Qui il link al sito del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.
Ringrazio il Presidente della Camera dei deputati che quest’anno ospita la Relazione al Parlamento del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Ringrazio tutte le Autorità presenti e le persone che oggi sono qui ad ascoltare le mie parole nonché tutti coloro che partecipano a distanza grazie al contributo che fornisce a questo evento la Rai che lo trasmette attraverso la propria terza rete.
Ho avuto già modo di sottolineare negli anni passati quale privilegio sia per il Garante nazionale poter indirizzare il proprio pensiero una volta l’anno al Parlamento della nostra Repubblica; poter così dare voce a tutte quelle realtà che è istituzionalmente chiamato a vedere, osservare e considerare nella loro problematicità.
Ho anche detto già nel passato che questa possibilità e questa voce non vogliono essere semplicemente l’espressione di una peculiarità che caratterizza l’esercizio del mandato assegnato all’Autorità di garanzia, ma vogliono essere l’evidenziazione delle tante voci che per molteplici ragioni non raggiungono la collettività esterna provenendo da luoghi a essa poco visibili e spesso da essa non visti. Luoghi dove la specifica vulnerabilità dovuta alla privazione della libertà personale si aggiunge frequentemente ad altre preesistenti fragilità dal punto di vista individuale e sociale.
Mi rivolgo anche alle persone di cui qui si parla e che devono, seppure a distanza, percepire la loro presenza in questo luogo.
Riprendo un’immagine che – da laico – avevo richiamato nella mia seconda Relazione al Parlamento, esattamente cinque anni fa, tratta dalla narrazione negli Atti degli Apostoli della Pentecoste, dove si evidenzia lo stupore di ciascuno degli astanti in Gerusalemme, pur proveniente da nazioni lontane e diverse – così riporta lo sconosciuto autore – nell’accorgersi che gli Apostoli della Galilea parlavano nella sua lingua nativa, così da essere a ciascuno comprensibile.
Mi piace riferire questa immagine alla capacità che il Garante nazionale deve avere affinché ciascuna persona che è privata della libertà, qualunque ne sia la causa, possa riconoscere nel suo messaggio la propria lingua: comprensibile perché è la voce della tutela dei diritti di tutti che connota la nostra democrazia. E la voce dei diritti e dei simmetrici doveri in una collettività è la lingua nativa di ogni persona in uno Stato democratico.
Vorrei far discendere oggi il dovuto saluto e il ringraziamento alle Autorità e alle Istituzioni da esse rappresentate da un complessivo omaggio e un augurio di compleanno alla nostra Costituzione repubblicana che quest’anno ha compiuto 75 anni.
È la Costituzione il baluardo del nostro essere qui oggi ed è stata e continuerà a essere il baluardo dell’azione del Garante nazionale delle persone private della libertà personale negli anni che verranno e nell’azione di coloro che saranno chiamati ad assumere il ruolo che questo Collegio ha esercitato nei sette anni del proprio mandato.
Perché la nostra Costituzione non indica soltanto il limite dell’esercizio del potere che lo Sato, nelle sue articolazioni, deve assolvere e neppure soltanto l’elenco dei diritti fondamentali riconosciuti e tutelati a ogni persona all’interno della comunità sociale, ma indica altresì il nostro compito – quello di ognuno di noi e di chi ha ruoli istituzionali in modo particolare – di rimuovere quegli ostacoli che limitano la possibilità di goderne a singoli e gruppi e che chiamano, quindi, tutti noi a una prospettiva d’impegno, per non lasciare nessuno indietro nel cammino collettivo.
Una Carta che dà in tal modo una indicazione positiva all’agire politico, che deve essere sempre rivolto all’evoluzione della cultura dei diritti, alla loro concreta effettività e, quindi, alla costruzione di una tessitura culturale in positivo divenire. Non una politica che si accontenti di registrare l’esistente e, ancor meno, di percepire il proprio compito con la tendenza semplicemente ad assecondarlo.
Per questo il primo ringraziamento va certamente a chi è testimone attivo di tale linea d’impegno, il Presidente della Repubblica che con attenzione ha sempre seguito l’azione del Garante nazionale lungo questi sette anni. Così come voglio esprimere un ringraziamento specifico alla Corte costituzionale per la possibilità offerta, a supporto del suo costante operare in termini di legittimità, al contributo che realtà esterne, che realizzano il tessuto della società civile, possono da alcuni anni dare, a seguito della modifica regolamentare, nel presentare opinioni, in analogia con quanto già avviene in sedi internazionali e nella configurazione, seppure non formale, di Amicus curiae.
Un segnale che è stato colto dal Garante nazionale come indicativo della specifica volontà di far dialogare due sguardi, quello della complessità sociale che organizzazioni, corpi intermedi e istituzioni elaborano perché sia tradotto in norme e quello di chi analizza la composizione legislativa nel contesto dell’insieme dei valori condivisi e fissati.
Essenziale è, appunto, il dialogo tra questi due sguardi e il secondo ha bisogno, comunque, del primo affinché il contesto normativo si faccia effettivamente carico proprio di quell’insieme di diritti che la Carta pone come garanzia, come limite e come, appunto, costruzione culturale.
Un orientamento di evoluzione culturale che traduce il carattere vivo della Carta stessa. Una evoluzione volta all’estensione del riconoscimento di diritti individuali e sociali e mai verso cedimenti a paure per la loro ampiezza, presunte o indotte. Per questo il Garante nazionale non può esimersi dall’esprimere il proprio stupore e il proprio dissenso relativamente a qualche minoritaria proposta volta a diminuire quello slancio inclusivo proprio della Carta verso il tendenziale positivo reintegro sociale di ogni persona, anche di chi ha gravemente sbagliato.
Il Garante nazionale ha così costruito una linea ideale di legame delle proprie visite, osservazioni e relative raccomandazioni non soltanto alla possibilità d’intervento nella fase di produzione normativa, ma anche al possibile contributo di realtà nel momento di valutazione della coerenza attuativa della norma alla Carta fondamentale. Un contributo di soft law non centrato sull’elaborazione teorica, bensì sull’esperienza dell’aver visto e del vedere, che fornisce così elementi di analisi e interpretazione all’impianto dell’hard law.
Come è noto, questa è la settima e ultima Relazione che l’attuale Collegio del Garante nazionale presenta al Parlamento, al termine del proprio mandato. Certamente la scadenza induce a gettare anche uno sguardo lungo questi sette anni per evidenziare i mutamenti principali che si sono registrati nel variegato mondo delle istituzioni dove la libertà personale è sottratta sulla base di un mandato affidato dalla collettività.
Non solo, questa Relazione si rivolge al Parlamento di una nuova Legislatura ed è, quindi, importante renderlo edotto delle persistenti criticità, illustrare alcune attese, porre le necessità di intervento.
Non è una situazione nuova perché questo Collegio si è misurato nel corso del proprio mandato con tre diverse Assemblee legislative e ha dialogato, con indipendenza e collaborazione, con sei diversi Governi, sempre tenendo fermo il principio che la cooperazione delle diverse articolazioni che costituiscono l’ordinamento nazionale è essenziale anche quando i punti di vista e le analisi dei problemi possono essere diversi: ci si misura come parti di uno stesso organismo, quasi in una metafora organicista, pur nelle differenze di compiti – e a volte di impostazione culturale – nell’affrontare i problemi.
Lo sguardo del Garante nazionale è certamente uno sguardo intrusivo, deve penetrare al di là della superficie e porre cautele, formulare raccomandazioni, per evitare più livelli di rischio.
In primo luogo, il rischio d’indebolimento della tutela dei diritti delle persone meno visibili e che meno possono agire in proprio, ma anche dell’abbassamento della consapevolezza collettiva che i problemi posti da esse richiedono soluzioni al livello della propria tradizione e propria storia di civiltà. Infine, il rischio dell’esposizione del Paese a possibili censure in ambito internazionale per il venir meno degli impegni presi in trattati, convenzioni, dichiarazioni comunemente sottoscritte.
Tre diverse e collimanti direzioni dello sguardo del Garante nazionale nell’esercitare la propria funzione chiaramente di prevenzione: deve, infatti, agire ‘prima’ che una violazione di diritti o un abbandono di impegni presi possano verificarsi.
Ciò non soltanto perché così è stato delineato dal Legislatore, ormai dieci anni fa, nel contesto della risposta a quanto accertato e sanzionato dalla Corte di Strasburgo quale violazione dell’assoluto divieto di condizioni offensive della dignità personale nelle nostre istituzioni penitenziarie.
Ma anche perché è stato designato dal nostro Paese quale Meccanismo nazionale di prevenzione del rischio di tortura o di altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti: organismo indipendente richiesto dal Protocollo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e i maltrattamenti, ratificato dall’Italia nel dicembre 2012, insieme ad altri 91 Paesi, dopo un dibattito più che trentennale.
