Articolo pubblciato su “Atlante” il 13.09.2022.
Il prossimo 2 ottobre il Paese più grande dell’America Latina è chiamato ad eleggere il suo 39° presidente. Le elezioni, nelle quali si sceglieranno anche i membri del Congresso, i governatori e i legislatori dei 27 Stati che compongono il Brasile, hanno un’influenza che supera i confini nazionali e si espande per tutta la regione. Il dibattito è polarizzato tra due candidati: il presidente uscente di estrema destra, Jair Bolsonaro, e Luiz Inácio Lula da Silva, presidente progressista in carica tra il 2003 e il 2011, leader del Partido dos Trabalhadores (PT).
Il 79% degli elettori si identifica con una delle due opzioni, secondo l’ultimo sondaggio Datafolha. Tertium non datur. E questo è già un primo dato interessante; in uno Stato tradizionalmente frammentato, soprattutto a livello partitico, si tratta di elezioni nelle quali i principali candidati rappresentano due visioni di Paese radicalmente opposte.
Tutti coloro che hanno provato a costruire una terza via nel duello Lula-Bolsonaro, come l’ex giudice Sergio Moro o João Doria, governatore dello Stato di San Paolo, alla fine hanno desistito. Chi è rimasto in campo, come Ciro Gomes, candidato progressista storicamente avverso a Lula, o la candidata centrista espressione delle élite, Simone Tebet, si deve accontentare di posizioni marginali nella contesa. Dipenderà proprio da questi candidati secondari, dai loro potenziali elettori, se Lula – in largo vantaggio in tutti i sondaggi – riuscirà a chiudere la partita al primo turno, facendo leva sulla retorica del voto utile, o se ci vorrà un secondo turno, previsto per il 30 ottobre.
Questo è forse il risultato principale del quadriennio di governo di Bolsonaro: un Paese polarizzato e le elezioni come un referendum sul presidente uscente. Per capire la posta in gioco, è quindi necessario un bilancio degli ultimi quattro anni della vita politica brasiliana.
Promesse mancate
Durante la campagna elettorale del 2018 Bolsonaro disse che avrebbe voluto passare alla storia «per fare del Brasile un’economia di libero mercato, per cancellare quest’economia statalista creata dal PT». Quattro anni dopo, i risultati sono modesti. La rivoluzione liberista aveva la sua casamatta al ministero dell’Economia, guidato da Paulo Guedes, formatosi tra gli allievi della scuola di Chicago. «Ma il liberismo è più una retorica che un progetto di paese» spiega Tiago Couto Porto, economista presso il Centro de Estudos do Novo Desenvolvimentismo della Fundação Getulio Vargas a San Paolo. Delle riforme liberiste promesse, l’unica andata in porto è quelle delle pensioni, resa necessaria dall’insostenibilità dei conti pubblici e promossa principalmente dall’ex presidente della Camera Rodrigo Maia. Delle tante privatizzazioni annunciate, l’unica realizzata è quella del settore elettrico. Petrobras, il gigante petrolifero nazionale, rimane una compagnia pubblica, anche se, chiarisce Porto, «si sono concessi ai privati i diritti di sfruttamento dei giacimenti del pré-sal» i giacimenti petroliferi di alta profondità nell’Oceano Atlantico.
Durante il quadriennio, le performance economiche sono state modeste: il tasso di crescita sempre inferiore all’1%, eccezion fatta per il 2021, +3.9%, dopo un -4.6% del 2020; l’inflazione è ritornata ad essere un problema urgente (+11% quest’anno, il valore più alto dal 2015), nonostante un aumento dei tassi d’interesse da parte della Banca centrale nazionale, elevati al 13.75% ad inizio agosto 2022. Il settore agroalimentare ha mostrato buoni segnali, ma da solo non è sufficiente a migliorare la situazione economica generale e i livelli di disoccupazione, ancora attorno al 10%. La pandemia ha lasciato ferite profonde nel Paese: il 59% delle famiglie ha difficoltà a mangiare tre volte al giorno, 33 milioni di persone soffrono la fame.
