Descrivere il gioioso – quale impresa! La ricerca si origina sempre da una problematica, da un anelito: nelle forme ricerchiamo quello che nel vivere ci sembra sempre impossibilitato a compiersi. Amiamo raccontare l’incompiuto che deve prendere forma – ma quando ci approssimiamo, per degli attimi, nel nostro vivere, a una dimensione di armonia, ecco, allora, che il nostro linguaggio diviene tortuoso, dai tratti involuti. ‘La felicità si racconta male perché non ha parole’: così Truffaut, regista francese. Tuttavia, con la vittoria della Coppa del mondo da parte dell’Argentina siamo entrati, forse, anche noi, nel mondo della vita: e ora le nostre categorie interpretative, in qualche modo, dovrebbero mutare.
Eppure, addosso è rimasto anche il senso di aver avuto il privilegio di osservare (e toccare) qualcosa che con la vita ha poco a che fare. Il vivere, infatti, è caos, frammisto, divenire – in esso nulla sembra poter chiudersi o compiersi in modo definitivo. E, tuttavia, con la conclusione di questi Mondiali, sembra che quella sterminata vita di cui sopra sia divenuta forma compiuta e che, dunque, il cammino dell’Argentina abbia racchiuso, in qualche modo, una certa linea di destino e di necessità. Insomma – alla fine di questo percorso della Selección (comprendente almeno gli ultimi quindici anni) – vi è come un sentire comunitario che quello che si è vissuto ed esperito abbia assunto, simultaneamente, i tratti di un’opera d’arte, assurgendo, cioè, a una dimensione dalle possibilità simboliche.
Tutt’altro che una marcia trionfale, quella dell’Argentina è stata, piuttosto, la storia di un’ascesa lenta e dolorosa in direzione di una riformulazione dei propri tratti essenziali. Uno iato invalicabile sembrava infatti separare la fragilità di Messi e una nazione, invece, abituata a leader carismatici – da Maradona a Perón – in grado di unificare in un ‘sentire condiviso’ l’eterogeneo nazional-popolare. Insomma, sembrava non esserci spazio, in patria, per un ‘profeta debole’: no es para mi – così parlava lo stesso Messi, dopo l’ennesima catastrofe sportiva con la propria nazionale, come a ribellarsi a un destino che non sentiva come proprio. Questa chiusura, tuttavia, gradualmente si è tramutata in apertura, e l’apertura in un mutuo avvicinamento: Messi ha cominciato a vestire quell’abito che gli era stato assegnato – senza abiurare, a ogni modo, a quel carisma a esso proprio, un carisma, che prima o poi dovremo approfondire, originantesi dalla debolezza e da una muta interiorità – e, simultaneamente, quella nazione ha cominciato a riconoscerlo e ad amarlo per come esso era realmente. Ecco, dunque, come quel movimento nazional-popolare si sia unificato anche (e soprattutto) per sua forza propria: leader, profeta, carisma sono parole (e concetti) che sono state dovute esser, prima di tutto, pronunciate (e riconosciute) da un precedente movimento orizzontale (democratico).
Ecco perché ci è sembrato, per un momento, che la vita si fosse fatta forma (e opera d’arte): perché questo lento e travagliato processo di una nazione di pervenire alla propria dimensione essenziale e a una simbolizzazione dell’esistente eravamo abituati a legarlo esclusivamente all’epica e alle grandi epopee. Ma ora, invece, siamo integralmente dentro la ‘vita’ – il tema con cui si era aperto quest’articolo – e da qui – dal nostro decadente punto di vista occidentale/europeo – non possiamo non scorgere come in quella ‘festa del tempo’ argentina, in quella stretta relazione di nazionale e internazionale, si riveli la visione di un ‘mondo nuovo’ (o forse, meglio, di qualcosa per noi perduto, antico, di cui proviamo una certa nostalgia). Insomma, l’Argentina probabilmente per noi è anche l’incarnazione di un’utopia, di quell’utopia di cui necessitiamo per non disperderci, definitivamente, nelle nostre abbandonate solitudini. Quella possibilità, in definitiva, per riscoprire, anche noi, che, forse, vi è vita oltre le forme e che, forse, solo qui, in Europa – in un contesto, cioè, dove risiede la più radicale separazione tra arte e vita, filosofia ed esistenza – si presenta come profondamente problematico il raccontare una dimensione di ‘festa’: il descrivere, in ultima istanza, ‘gioiosamente il sentimento più gioioso’, quello che si sta vivendo (e raccontando), questi giorni, in ogni vicolo di Buenos Aires.
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