Da qui il dialogo, essenziale e fruttuoso, che si è sviluppato in questi anni con la Magistratura a cui è affidato invece il compito reattivo, nell’accertamento delle violazioni avvenute, nel reprimerne il possibile ripresentarsi, nel definire un percorso di sanzione e consapevolezza dell’autore verso la possibile ricomposizione della lesione che la commissione di un reato sempre determina in chi lo ha subito e nella realtà sociale nel suo complesso; così contribuendo anch’essa alla funzione preventiva.
Nel corso dei sette anni, questo dialogo ha riguardato i diversi ambiti dell’azione della Magistratura.
Con le Procure, sia nella segnalazione doverosa delle violazioni riscontrate o anche credibilmente riferite offensive della dignità di ogni persona ristretta o della sua integrità fisica e psichica, sia nella discussione condivisa sulle criticità delle strutture del territorio e nella ricerca di azioni per risolverle – il Protocollo siglato con la Procura della Repubblica di Napoli è stato costruito proprio all’interno di questo dibattito.
Ma poi, con la Magistratura di sorveglianza, a livello molecolare con i singoli magistrati nei diversi distretti e a livello più generale attraverso il confronto sui temi della detenzione e della sua rispondenza al dettato costituzionale.
Infine, con la Magistratura della volontaria giurisdizione, per segnalazioni e analisi attorno a quel difficile compito della tutela delle persone necessitanti di particolare sostegno e pur sempre portatrici di una capacità, seppur ridotta, del proprio agire autonomo, da potenziare e mai da restringere o sostituire, anche se in funzione di una presunta maggiore tutela.
Il dialogo tra funzione preventiva e funzione reattiva, tra l’azione di un organismo indipendente non giurisdizionale dedicato alla prima e quella giurisdizionale esercitata dalla Magistratura, costituisce così un rafforzamento della tutela proprio delle realtà a rischio di maggiore vulnerabilità. E in questi sette anni si è progressivamente rafforzato.
Le raccomandazioni del Garante sono state sempre più frequentemente considerate, all’interno di disposizioni della Magistratura, anche della Suprema Corte, della Corte costituzionale e della Corte europea per i diritti umani.
Il punto essenziale è, tuttavia, che le raccomandazioni del Garante nazionale non discendano da posizioni ideologiche – rispettabili, ma teoriche – o da mere analisi di studio, bensì dall’osservazione diretta dei luoghi, dal colloquio libero con le persone, dall’analisi degli atti regolativi locali che caratterizzano, spesso quasi totalmente, la quotidianità nelle strutture di privazione della libertà.
Le raccomandazioni devono essere un tassello di costruzione di standard basati sul monitoraggio diretto delle condizioni in cui la privazione della libertà si esplica.
Questo è stato il filo conduttore di tutte le osservazioni, raccomandazioni, Rapporti che il Garante nazionale ha inviato alle Autorità nei sette anni del suo mandato; lungo questo filo ha avviato l’interlocuzione con chi assolve il difficile compito di amministrare la privazione della libertà di persone a esso affidate e di coniugare tale funzione con l’assoluta tutela dei loro diritti e con la necessaria percezione di rassicurazione da parte della collettività.
In questo quadro, è essenziale il compito che il citato Protocollo delle Nazioni Unite attribuisce al Meccanismo nazionale di prevenzione, di interlocuzione durante il processo di approvazione di norme e di altri atti di rango inferiore che ineriscono alla privazione della libertà, formulando pareri, non vincolanti, ma certamente essenziali per valutare la possibile ricaduta di tali atti normativi.
In questi anni, tale funzione è stata esercitata più volte dal Garante nazionale, con un andamento però alterno perché non sempre richiesta dal Parlamento, soprattutto nella fase di conversione dei decreti-legge – strumento eccezionale a cui si è fatto un ricorso invece quasi ordinario nel normare attorno agli ambiti di competenza del Garante nazionale.
Ho voluto sottolineare questa direttrice del percorso compiuto perché si realizza ora una tappa di tale cammino.
È avviata la procedura per indicare un nuovo Collegio che prenderà il nostro posto e che garantirà la continuità, pur nelle differenze che il carattere e le culture di ognuno di noi può porre, del cammino avviato; proprio perché non si tratta di esprimere una posizione politica, bensì di adempiere a una funzione di garanzia.
La politica aiuta, coopera, ma non detta regole alle Istituzioni di garanzia.
Sarà un cammino continuo, ma diverso perché come scriveva Italo Calvino «il camminare presuppone sempre che a ogni passo il mondo cambi in qualche suo aspetto e pure qualcosa cambi in noi».
Calvino si riferiva, con questa frase, ai Mille giardini giapponesi ed osservava che nel percorso «le metamorfosi che genera lo spazio si aggiungono a quelle del tempo»: il sentiero moltiplica il contesto ed è da esso reso più complesso, eppure continua a dirigere il passo.
Credo che questa metafora si applichi alla direzione che chi ha una responsabilità istituzionale deve sempre tenere ben salda, anche quando i contesti mutano e la complessità si accentua: la direzione è quella della continua ricerca della maggiore inclusività e della maggiore coesione possibile. Una direzione che prescinde dal particolare sentiero scelto, dalle sue peculiarità e tortuosità.
Perché la funzione di ogni istituzione pubblica deve essere vista come tassello compositivo di un’idea di Stato che non si caratterizza come criterio meramente ordinatore e regolatore bensì come concretizzazione dell’inclusione etico-politica della molteplicità delle forze sociali in un progetto nazionale. Così costituendo un’identità centrata proprio sulla capacità di saperne includere altre, grazie alla potenzialità dei propri organismi e al dinamismo della propria organizzazione sociale: una identità non negata come valore, ma mai assunta come fattore identitario escludente.
Questo è stato per la giovane Autorità di garanzia, sin dall’inizio, il principio informatore delle attenzioni nei diversi ambiti in cui si è sviluppata la sua attività, sempre acuendo la capacità di cogliere differenze, ma soprattutto fondamentali analogie tra temi apparentemente distanti, accomunati però dalla necessità di un’accentuata tutela dei diritti proprio in virtù della impossibilità di decidere del proprio tempo, del proprio movimento, della propria azione.
Con questo approccio abbiamo relazionato al Parlamento nei diversi anni.
Il primo anno centrando la Relazione sulla connotazione della nuova Istituzione, per renderla conosciuta e visibile; l’anno successivo, la centralità è stata data alle diverse soggettività delle persone private della libertà, sottolineando le differenze del ritrovarsi in tale situazione – chi in virtù di quanto commesso, chi per irregolarità amministrativa in attesa di essere rinviato nel luogo di provenienza, chi per problemi di fragilità e disagio mentale o comportamentale, chi per le vicissitudini della vita, perché anziano o non autonomo nell’espressione delle proprie abilità. Tutte leggibili uniformemente a partire dalla peculiarità dell’essere in luoghi chiusi, visti come altrove, rispetto ai luoghi della quotidianità.
Successivamente, abbiamo centrato la nuova Relazione proprio sulla specificità di tali luoghi, anche nel loro dettagliato articolarsi, per poi passare all’analisi dell’esterno, cioè del linguaggio con cui di essi si parla e, da qui, nel nuovo anno, del linguaggio con cui le norme regolano tali vite.
Lo scorso anno la Relazione ha riguardato il tempo e i suoi mutamenti quando si passa dall’attimo in cui il suo scorrere muta, alla sua nuova configurazione e al difficile ritrovarsi in un tempo esterno che intanto ha avuto una velocità propria, diversa.
Quest’anno questi aspetti giungono alla riflessione del dove siamo e come questa Istituzione proseguirà, da un lato con un breve excursus delle molte informazioni e dei molti dati che il volume presenta – sempre con un’attenzione a cosa è mutato nei sette anni e del tanto che ancora richiede necessità di mutamento – e dall’altro con singoli capitoli curati, sempre in tale chiave narrativa, dalle Unità dell’Ufficio del Garante.
Proprio a partire dal lavoro delle Unità due premesse sono per il Collegio doverose nel riferire al Parlamento.
La prima è che tutte le Unità hanno lavorato in questi anni con grande dedizione e professionalità; esse costituiscono ormai un patrimonio di conoscenza riconosciuto anche da interlocutori internazionali; un patrimonio che garantirà il supporto alla continuità dell’azione del Garante nazionale, ma che dovrà trovare nel nuovo mandato, dopo questa prima fase, caratterizzata dallo slancio volontaristico, un effettivo riconoscimento sul piano dell’inquadramento lavorativo con la definizione di uno specifico ruolo.
Non solo – e questa è la seconda premessa – la modalità lavorativa che ha costituito la crescita professionale delle diverse Unità risiede nella non settorializzazione delle competenze; al contrario, nel saper leggere gli elementi di connessione tra le specificità per la costruzione di un tessuto che non separi il sapere disciplinare dalla lettura dei legami interdisciplinari.