«Le élite credevano che Guedes potesse domare Bolsonaro. È avvenuto il contrario: Guedes, per conservare il suo incarico, si è adattato alle richieste del presidente lontane anni luce dal suo credo economico» afferma Porto. L’ultima iniziativa è una modifica costituzionale – Proposta de Emenda à Constituição (PEC) – che permette di aumentare la spesa pubblica al di fuori dai vincoli delle regole fiscali. Uno scenario che minaccia la stabilità dei conti, con un aumento dei sussidi pubblici per la riduzione del prezzo di gas e combustibile. La PEC, approvata anche con i voti del PT, sarà in vigore fino al prossimo dicembre, per questo in molti hanno accusato il presidente Bolsonaro di usare le risorse pubbliche per farsi campagna elettorale.
Una politica crudele
Il quadriennio del presidente di estrema destra ha modellato il Brasile, approfondendo le fratture che dividono la società. La sua visione è fondata sulla divisione del paese tra un “noi e loro”, costantemente utilizzato tanto nel discorso pubblico quanto nelle iniziative politiche. “Loro” sono innanzitutto militanti ed elettori del PT. Il sentimento antipetista si è generato a partire da fenomeni di corruzione veri e presunti, associati alla lunga esperienza di governo progressista (2003-16) ed è stato una delle chiavi della vittoria elettorale di Bolsonaro. Oltre a questo, i gruppi chiave sono stati la cosiddetta “triple B: bala, biblia e buey”. Ovvero forze armate, gruppi evangelici, neopentecostali in particolare, allevatori ed agricoltori a favore della deforestazione dell’Amazzonia. Tutti loro hanno trovato un paladino in Bolsonaro e nelle sue ossessioni.
La prima ossessione del presidente è la sinistra, le forze progressiste in generale. La biografia di Bolsonaro è una miniera per psicoanalisti: il suo odio contro il “comunismo” nasce nell’adolescenza[1] e si dirige contro una famiglia agiata della sua città, che offriva sostegno a un gruppo di militanti di sinistra. Il giovane Bolsonaro aiuta i militari a muoversi nella zona per dare la caccia ai militanti. Si appassiona così tanto alla vita militare da arruolarsi nell’esercito, dove raggiunge il grado di capitano, ma a fine anni Ottanta abbandona la caserma per impegnarsi in politica. Anche in Parlamento è guidato dalle sue ossessioni: la sua dichiarazione di voto a favore dell’impeachment per la ex presidentessa Dilma Rousseff, è dedicata alla memoria di Carlos Alberto Brilhante Ustra, il militare che aveva torturato Rousseff ai tempi della dittatura. Tra le ossessioni, c’è anche quella contro le minoranze sessuali. In Parlamento si sedeva dietro Jean Wyllys, il primo deputato dichiaratamente gay del Paese, e quando quest’ultimo interveniva, gli sussurrava insulti omofobi.
Con questa biografia Bolsonaro è arrivato alla presidenza del Paese, da dove ha costruito una politica crudele[2], non solo per le discriminazioni verso gruppi specifici, ma anche per la cosciente indifferenza verso coloro che soffrono. Nell’aprile 2020, in piena prima ondata di Covid-19, la situazione nel Paese era fuori controllo, il numero di morti aveva raggiunto il mezzo milione e il capo di Stato, interpellato da un giornalista, rispose «e quindi? Cosa volete che faccia?».
Il paladino dei neopentecostali
Non si può parlare del Brasile odierno senza riferirsi alle Chiese evangeliche. Nel 1970 gli evangelici erano appena il 6% della popolazione, si stima che nel 2030 la popolazione si dividerà a metà tra cattolici ed evangelici. L’irresistibile ascesa di queste Chiese, secondo l’antropologa Clara Safra, è frutto delle trasformazioni urbanistiche, del sorgere delle grandi periferie delle metropoli, spazi di segregazione per i ceti popolari. La segregazione sociale e urbana – non la povertà – è una chiave del successo evangelico. In questi quartieri non c’è nulla, non ci sono parchi per i bambini, panetterie, spiagge, solo bar dove gli uomini vanno a ubriacarsi. Con uno Stato assente e contesti familiari difficili, le Chiese evangeliche hanno trasformato queste periferie da ‘terre di nessuno’ in un luogo abitabile[3]. Ed è proprio grazie a queste comunità che Bolsonaro è diventato presidente[4]: poco meno di 11 milioni di voti di differenza dal candidato del PT, Fernando Haddad, esattamente lo stesso scarto che lo ha separato dal suo avversario nel voto degli evangelici[5].
