le ragioni dell’eguaglianza e dell’«interesse nazionale all’uniformità», così come formulato dalla Corte costituzionale nella sent. n. 70/1981.

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