Perché proprio questo arcipelago di connessioni è centrale per occuparsi di diritti umani. Forse perché, come scrisse Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo «non [è] la perdita di specifici diritti, ma la perdita di una comunità disposta e capace di garantire qualsiasi diritto la sventura che può abbattersi su una società» e per questo il primo diritto che l’umanità deve garantire è l’appartenenza a essa.
L’espressione concreta di tale affermazione rimanda proprio a quel compito che la Costituzione assegna alla Repubblica non limitato al riconoscimento e alla garanzia di diritti, bensì esteso in positivo verso la rimozione «degli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana», oltre che la sua partecipazione alle forme organizzative e sociali. Questo comma dell’articolo 3, letto in congiunzione con il comma precedente di affermazione della pari dignità sociale e dell’uguaglianza davanti alla legge, e con l’articolo precedente in cui si nomina la «solidarietà» come valore e come dovere dà l’indicazione di quell’assoluta appartenenza di ciascuno alla collettività e del dovere di ogni spazio pubblico di costituirsi come spazio di tutti, ciascuno considerato nella sua individualità di persona; nessuno escluso.
L’area penale
Nella prima Relazione al Parlamento di questo Collegio abbiamo riferito il dato di 54653 persone detenute, presenti al 31 dicembre 2016.
Con un aumento nei due anni precedenti, quando il numero complessivo era sceso a un livello inferiore di circa 2000 unità a seguito dei provvedimenti adottati dopo la sentenza pilota della Corte di Strasburgo nel caso Torreggiani e altri v. Italia.
Il dato ha avuto negli anni successivi un’oscillazione, considerando la diminuzione risultante da provvedimenti adottati nel periodo dell’emergenza pandemica e la successiva ripresa di una tendenza al rialzo, quantunque meno importante di quanto si potesse supporre.
Al primo giugno di quest’anno – quindici giorni fa – le persone detenute in carcere sono 57230; includono 2504 donne, mentre ne includevano 2285 sette anni fa. Dati comparabili, sebbene in aumento di più di duemilacinquecento persone detenute: la capienza, già allora carente, è aumentata nell’arco dei sette anni soltanto di mille posti regolamentari.
Due dati indicano mutamenti: la percentuale delle persone straniere in carcere è diminuita dal 34 al 31, 2 percento; particolarmente diminuita – e questo è un dato positivo – è la percentuale di coloro che sono in carcere senza alcuna condanna definitiva, passando dal 35,2 al 26,1 percento nel corso di questi anni.
Resta alto – ed è andato aumentando – il numero di persone ristrette in carcere per scontare condanne molto brevi: 1551 persone sono oggi in carcere per scontare una pena – non un residuo di pena – inferiore a un anno, altre 2785 una pena tra uno e due anni.
È evidente che una struttura complessa quale è quella carceraria non è in grado di predisporre per loro alcun progetto di rieducazione perché il tempo stesso di conoscenza e valutazione iniziale supera a volte la durata della detenzione prevista. Non solo, ma questi brevi segmenti di tempo recluso sono destinati a ripetersi in una sorta di serialità che vede alternarsi periodi di libertà e periodi di detenzione con un complessivo inasprimento della propria marginalità.
Inoltre, la riduzione della finalità rieducativa a mera enunciazione a cui non corrisponde alcuna effettività finisce col proiettare il senso dell’inutilità delle norme, proprio nei confronti di persone che, avendole violate, dovrebbero essere aiutate a comprenderne il valore. Non solo, ma quell’insieme rappresenta quasi plasticamente l’immagine della marginalità sociale che oggi abita il carcere.
L’ordinamento attuale presenta varie possibilità di accesso a misure diverse dalla detenzione per pene così brevi: il non accesso a esse è indicativo di una complessiva povertà. Povertà di supporto sociale, di assistenza legale, spesso di comprensione delle norme stesse; povertà anche materiale perché frequentemente l’assenza di una abitazione o la sua inadeguatezza sono alla base della riluttanza a concedere queste misure a persone che si presentano con tali caratteristiche.
La loro presenza in carcere, quindi, interroga il nostro tessuto sociale: sono vite connotate da una marginalità che avrebbe dovuto trovare altre risposte, così da diminuire l’esposizione al rischio di commettere reati.
Non dobbiamo mai dimenticare che il diritto penale – e ancor più la privazione della libertà – deve avere un ruolo “sussidiario”, intervenendo come misura estrema laddove altre forme di supporto e riduzione dei conflitti e delle difficoltà che abitano la collettività abbiano fallito.
Sono vite che avrebbero dovuto trovare altri supporti nell’istruzione, nel sostegno abitativo, nella possibilità di un reddito in grado di rendere la giustamente proclamata tutela della vita una effettiva tutela della vita dignitosa e non meramente biologica; lo avrebbero dovuto trovare anche nell’intervento di orientamento alla prima deviazione verso forme di criminalità.
Penso sia ormai il tempo di agire per togliere al carcere ciò che non è possibile che rientri nella sua capacità di azione. Per tali fragilità e conseguenti reati di minore rilevanza che determinano pene molto basse, occorre prevedere strutture diverse con un legame molto più denso con il territorio.
Riandando indietro negli anni, Alessandro Margara, aveva prospettato la possibilità di strutture di responsabilità territoriale, dove persone con tali caratteristiche – per le quali egli parlava di «detenzione sociale» – potessero trovare supporto e anche controllo, ma soprattutto una presa in carico più attenta e una minore percezione del nulla a cui si era improvvisamente giunti: una sensazione spesso foriera di esiti tragici.
Un progetto di responsabilità territoriale e di previsione di strutture di tipo diverso dal carcere che deve essere ripreso. E che interroga sul rischio di continuare a configurare altrimenti il carcere come punto di arrivo di problemi soggettivi, stili di vita non omologati, emarginazioni, che avrebbero dovuto trovare altri strumenti di composizione e regolazione.
Confido che su questo il Parlamento saprà impegnarsi, cogliendo lo stimolo che proviene anche da alcuni Sindaci e al fine di segnare un cambio di passo rispetto alla difficoltà e alla fragilità che oggi si vivono all’interno del carcere.
A nessuno, infatti, può sfuggire la rilevanza che nell’ultimo anno e in quello attuale ha assunto il numero di suicidi delle persone ristrette. Oggi, il numero di persone detenute che hanno scelto di togliersi la vita è già salito a 29 con in più altri 12 decessi per cause da accertare – alcuni dei quali attendibilmente classificabili in futuro come suicidi – mentre scorre la ventitreesima settimana dell’anno.
Il Garante nazionale ha condotto un’analisi dettagliata degli 85 suicidi dello scorso anno (i dati, classificati secondo diversi indicatori, sono riportati nella parte tabellare di questa Relazione e l’intera ricerca è nella sezione Pareri e Raccomandazioni): ne emerge un quadro di incidenza indubbia della tensione che soprattutto nel periodo recente pervade gli Istituti, ne emerge l’incidenza dell’affollamento dei luoghi e della sua ricaduta sulle condizioni materiali e sulla spersonalizzazione soggettiva; ma soprattutto
Emerge un quadro di fragilità individuali che interroga noi – la società esterna, anche più che l’Amministrazione penitenziaria. Perché spesso sembra essere la funzione simbolica dell’essere approdati in quel luogo – il carcere – a costituire un fattore determinante per tali decisioni estreme: è quella sensazione di essere precipitato in un ‘altrove’ esistenziale, in un mondo separato, totalmente ininfluente o duramente stigmatizzato anche nel linguaggio dei media e talvolta anche delle istituzioni, che caratterizza il luogo dove si è giunti, a essere determinante. Anche perché spesso ci si è giunti dopo vite condotte con difficoltà e lungo il bordo del precipizio che separa sempre più concretamente il percepirsi parte della collettività e il collocarsi ai suoi limiti estremi.
Da qui, la necessità di un discorso pubblico diverso sulla pena.
Un discorso pubblico non ristretto ai pochi da sempre presenti su questo tema e soprattutto non connotato ideologicamente, ma riportato nel solco dell’utilità della funzione penale, dei suoi limiti, delle sue necessità in termini di qualità professionale e di capacità di allineamento con lo svolgersi della vita esterna.
Tutto ciò ancor prima del tema, peraltro urgente, della riqualificazione materiale delle strutture. Perché, come già accennato, la loro non dignitosa fisionomia attuale è concausa di un senso di vuoto invivibile che può determinare la scelta estrema, ma non ne è la causa principale.
Dobbiamo riflettere, infatti, come un discorso pubblico sbilanciato sul versante populista e applicato all’ambito penale abbia portato in anni recenti all’estensione dell’area del controllo penale, pur in presenza della riduzione numerica dei reati più gravi.
Come già detto, il dato numerico della prima Relazione al Parlamento riporta circa 54600 persone detenute; accanto a esse le persone in varie tipologie di misura alternativa alla detenzione erano 34104 a cui si aggiungevano altre 10097 in misura di comunità: la cosiddetta “messa alla prova” di allora recente avvio.