Questa santa alleanza si costruisce almeno otto anni prima, dal 2010 in poi, quando Bolsonaro smette di essere semplicemente il rappresentante dei militari nel Congresso e inizia a frequentare assiduamente le radio e TV delle comunità, diventa un paladino delle loro cause, benché sia cattolico. Alle elezioni successive il risultato è sorprendente: riconfermato deputato federale di Rio de Janeiro, nel collegio nel quale era stato eletto ininterrottamente dal 1990 sempre con circa 100 mila voti, nel 2014 ne ottiene 464 mila. I neopentecostali ne fanno il loro alfiere, lo votano e sono premiati, una volta vinte le elezioni del 2018, con ministeri chiave come quello dell’Educazione.
Raggiungere Trump. E superarlo
Bolsonaro ha un altissimo tasso di opposizione, ma anche uno zoccolo duro – circa il 30% della popolazione – che lo sostiene, qualunque cosa dica o faccia. Ed è forse proprio per questa ragione, ovvero la consapevolezza di non poter vincere le elezioni, che Bolsonaro sembra voglia arrivare laddove Donald Trump non è riuscito, ed invalidare il processo elettorale. L’idea di un possibile golpe circola nelle comunicazioni interne delle missioni diplomatiche straniere a Brasilia già da un anno[6] e la stampa nazionale ne parla insistentemente. Se n’è avuta percezione chiara lo scorso 18 luglio, quando, in una conferenza con gli ambasciatori stranieri ha denunciato i brogli legati al processo elettorale, realizzata dopo mesi di critiche, mai accompagnate da prove, sul voto elettronico, sull’imparzialità del Tribunal Supremo Electoral, sulla capacità corruttiva di Lula. La minaccia di disconoscere il risultato, supportato da una parte delle forze armate, è così reale che il segretario della Difesa degli Stati Uniti, in visita a Brasilia pochi giorni dopo la conferenza con gli ambasciatori, ha dichiarato piena fiducia nella democrazia brasiliana.
Con Trump condivide anche i punti di riferimento teorici, come Steve Bannon, l’ideologo della destra eversiva statunitense che ha contaminato la cultura del Partito repubblicano. Sull’altare dei teorici, il posto d’onore è occupato dall’astrologo Olavo de Carvalho, l’architetto dell’estrema destra brasiliana, che per decenni ha curato corsi di formazione teorica per quelli che oggi sono i quadri intermedi del bolsonarismo.
Politica: un affare di famiglia
Anche nella gestione della politica, Bolsonaro ricorda Trump: la famiglia occupa un ruolo chiave. I tre figli maggiori, in particolare, sono già impegnati in politica: Flávio, Carlos ed Eduardo. Il padre li chiama rispettivamente 01, 02 e 03, secondo il gergo che usa la polizia con le reclute. Eduardo, 03, è senatore per lo Stato di Rio, rieletto nel 2018, nella campagna elettorale che portò il padre a Planalto, con il maggior numero di consensi mai registrato nella storia del Paese. Jair Bolsonaro lo aveva indicato ambasciatore negli Stati Uniti, ma il Senato non ha ratificato la nomina. Oggi cura i rapporti politici internazionali con gli esponenti dell’estrema destra, da Santiago Abascal di Vox in Spagna a Javier Milei in Argentina.
Ma anche gli altri due figli svolgono un ruolo chiave nel promuovere l’immagine del padre. È stato Carlos, 02 — consigliere a Rio de Janeiro, tatuaggio del volto del genitore sul braccio destro — il regista della campagna di disinformazione che ha supportato la campagna vincente del 2018, sembra sia lui a dirigere il “gabinete do ódio”, una cabina di regia che veicolava notizie false, come ha dimostrato la giornalista Patrícia Campos Mello[7]. È 02 a suggerire al padre di investire sui social per rompere l’isolamento al quale lo aveva costretto la stampa ufficiale, scelta lungimirante che gli permette di occupare le reti social prima e meglio degli altri. E oggi in Brasile esiste «un ecosistema parallelo di notizie: youtubers, bloggers e siti di notizie spazzatura che si muovono con facilità tramite WhatsApp e Telegram. Ciò crea una realtà parallela per metà della popolazione» afferma Campos Mello, che per le sue rivelazioni, attaccata direttamente da Bolsonaro, è diventata bersaglio delle campagne d’odio in rete.