Oggi, sette anni dopo, le persone detenute sono più di 57000, ma a esse si sono affiancate altre 53113 in misura alternativa e quelle “messe alla prova” sono 25716. Le misure alternative e quelle di comunità non sono andate però a diminuzione dell’area detentiva in carcere, ma si sono affiancate a essa. Così l’area di intervento di natura penale è passata da una estensione di 98854 persone alle attuali 137366, mentre contemporaneamente i reati di maggiore gravità sono andati progressivamente diminuendo (gli omicidi volontari, per esempio, sono diminuiti nello stesso periodo del 25 percento, l’associazione mafiosa del 36 percento, le rapine del 33 percento).
Ben diversi invece sono i dati relativi ai minori e ai giovani adulti che hanno mantenuto un complessivo equilibrio nei sette anni: quelli ristretti negli Istituti penali per minorenni sono, alla stessa data, 390, altri 3802 sono in messa alla prova e complessivamente il servizio minorile ha in carico 14473 minori o giovani adulti – erano 14212 quando relazionai al Parlamento la prima volta. Un rapporto che lascia alla detenzione in carcere una dimensione realmente residuale.
In ambito penale non è possibile dimenticare poi che il periodo lungo questi sette anni è stato segnato dalla drammaticità delle condizioni interne ai luoghi di restrizione della libertà durante l’applicazione delle misure anti-Covid.
Il carcere, in particolare, ha affrontato rivolte, ha visto vite perse nei tentativi di rispondere all’implicita disperazione che l’ansia generale e quella specifica di ritrovarsi in un luogo chiuso difficilmente rispondente alle norme igieniche caldamente consigliate, determinavano.
Ma ha visto anche denunce di gravi episodi di maltrattamento e di offesa della dignità delle persone ristrette rispetto ai quali la Magistratura sta portando avanti il proprio compito e che in taluni casi hanno portato anche all’accertamento di primo grado e alle relative sentenze.
Sono momenti dolorosi che, come più volte sottolineato da questa Autorità di garanzia, non devono gettare un’ombra complessiva sull’operato di chi con diverse funzioni assolve al compito di amministrazione della sanzione con ordine, sicurezza e con la tutela dei diritti di tutti gli attori.
Se, come è doveroso, si deve trarre insegnamento anche da tali episodi e dalle immagini che hanno giustamente colpito la collettività dobbiamo guardare alla capacità del nostro sistema ordinamentale di reagire, anche in molti casi con l’ausilio delle indagini sviluppate dall’interno della stessa Amministrazione penitenziaria.
E altresì guardare alla possibilità offerta dalla nuova fattispecie penale introdotta nel 2017 nel nostro codice, in risposta non soltanto all’impegno assunto ormai molti anni fa in sede internazionale con la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ma anche a quello esplicitamente dettato dal terzo comma dell’articolo 13 della nostra Carta che – unico caso in tutto il testo – detta una prescrizione di natura esplicitamente penale. Una norma di civiltà da difendere proprio in nome della professionalità di coloro che con dedizione agiscono quotidianamente.
Come sappiamo, si è recentemente diffuso un dibattito relativo alla possibilità di miglioramento di tale previsione normativa che, occorre ammettere, è stata oggetto di lunga discussione, di faticosa mediazione e di accordo su un testo che non ricalca strettamente la definizione internazionale del reato di tortura inserita proprio in quella Convenzione allora ratificata.
Tuttavia, la sua vita in sede processuale, ponderata e densa di elementi interpretativi, sta dimostrando la positività della scelta allora fatta dal Parlamento – e sulla quale il Garante nazionale, interpellato ufficialmente, aveva espresso parere favorevole – e sta facendo emergere, per distinzione, come tale previsione tuteli nei fatti la dignità professionale della quasi totalità di coloro che agiscono con professionalità e dedizione, rispetto all’accertamento delle situazioni dove invece la logica dell’arbitrio è divenuta prevalente.
Una norma da difendere proprio sotto questo profilo, osservando come talune pronunce giudiziarie, quale quella recente del Tribunale di Siena, abbiano evidenziato la specificità di un reato così grave commesso dal pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni, rispetto al reato comune di uguale gravità, ma di differente connotazione; così sciogliendo i dubbi di chi nella discussione riteneva poco tipizzante la fattispecie introdotta.
Certamente ogni tentativo di riportare tale gravissimo crimine compiuto di chi ha la responsabilità di persone affidate dalla collettività per l’esercizio di quella terribile potestà che è la privazione della libertà personale, a semplice aggravante di comuni reati di abuso o violenza non corrisponderebbe a quella civiltà giuridica che da Verri, Beccaria ai giorni nostri è carattere del nostro Paese.
Nella Relazione sono riportati anche Pareri e taluni Rapporti tematici che il Garante nazionale ha prodotto in questi anni, relativamente agli aspetti più difficili della propria azione in questo campo. Sono quelli che toccano questioni sensibili e, a giudizio del Garante nazionale, ancora bisognosi di ripensamento e intervento.
Sono così riportate le raccomandazioni formulate all’indomani dell’emergere delle immagini della cosiddetta “perquisizione” effettuata nell’Istituto di Santa Maria Capua Vetere: tre raccomandazioni relative, la prima, alla notifica riservata preventiva al Garante delle perquisizioni straordinarie generali – di un intera sezione, reparto o istituto – che si siano programmate; la seconda, all’estensione del sistema di videosorveglianza in tutti gli Istituti e del mantenimento delle immagini per un tempo compatibile con l’indagine di eventuali episodi successivamente riportati; la terza, alla effettiva identificabilità degli strumenti di equipaggiamento indossati in situazione di particolare gravità in modo tale da permettere una completa indagine di possibili comportamenti perseguibili penalmente.
Troppe archiviazioni si registrano in questi casi per l’impossibilità di identificare l’autore, laddove il doveroso e necessario equipaggiamento è divenuto, nei fatti, una sorta di camuffamento.
La prima raccomandazione ha avuto una risposta immediatamente positiva da parte dell’Amministrazione; pure la seconda è stata positivamente accolta anche se tuttora è in corso, lento, di attuazione; la terza non è stata accolta.
Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ribadisce con la dovuta convinzione, la necessità che tale possibile identificabilità degli strumenti di equipaggiamento e, quindi, di chi in una determinata situazione li ha indossati, sia assunta come un criterio di fiducia e trasparenza per tutti i Corpi di Polizia, nelle modalità che sappiano anche tutelare tutti i soggetti che agiscono in contesti difficili, ma che al contempo diano effettività alle eventuali indagini di comportamenti inaccettabili. L’annunciata introduzione delle bodycams rappresenta certamente un buon passo in avanti, ma non è ancora sufficiente.
Tra i Pareri e i Rapporti vi sono quelli redatti in occasione del dibattito sulla possibilità di accesso alla liberazione condizionale per persone detenute che rispondono di reati “ostativi”, stimolato dall’indicazione della Corte costituzionale e dalla conseguente attività del Parlamento che ha portato al decreto-legge 31 ottobre 2022 n. 162. Vi è inoltre l’intero secondo Rapporto sul regime speciale ex articolo 41-bis co.2 dell’ordinamento penitenziario.
Sono due temi che il Garante nazionale ritiene tuttora aperti.
Il primo perché sarà la sua evoluzione in sede giurisprudenziale a chiarire l’effettività della risposta a quell’imperativo di impossibilità di una pena che non lasci margine effettivo e praticabile alla speranza.
Il secondo perché, come evidenziato nello stesso Rapporto, è tempo di aprire un chiaro confronto sul regime speciale: sulla sua funzione necessaria per l’interruzione di connessioni, collegamenti e ordini tra le varie organizzazioni criminali, ma anche sulle sue regole, sulla sua attuale estensione numerica, sulla durata troppo spesso illimitata, che si perpetua non di rado fino all’ultimo giorno di detenzione in caso di pene temporanee.
Inoltre, sulle condizioni materiali di detenzione, sulle singole misure e sulla scrupolosa tutela dei diritti che attengono alla persona e che costituiscono il fulcro irrinunciabile di un ordinamento democratico.
Ricordando poi che il comma 2 di quell’articolo 41-bis è stato una misura aggiuntiva introdotta per affrontare uno specifico problema e per affrontarlo in un’ottica di progressivo superamento del problema stesso. Altrimenti diventerebbe dirimente l’aporia di una situazione stabile di specialità che modifica concretamente la configurazione dell’esecuzione penale e incide sulla possibilità di «tendere alla rieducazione del condannato» e che sia invece adottata con provvedimento amministrativo e solo successivamente posta al vaglio giurisdizionale.
Una incursione politica che incide sull’effettività di un principio costituzionale, pur oggetto nella sua formulazione in sede Costituente di lunga analisi e discussione.
L’area di azione del Garante nazionale in ambito penale non può concludersi senza una indicazione di massima: il primo intervento “trattamentale” non risiede nella a volte fantasiosa proposta di progetti e attività, bensì nel dare istruzione e formazione. Perché sono queste a costituire il sostegno della consapevolezza che è preliminare all’assunzione della responsabilità – anche di ciò che si è commesso.
L’istruzione non può essere una variabile muta nel percorso detentivo, tale che la sua assenza in ingresso rimanga invariata negli anni se non soggettivamente stimolata da una richiesta della persona ristretta. Non è tollerabile che ci siano ancora quasi 5000 persone che non hanno completato l’obbligo scolastico e che, anche restringendosi ai soli italiani, ci siano 845 persone analfabete e altre 577 che non hanno concluso il ciclo di scuola primaria di primo livello (nel vecchio lessico, la scuola elementare).
Sull’investimento in istruzione chiediamo al Parlamento un’attenzione speciale, che non è soltanto di attuazione di corsi e di fornitura di relative risorse, anche e soprattutto col ricorso a ciò che le tecnologie dell’informazione e comunicazione possono offrire, ma è di indirizzo a una diversa organizzazione del tempo detentivo che l’Amministrazione dovrà conseguentemente attuare.
Simmetricamente, un segnale positivo su cui riteniamo doveroso informare il Parlamento è dato dai 1427 iscritti ai corsi universitari, nei diversi Poli che si stanno diffondendo nella penisola e che sono coordinati dalla Conferenza nazionale dei Rettori.
Un segno, questo, della non distanza del mondo detenuto dal mondo esterno, della loro complementarità effettiva che deve talvolta ancora essere colto dalle Istituzioni, incluse per alcuni aspetti la Magistratura di sorveglianza e l’Amministrazione penitenziaria, non come qualcosa di opzionale, come una possibile concessione o addirittura come un’attività da guardare con reticenza. No, la costruzione di conoscenze e l’espressione della cultura di cui ogni soggetto è in qualche modo portatore sono aree di strutturazione del sé individuale. Esse convergono verso l’obiettivo comune di ridare significato al tempo della detenzione, liberandolo dalla connotazione di tempo sottratto alla vita o di tempo di attesa, per farne occasione per l’acquisizione, quantunque limitata, di qualche elemento positivo per la propria soggettività e per l’avvio di un percorso di reinserimento sociale.
La privazione della libertà dei migranti
Proprio quest’ultima affermazione non può applicarsi al tempo recluso dei migranti, in attesa del compimento del proprio fallimento. Perché il tempo della loro privazione della libertà nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) è inequivocabilmente vuoto e trascorre in spazi anch’essi vuoti.
Una duplicità di assenza che si unisce a quella sensazione di essere giunti al termine negativo del proprio progetto – qualunque esso fosse – e di doversi misurare così con il terzo vuoto: quello interiore.
Il tema dell’estensione delle forme amministrative di trattenimento ha occupato una grande parte delle attività del Garante nazionale nel corso di questi sette anni e tuttora costituisce un terreno su cui il dibattito è spesso segnato da elementi di emotività e di minore attenzione alla razionalità dei provvedimenti e alla loro efficacia.
Alcune premesse sono ampiamente condivise dagli osservatori più attenti e sono ormai ineludibili per affrontare questo tema.
La prima è che le migrazioni verso l’Europa soprattutto da parte di popolazioni provenienti dal Sud e dall’Est del mondo non costituiscono un evento contingente, destinato a ridursi drasticamente nel medio periodo e che, quindi, richiedono ai Paesi di destinazione, in primo luogo a quelli più esposti per posizione geografica, la capacità di una elaborazione prospettica degli scenari di interlocuzione, di coesione e di risoluzione delle criticità dell’integrazione; parallelamente richiedono ai governi l’adozione di politiche strutturali nell’affrontare le criticità e nell’individuare le potenzialità di tale processo.
La seconda è che questa connotazione strutturale del fenomeno è sempre più confermata dagli scenari di conflitto, da quelli di crisi climatica e dal continuo riproporsi di politiche che non permettono a molti Paesi l’effettiva possibilità di contare sulle proprie risorse e che determinano sacche di povertà in territori potenzialmente ricchi di risorse naturali.
La terza è che la stessa connotazione non episodica o emergenziale della necessità di migrare verso un ‘altrove’ europeo potenzialmente foriero di una vita diversa determina la necessità di una politica europea condivisa che sappia assumere una responsabilità comune.
Sono premesse fin troppo evidenti, che necessariamente comportano forme più articolate di protezione delle persone e di un loro inserimento in un contesto che ne potenzi le forme di stabilizzazione e miri a ridurne il senso di precarietà.
Accanto alla tradizionale protezione offerta sin dall’indomani del secondo conflitto mondiale e inserita come obbligo nella nostra Costituzione, sostanzialmente centrata sullo scenario di provenienza, occorre elaborare pienamente quella che pone a rischio i singoli per proprio profilo personale nel Paese da cui arrivano e altresì quella che eviti l’interruzione di percorsi di inserimento avviati e che possono essere stati bloccati da fattori indipendenti dalla volontà del singolo.
Credo sia giunto anche il momento per l’Europa di interrogarsi su quella definizione di «immigrazione economica» che, svincolata dai contesti che determinano l’economia, finisce col respingere coloro che sono vittime di modelli di mercato di cui l’Europa stessa porta responsabilità. Solo il rischio di introduzione di elementi di criminalità rimane il parametro equo per una politica difensiva.
Sono però anche premesse che continuano a non trovare atti corrispondenti sia nel complessivo ambito delle Istituzioni europee, sia nelle posizioni politiche di ciascuno dei Paesi del vecchio continente, incluso il nostro.
A parere del Garante nazionale, infatti, molte delle azioni intraprese in questi anni e tuttora in corso continuano a non essere caratterizzate dalla necessaria visione prospettica, per la centralità attribuita ai rimpatri e alle forme di privazione della libertà in direzione del respingimento e dell’espulsione o al supporto a Paesi terzi per il contenimento delle partenze, anche laddove tale contenimento viene più volte documentato come ulteriore carico di afflizione nei confronti di persone che provengono già da ambiti di sofferenza.
In Italia la scelta del trattenimento, di natura essenzialmente detentiva, viene portata avanti anche indipendentemente dalla valutazione dell’effettiva possibilità di allontanamento entro lo scadere dei termini di restrizione.
I dati che vengono presentati nella parte tabellare di questa Relazione sono eloquenti perché indicano che delle 6383 persone che nel 2022 sono state ristrette nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) soltanto 3154 sono state effettivamente rimpatriate.
Il totale dei rimpatri è stato peraltro molto limitato: 3916, principalmente in Tunisia (2308), in Albania (58), in Egitto (329), in Marocco (189) – numeri piccoli rispetto al clamore frequente delle intenzioni annunciate.
Quello che qui conta – nel contesto dell’assoluto principio che la privazione della libertà, bene definito «inviolabile» dalla nostra Carta, possa attuarsi solo nella prospettiva di una chiara finalità, legalmente prevista e sotto riserva di giurisdizione – è che circa la metà delle persone trattenute – esattamente il 50,6 percento – ha avuto un periodo di trattenimento detentivo senza il perseguimento dello scopo per cui esso era legalmente previsto. Spesso senza che tale scopo fosse già ipotizzabile al momento dell’inizio del trattenimento stesso.
Si è trattato, quindi, di una sottrazione di tempo vitale non giustificata di fatto dalla finalità che il primo comma dell’articolo 5 della Convenzione europea per i diritti umani assume come previsione per la privazione della libertà e che la stessa Direttiva europea sui rimpatri del 2008 (la direttiva CE/115/2008) ritiene non accettabile perché non caratterizzata da una credibile possibilità di attuare il rimpatrio.
Del resto, il dato si è dimostrato non correlato alla possibile durata del trattenimento nei Cpr, perché pur in periodi diversi in cui essa è oscillata considerevolmente, la percentuale di rimpatri non ha mai raggiunto il 60 percento delle persone ristrette anche per lungo tempo in tali strutture.
Il Garante nazionale non intende con questa affermazione intervenire su scelte politiche che non sono di sua competenza, ma considera proprio dovere fornire questi dati al Parlamento e al Governo in un momento in cui l’ampliamento di strutture di questo tipo è stato avanzato come elemento strategico.
Ciò premesso, credo sia importante tenere sempre presenti tre tutele fondamentali che devono essere assicurate alle persone ristrette in strutture di questo tipo, siano esse i Cpr, gli hotspot, i cosiddetti “locali idonei” da utilizzare come una sorta di Cpr d’appoggio presso le Questure, fino alle navi quarantena che in anni recenti, nel periodo della necessaria cautela sanitaria per la crisi pandemica, sono divenute anch’esse luoghi di una privazione de facto della libertà.
La tutela giurisdizionale, laddove la libertà è privata, è la prima e fondamentale tutela e non può riguardare soltanto la convalida, da parte del Giudice di pace, del trattenimento in una di queste strutture, perché deve coprire anche la vigilanza sullo svolgersi di tale trattenimento.