Il quadro familiare si completa con l’attuale sposa del presidente, Michele, evangelica della Chiesa battista Atitude, nella quale si impegna come traduttrice nel linguaggio dei segni. Sono loro che promettono di portare avanti le battaglie di Jair Bolsonaro anche in futuro.
Ricucire il Paese
Lula, 76 anni, corre per la sua sesta elezione presidenziale, con un’alleanza molto ampia. Il suo vice è l’ex governatore dello Stato di San Paolo, Paulo Geraldo Alckmin del PSB (Partido Socialista Brasileiro), nell’alleanza elettorale Vamos juntos pelo Brasil, composta da nove partiti. Lula non ha mai avuto una coalizione così ampia – i partiti che lo sostengono oggi rappresentano il 24% dei deputati alla Camera – ed è proprio questa ampiezza che può far avvicinare il candidato petista alla vittoria al primo turno e ad ottenere una base solida al Congresso, tradizionalmente diviso in conseguenza di un sistema partitico frammentato. Esistono oltre trenta sigle che compongono il Parlamento brasiliano: il PT è pressoché l’unico partito organizzato nazionalmente e raccoglie circa il 15% dei consensi. Gli altri partiti sono espressioni di aree geografiche specifiche, come il PSDB (Partido da Social Democracia Brasileira) dell’ex presidente Fernando Henrique Cardoso radicato a San Paolo, o il PDT (Partido Democrático Trabalhista) forte a Rio Grande do Sul e Rio de Janeiro.
Lula si presenta come un candidato esperto, uomo di governo pragmatico, con un’agenda sociale chiara e una gestione macroeconomica affidabile. Benché abbia scontato 580 giorni in carcere per un processo politicizzato e le cui condanne sono state poi annullate dalla Corte suprema, conferma di avere ancora fiducia nelle istituzioni e di non cercare rivincite, ma di voler sanare le ferite del quadriennio bolsonarista.
Il futuro del Brasile, che quest’anno celebra i duecento anni di indipendenza dalla Corona portoghese, è incerto. Quello immediato perché dipende da quanto sarà efficace la campagna di delegittimazione delle urne di Bolsonaro, quello più lungo perché dipenderà dalla capacità di Lula di ricucire un Paese ferito.
Note
[1] A proposito della vita di Bolsonaro, si può ascoltare Retrato Narrado, il podcast di John Lee Anderson.
[2] Deborah Barros Leal Farias, Guilherme Casarões, David Magalhães, Radical Right Populism and the Politics of Cruelty: The Case of COVID-19 in Brazil Under President Bolsonaro, in Global Studies Quarterly, Volume 2, Issue 2, April 2022.
[3] Si veda Lamia Oualalou, Jésus t’aime, Les éditions du Cerf, 2018.
[4] O voto evangélico garantiu a eleição de Jair Bolsonaro, 1 novembre 2018, https://ihu.unisinos.br/categorias/188-noticias-2018/584304-o-voto-evangelico-garantiu-a-eleicao-de-jair-bolsonaro
[5] Al secondo turno delle presidenziali 2018, Bolsonaro ha ottenuto 57,8 milioni di voti (55,13%) e Fernando Haddad 47 milioni (44,78%), una differenza di 10,76 milioni di voti. Tra le comunità evangeliche, secondo le stime di Datafolha, Bolsonaro ha ottenuto 21,7 milioni di voti, Haddad 9,7 milioni di voti, una differenza di 11 milioni di voti.
[6] Si veda Bolsonaro convoca embaixadores estrangeiros para criticar urnas eletrônicas na 2a Brasília, 15 luglio 2022, https://noticias.uol.com.br/ultimas-noticias/agencia-estado/2022/07/15/bolsonaro-convoca-embaixadores-estrangeiros-para-criticar-urnas-eletronicas-na-2a.htm?cmpid=copiaecola
[7] Si veda Patrícia Campos Mello, A máquina do ódio. Notas de uma repórter sobre fake news e violência digital, Companhia das Letras, 2020.
Qui la prima puntata della rubbrica “Bollettino brasiliano” tenuta dall’autore:
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