La fondamentalità della tutela della salute per ogni persona è esplicita nella nostra Costituzione che, spesso avara di aggettivi, utilizza proprio tale qualificazione nell’articolo 32 tratta per il diritto a tale tutela. La sua effettività risiede nel ruolo del Servizio sanitario nazionale, quale attore pubblico a cui tale compito è affidato dalla collettività.
Un ruolo [questo] che non può anch’esso limitarsi, come invece avviene, alla sola visita iniziale diretta a stabilire la compatibilità con il trattenimento in tali luoghi chiusi, per poi affidare l’evolversi della situazione sanitaria delle persone trattenute, comprese le sue necessità diagnostiche e terapeutiche e il mantenimento della misura restrittiva al medico dell’Ente privato che gestisce il singolo Centro.
La terza tutela riguarda la connessione relazionale che è proprietà di ogni persona e che determina la trasparenza dell’azione di trattenimento.
Qui il diritto alla tutela è duplice: riguarda la persona ristretta che non può essere isolata da ogni contesto in virtù di una irregolarità amministrativa e che troppo spesso non è neppure informata circa il possibile esito della propria situazione neppure nei casi in cui il suo rimpatrio forzato sia sul punto di attuazione. Ma riguarda anche la collettività che ha diritto di porre il proprio sguardo all’interno di tali luoghi, che sono invece chiusi alla possibilità di interazione con il volontariato, con le forme aggregate del territorio, con gli organi d’informazione.
Questa assenza di connessione è plasticamente rappresentata dall’essere questi luoghi emblematici del vuoto, sia spaziale che temporale.
Spazi spesso pensati solo per contenere, senza alcuna attività, né relazioni interne significative, in uno scorrere del tempo caratterizzato dall’indeterminatezza dell’esito del suo svolgersi. Una realtà in cui alberga fortemente la rabbia, il fallimento, il desiderio di distruzione e di autodistruzione.
Nel riportare, nelle pagine che seguono, l’azione della specifica Unità operativa che si occupa della privazione della libertà dei migranti e del monitoraggio dei voli di rimpatrio, saranno, quindi, considerati gli aspetti più specifici di questo tempo trattenuto: sono stati oggetto di periodici Rapporti tematici pubblicati a seguito delle molte visite fatte e dei molti voli monitorati, anche in cooperazione con i Garanti territoriali sulla base della possibilità di delega che il Legislatore ha dato al Garante nazionale con il decreto-legge 21 ottobre 2020 n. 130.
Qui ho invece voluto soffermarmi su questi tre aspetti di tutela perché credo che le carenze di ciascuna di esse nel contesto presente diano la fisionomia dell’attuale forma di detenzione amministrativa: sempre più estesa, in luoghi sempre più variegati e poco o per nulla aperti allo sguardo esterno, sempre carente di tutele fondamentali.
Il rischio è che la privazione della libertà dei migranti irregolari tenda a legittimarsi più come misura rassicurante della collettività che non come tassello efficace per una strategia che, come più volte condivisibilmente affermato anche in tempi recenti, riesca a ridurre le situazioni di irregolarità di presenza nel territorio nazionale e i rischi conseguenti anche sul piano delle possibili connessioni criminali.
Un aspetto è però doveroso riportare al Parlamento. Anche relativamente a quest’area tematica, caratterizzata da maggiore difficoltà e da più critica analisi da parte del Garante nazionale, l’Autorità amministrativa è sempre stata cooperativa, nel fornire dati, nel comunicare preventivamente le operazioni di rimpatrio programmate, nell’affrontare, anche se non sempre con posizioni coincidenti, le raccomandazioni sollevate dal Garante nazionale a seguito di un’attività di visita o di monitoraggio.
Non era scontato perché si tratta di un’area tematica molto esposta all’immagine e al consenso. Invece, si è riusciti sempre a lavorare in modo coeso, ognuno ovviamente con il proprio ruolo.
Diversi sono stati invece, in taluni anni, la rappresentazione pubblica dei problemi e il linguaggio a tal fine utilizzato che certamente non hanno contribuito alla crescita della consapevolezza sociale della connotazione strutturale del tema delle migrazioni – in generale e verso il nostro Paese in particolare – e quindi a una consapevole declinazione della positività e dei problemi che tale fenomeno comporta.
In questo quadro, Il Garante nazionale guarda con attenzione al negoziato sul nuovo Patto per la migrazione e l’asilo, sottolineando la positività della ricerca di risposte e linee di azione condivise. Resta tuttavia preoccupato riguardo all’estensione generalizzata del trattenimento in frontiera in luoghi connotati da formale extraterritorialità e alla possibilità di trasferimento forzato delle persone migranti verso Paesi terzi di transito, indipendentemente dalla connessione della persona con quel territorio, considerati sicuri, anche se non vincolati dall’adesione alla Convenzione di Ginevra.
Il Garante nazionale è certo che di tali impegni verranno trovate formulazione e attuazione pienamente in linea con il nostro ordinamento costituzionale e distanti dalla tentazione di esternalizzazione delle nostre responsabilità di controllo e tutela.
In tema di salute
Forse la novità maggiore che ha comportato nel dibattito pubblico l’aver designato il Garante nazionale quale Meccanismo nazionale di prevenzione di maltrattamenti e tortura in ambito Onu è stata proprio la previsione di un organismo, indipendente, forte di un mandato specifico, rivolto a tutte le aree e i relativi luoghi in cui le persone possano essere ristrette. Inclusi quelli di connotazione sanitaria e socioassistenziale.
L’analisi di queste strutture si è articolata verso tre direzioni, con problemi dissimili tra loro, ma anche in questo caso con una linea di somiglianza concettuale e paradigmatica che incide sui diritti soggettivi delle persone accolte. Sinteticamente, si tratta delle strutture aventi connotazione penale, dei servizi psichiatrici ospedalieri e della residenzialità di natura sociosanitaria e assistenziale.
La prima direzione ha riguardato, quindi, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, in acronimo le Rems. Al momento di insediamento di questo Collegio, nel febbraio 2016, erano strutture del tutto nuove, in alcune regioni ancora non realizzate, in altre aventi carattere provvisorio – una caratteristica, questa, ancora oggi non del tutto superata in taluni casi.
Più volte è stato sottolineato il valore di una riforma che ha sanato l’incongruenza di un residuo manicomiale rimasto intoccato per oltre quarant’anni dopo la trasformazione dello stesso paradigma psichiatrico operata nel 1978 con la legge di chiusura dei manicomi e con il suo complemento nello stesso anno con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale.
Per questo, nonostante alcuni tratti rendano le Rems ancora acerbe nel dibattito pubblico, occorre guardare positivamente al percorso intrapreso, potenziando laddove necessario l’effettività della presa in carico delle persone e della delineazione per ciascuna di esse di un piano terapeutico riabilitativo, tuttora invece definito soltanto per il 46 percento dei pazienti definitivi accolti.
Occorre tuttavia anche saper riconoscere le difficoltà che i singoli presentano e che si riflettono sul loro ambito affettivo e sull’aggregato sociale di loro riferimento, perché tale riconoscimento è premessa per dare strumenti operativi e risorse ai servizi territoriali per la piena attuazione del superamento di un’ottica meramente custodiale e per il reale sviluppo di un approccio relazionale che richiede tempi e investimenti: altrimenti la percezione di abbandono rischia di essere confermata dalla realtà e si riprospettano periodicamente tentativi di arretramento.
Il Garante nazionale ha più volte auspicato un migliore coordinamento tra le diverse amministrazioni regionali e una maggiore capacità di rapportarsi alle difficoltà da parte del complessivo insieme dei servizi territoriali di assistenza e supporto alla salute, avendo riscontrato quanto scarsi siano tuttora gli investimenti verso i settori più marginali della collettività, in particolare nelle strutture detentive, ma non solo in esse, e quanto carente sia nei fatti la garanzia di continuità di presa in carico di persone oggettivamente difficili e dai percorsi tortuosi.
Vi è una evidente necessità di maggiore investimento, perché il diritto alla salute nei luoghi della difficoltà e, in particolare, della privazione della libertà non può ridursi all’estemporaneo, episodico e a volte ritardato accesso a prestazioni sanitarie in caso di sintomatologie patologiche o alla risoluzione di momenti di acuta tensione, ma deve caratterizzarsi per la continuità sul piano della prevenzione, della cura e dell’accompagnamento verso il benessere possibile. Un percorso, questo, che può comportare maggiori costi nell’immediato, ma che determina una decisiva convenienza nel lungo periodo, oltre che una vera rispondenza al dettato costituzionale sulla fondamentalità del diritto alla salute di tutti. Anche di quelli percepiti come “ultimi”.
A partire da questa considerazione generale, lascia molta perplessità il collocamento in Rems fuori regione di pazienti, poiché in contraddizione con la necessaria presa in carico territoriale. Parallelamente, ferma è la critica del Garante nazionale, già espressa in passato, verso strutture formalmente polimodulari che di fatto rischiano di costituire un aggregato coeso di problematicità che può richiamare il paradigma manicomiale. Positivamente va invece valutato l’impegno portato avanti dall’Osservatorio stabilito in anni recenti dal Ministero della salute nel risolvere asperità tra le diverse realtà regionali.
Due aspetti destano preoccupazione nell’esaminare in dettaglio il panorama delle 632 persone internate nelle attuali 31 Rems funzionanti.
Il primo riguarda la percentuale delle persone accolte in misura di sicurezza provvisoria: il dato del 46,7 percento del totale ha certamente incidenza sul numero di coloro che pur in misura definitiva non trovano adeguata sistemazione e conseguente attenzione.
Il secondo riguarda il numero complessivo di persone che sono state dichiarate destinatarie di tale misura e che supera di molto il numero di coloro che al momento della chiusura erano ospitati negli Ospedali psichiatrici giudiziari. Erano 698 a quella data (precisamente al 25 marzo 2015, secondo il Rapporto ufficiale del Ministero della salute e del Ministero della giustizia) i pazienti ancora reclusi in quelle inaccettabili strutture.
Comprendevano non soltanto coloro che erano in misura di sicurezza, ma anche coloro che avevano elaborato disagio o malattia di tipo psichiatrico e che vi erano collocati in virtù dell’articolo 148 del nostro codice penale; e, ancora, coloro che erano in osservazione psichiatrica. Un insieme indistinto di situazioni soggettive diverse, ingiustificato da alcun fondamento di natura medica o giuridica – e purtroppo da taluni qua e là rimpianto.
Dato incomparabile rispetto a quello attuale che, oltre alle 632 persone già accolte in Rems, ne indica altre 675 in lista di attesa e di esse 42 illegalmente recluse all’interno di ben 25 carceri, senza titolo detentivo.
Oltre a ciò, da più parti si levano denunce di difficoltà negli Istituti penitenziari relativamente a coloro che mostrano significativi problemi di natura comportamentale e anche di acclarato disturbo psichico non adeguatamente gestiti nelle cosiddette “Articolazioni per la tutela della salute mentale” presenti in taluni di essi.
Non è qui il caso di analizzare le ragioni di questo aumento o di individuare quanto esso sia dovuto a maggiore ricorso a misure di sicurezza reclusive – perché l’assegnazione, seppure temporanea, a una Rems è tale – o a una effettiva sottovalutazione dell’aumento delle difficoltà e del disagio nella società contemporanea, certamente segnata da maggiore incertezza e da conseguente rischio della evoluzione della fragilità soggettiva in comportamenti non omologabili e anche auto o etero aggressivi.
Resta il fatto che il processo anche culturale di graduale responsabilità territoriale di tali difficoltà non può avere momenti di cammino all’indietro; deve essere incoraggiato e incrementato; superando quel rimpianto della non-visibilità delle situazioni complesse che spesso prende forza nel dibattito pubblico.
In fondo, la collocazione in un universo ‘altro’ quale era rimasto l’Ospedale psichiatrico giudiziario aveva una non visibilità rasserenante per chi pensa che la complessità non debba disturbare e si affida alla caratteristica falsamente rassicurante che il concetto di totalità porta con sé: gestione totale del tempo di una persona, dei suoi spazi, dei suoi movimenti, della sua quotidianità.
Questa è in fondo la fisionomia di tutte le istituzioni, penali, amministrative, sanitarie, verso cui il Garante nazionale deve rivolgere la propria attenzione. Perché la totalità porta con sé sempre la riduzione dei diritti e l’affievolimento della responsabilità soggettiva, così determinando maggiore difficoltà e maggiore ricorso a criteri ulteriormente totalizzanti.
Con questa chiave il Garante nazionale ha letto la previsione di una Rems dove i pazienti sono accolti indipendentemente dalla regione di provenienza, realizzata con il fine di risolvere l’illegalità della presenza in carcere di persone non detenute, ma internate per ragioni di natura psichiatrica. Una sistemazione prevista temporaneamente, ma chiaramente sottratta alla possibilità di relazione territoriale per la sua specifica collocazione difficilmente raggiungibile e che, al di là della professionalità di chi vi opera e dalla dedizione del personale contraddice in sé la finalità della collocazione in una Rems come tappa di un percorso.
Il Garante nazionale e il Garante della Regione Liguria hanno visitato questa Rems di Calice al Cornoviglio ove erano ospitati nel giorno della visita 13 pazienti e dove erano stati effettuati lavori di accentuata sicurezza per l’accoglienza di pazienti più problematici; ha formulato alcune raccomandazioni e auspica che essa non costituisca un passo né per una de-territorializzazione delle persone più gravi, né per un’impropria organizzazione delle Rems sulla base dei presidi di sicurezza da ciascuna di esse previsti.
L’essermi soffermato sulle Rems non indica che l’attenzione del Garante nazionale si sia concentrata prevalentemente su di esse. Al contrario, come del resto è espresso nelle pagine della Relazione che consegniamo al Parlamento, l’attenzione ai Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc) è stata continua e si è estesa alle procedure di trattamento sanitario obbligatorio, non certo per indicare che tali trattamenti portino con sé l’attuazione in luoghi specificatamente designati e connotati da restrizione, ma per indicare che è l’aggettivo stesso «obbligatorio» a richiedere un controllo indipendente.
La novità dell’impegno è stata l’attenzione alle situazioni residenziali, laddove queste assumano, appunto, quel paradigma di totalità come criterio informatore. Non sono numeri banali: sono 12630 i presidi residenziali socioassistenziali e sociosanitari, per un totale di più di 400mila posti letto (411992) e attualmente 305750 le persone anziane, autosufficienti o meno e le persone adulte o minori con disabilità in essi ospitati.
Questa attenzione, su cui il Garante nazionale ha già negli anni precedenti ampiamente relazionato, si è così estesa alle diverse strutture ove persone anziane o con disabilità sono ospitate e dove a volte permangono per periodi indefiniti non sempre corrispondenti alla previsione iniziale nel momento d’ingresso, né alla volontà allora espressa o a quella in seguito affermata.
Sono situazioni di cui si sono talvolta interessati anche gli organi d’informazione e che si sono accentuate nel periodo di chiusura di tali residenze per motivi di profilassi nel periodo del Covid. Ma, come sappiamo e come si è verificato dal punto di vista scientifico e da quello dell’accertamento giudiziario, sono stati luoghi ove la sofferenza dell’isolamento non ha neppure determinato l’impermeabilità al rischio di contagio; bensì il contrario.
Nel rivolgermi al Parlamento due anni fa, ho sottolineato come sia «doverosa una complessiva riflessione sul sistema in sé delle residenze sanitarie assistenziali che sono nella maggior parte dei casi strutture private accreditate; nonché sui criteri di accreditamento che proprio perché calibrati sull’organizzazione a stanze e relativo numero di letti ,a cui si aggiunge qualche ambiente comune, hanno finito col configurarsi nel periodo dell’impossibilità di attività comuni per il rischio di contagio, in qualcosa di simile a piccoli reparti ospedalieri, dove il letto diveniva il ‘luogo’ della giornata, peraltro trascorsa in assenza di figure esterne». È una raccomandazione che mi sento di dover rinnovare.
Ancora lo scorso anno, nell’analoga occasione, ho osservato come l’area della residenzialità protetta, accudita, sconfini, in talune circostante, col configurarsi come privativa della libertà de facto soprattutto per coloro che non hanno figure di accudimento da loro riconoscibili.
Da qui la necessità che il Garante nazionale ha avvertito di individuarla come un’area di proprio intervento, in piena collaborazione con il mondo associativo molto attivo e reticolare che da tempo opera in questo settore.
Con la previsione di una funzione specifica di garanzia per le persone con disabilità, introdotta con il Piano di Ripresa e Resilienza si dovrà realizzare una interazione tra una tutela d’ordine generale e una specifica per coloro che sono all’interno di strutture potenzialmente chiuse. Ciò lascia sperare in un rafforzamento complessivo e il Garante nazionale è pronto a dare il proprio contributo in tale senso.
La sfida è sempre il «sostegno all’autonomia».
[Come] del resto enunciato quale principio dalla legge 8 novembre 2000 n. 238 e ripreso nell’affermazione programmatica così espressa: nell’affermazione di proposito: «La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema integrato di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce la condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare […] in coerenza con gli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione». Tutti devono contribuire al potenziamento dell’autodeterminazione, anche di quel margine limitato che in taluni casi può apparire meramente residuale, ma che costituisce il germe del riconoscimento dei diritti di ogni persona.
La custodia delle Forze di Polizia
La custodia da parte delle Forze di Polizia è stato storicamente uno dei primi temi – se non il primo – attorno a cui si è consolidata, negli ultimi decenni del secolo scorso, l’attenzione degli organismi di difesa dei diritti fondamentali delle persone, soprattutto durante quel periodo difficile e a volte meno trasparente che segue un arresto, un fermo, un trattenimento nelle strutture delle Forze dell’ordine.
Il primo ambito d’azione del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti, immediatamente dopo l’avvio della sua operatività, nel 1989, sulla base della Convenzione istitutiva, ha riguardato proprio le visite dei Commissariati dei diversi Paesi che l’avevano ratificata, così iniziando a definire sia standard di accettabilità minima dei locali dove le persone fermate o arrestate potevano essere trattenute, sia regole procedurali che consentissero lo sguardo esterno in quei luoghi e in quel particolare periodo.
Così sono stati definiti i diritti fondamentali che devono essere garantiti a ogni persona sin dall’immediatezza di quel periodo. Questi consistono innanzitutto nella possibilità di notifica a una persona del proprio ambito affettivo dell’avvenuta privazione della libertà, salvo specifiche e definite controindicazioni dovute al mantenimento della riservatezza su un’indagine in corso; inoltre la possibilità di accesso a un medico, soprattutto in considerazione della concitazione che a volte l’operazione di arresto può comportare, e, infine, la possibilità di accesso a un avvocato al fine di avere una persona che possa valutare con sguardo tecnico e di supporto la situazione in atto e intervenire se necessario, ciò ancor prima dell’esercitare una funzione più direttamente di difesa legale rispetto alle specifiche contestazioni.
Questi diritti, uniti a quell’ulteriore diritto che opera come ‘perimetro’ del loro insieme ed è espresso dall’essere informato dei propri diritti in una lingua effettivamente comprensibile, hanno costituito nel corso degli anni la base dell’attenzione degli Organismi internazionali di controllo della privazione della libertà da parte delle Forze di polizia e sono stati assunti dal Garante nazionale come fondamento di ogni ulteriore osservazione e valutazione degli spazi, delle regole procedurali seguite, del controllo delle corrette registrazioni, dell’individuazione di ogni oggetto impropriamente presente laddove una persona fermata o arrestata possa essere trattenuta o ancor più interrogata.
Sono principi condivisi con i responsabili sia dell’Arma dei Carabinieri che della Polizia di Stato e della Guardia di finanza e sono stati più volte ribaditi, spiegati nel loro significato anche di tutela di chi opera nel corso della vasta attività di formazione reciproca e comune che si è sviluppata in questi sette anni.
Il particolare Protocollo d’intesa sottoscritto con i Comandanti generali dell’Arma dei Carabinieri che si sono susseguiti in questi anni ha trovato espressione concreta sia in una serie di venticinque incontri con tutti i responsabili territoriali ai diversi livelli in tutte le regioni condotti dal Presidente del Garante nazionale, sia nell’attività formativa di Marescialli e di giovani al primo ingresso condotti dalla specifica Unità operativa dell’Ufficio del Garante.
Parallelamente sono state realizzate attività formative comuni con la Polizia di Stato a livello generale, soprattutto nei primi anni quando era più impellente diffondere la conoscenza della nuova Autorità di garanzia, e a livello specifico relativamente ai corsi per coloro che operano le scorte delle persone straniere da rimpatriare.
Va sottolineata l’importanza di questa attività comune, dove il Garante nazionale non ha soltanto tenuto alcune lezioni, ma ha anche visto le persone del proprio staff, a gruppi successivi, partecipare direttamente ai corsi stessi, come osservatrici. L’importanza di questa attività congiunta è nella sintesi che si realizza tra comprendere attraverso la diretta conoscenza e saper osservare quando si esercita la funzione di monitor di una determinata operazione.
Certamente la connessione tra punti di vista diversi giova nell’esercitare l’attività ‘intrusiva’ in quest’area problematica.
Molte sono state le raccomandazioni formulate e diverse ancore richiedono sforzo per la loro completa attuazione: nel settore della riconoscibilità in ogni momento di coloro che operano, anche al fine di poter individuare le responsabilità individuale e non far cadere sui molti un’ombra generale di dubbio; nel settore della dignità degli ambienti, pur riconoscendo i passi avanti compiuti in questi anni; nella puntuale registrazione di ogni evento, fino alla possibilità di non trovare più in futuro – come invece in qualche episodio di questi anni è capitato – impropri e pericolosi oggetti in luoghi dove le persone possono essere trattenute e interrogate.
Sono tutti obiettivi condivisi che potranno trovare proprio nel prosieguo della cooperazione sul piano formativo la migliore possibilità di essere raggiunti. Resta la positività del cammino avviato.
Ma certamente tutto ciò non può evitare di porre interrogativi sullo sconcerto che atti giudiziari, immagini, conversazioni intercettate pongono con forza, di tanto in tanto, relativamente a Corpi di Polizia diversi. E che di nuovo si sono riproposti in questi giorni.
Non vi è alcuna necessità per il Garante nazionale tornare a sottolineare che tali gravissimi casi non sono rappresentativi della cultura generale delle Forze di Polizia del nostro Paese: tutti noi siamo consapevoli del livello di democrazia e della professionalità raggiunti in particolare in anni recenti. Tuttavia, sono indicativi di una cultura, non leggibile con il paradigma autoconsolatorio delle «mele marce»; una cultura che oggi alberga, minoritaria, ma esistente, in settori di operatori di Polizia, che percepiscono la persona fermata, arrestata o comunque detenuta, come nemico da sconfiggere e non come autore di reato a cui viene inflitta quella sanzione che la legge prevede e dei cui diritti si è responsabili nel momento in cui la si detiene.
Certamente ogni argomentazione volta a sottolineare la difficoltà di questo compito è valida, ma mai giustificativa e il porla nell’immediatezza di un accertamento, quasi a diminuire la gravità di quanto acclarato, rischia di assecondare quella cultura di silenzi, di compiacimento, di inadempienza del proprio obbligo di denuncia che può sconfinare nell’omertà.
Una nota conclusiva
Come è evidente da quanto questa Relazione conclusiva del mandato di questo Collegio presenta al relativamente giovane Parlamento, tutte le attività hanno trovato il proprio sostegno in una continua attività di studio e di relazioni con Associazioni e Organismi istituzionali nazionali e internazionali, che ogni Unità ha costruito, ma che hanno trovato il momento di coordinamento, propulsione e sistemazione, in una Unità specifica a tal fine predisposta sin dall’inizio dei sette anni. Oltre che ovviamente dal supporto solido dell’impianto di Segreteria che ha curato anche la realizzazione di quest’ultimo tratto di percorso, che è stato, appunto, la predisposizione della presentazione odierna.
Per questo la riflessione e l’analisi dei sette anni dal punto di vista della crescita nello studio e nella costruzione di relazioni è proposto nelle pagine che seguono quale primo contributo tra quelli delle diverse Unità operative dell’Ufficio.
Rinnovo, nel volgere al termine del mandato a inviare un ringraziamento a tutti gli operatori delle Amministrazioni coinvolte – delle diverse Forze di Polizia, dell’assistenza sociale e del supporto educativo, della presa in carico e della cura delle persone con disagio – ai Garanti che operano territorialmente, nonché agli operatori delle Organizzazioni non governative e ai volontari che dedicano intelligenza e tempo in questi settori.
Contributi diversi, senza i quali ben poca sarebbe l’azione del Garante nazionale.
Questo ringraziamento si unisce all’assicurazione a coloro che hanno la responsabilità della decisione politica e della sua traduzione normativa e amministrativa, che l’interlocuzione con il Garante nazionale continuerà a essere, come è stata in questi anni, puntuale, forse a volte scomoda, ma certamente sempre collaborativa e volta alla ricerca condivisa di soluzioni ai problemi.
Mi limito a un pensiero finale, riprendendo letteralmente quella che avevo già svolto nel presentare la precedente Relazione al Parlamento della XVIII Legislatura che stava concludendo il suo percorso.
È il pensiero che rivolgo alle vittime di molte delle storie che sono dietro queste pagine, a coloro che quotidianamente assolvono per noi tutti il difficile compito di indagare, sanzionare e gestire l’esecuzione delle sanzioni; pensiero che rivolgo a coloro che affrontano viaggi impervi nella speranza di un ‘altrove’ migliore e a coloro che soccorrono queste persone nelle difficoltà di questi viaggi, nonché coloro che devono accoglierle positivamente e regolarmente all’interno delle comunità locali o a chi deve svolgere il triste compito di rimpatriare correttamente e professionalmente coloro che non hanno titolo a restare: anch’essi svolgono un compito in nome di tutti noi.
Va anche a chi quotidianamente agisce nei territori per dirimere i conflitti che affliggono il corpo di ogni società complessa e, in particolare della nostra.
Ma voglio aggiungere un pensiero e un augurio a voi, membri dell’ancora giovane Parlamento, che siete chiamati a rappresentare questi desideri di ricomposizione e di crescita culturale attraverso il difficile compito che vi attende.
Con altri ruoli, altre funzioni, i componenti di questo Collegio continueranno la propria azione per i diritti di tutti.
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