Articolo pubblicato sul sito di “Animazione Sociale“.
Inasprire le pene per i minorenni che delinquono, sanzionare con due anni di carcere i genitori se i figli non vanno a scuola: è il modo adeguato per prevenire i comportamenti devianti e arginare la dispersione scolastica?Questa è l’ipotesi alla base del cosiddetto decreto “Caivano”, approvato dal Consiglio dei Ministri. Su questo – come comunità di adulti – dobbiamo ragionare, accantonando l’emotività che sempre spinge a soluzioni di pancia, non meditate, poco efficaci.
Tra quanti si occupano di disagio sociale e devianza minorile (che dovrebbero essere ascoltati, perché il loro sapere è prezioso) la risposta è pressoché unanime: no, mostrare il pugno duro verso gli adolescenti che delinquono come verso le famiglie che non li mandano a scuola (dell’obbligo) non è un deterrente. Se si vuol capire il perché, fuori da ogni ideologia, basta per un istante considerare ciò che è accaduto a Caivano (dato che il provvedimento porta questo nome, dunque nelle intenzioni è volto a prevenire fatti analoghi).
Lì due cuginette di 10 e 12 anni sono state abusate per mesi da un gruppo di giovanissimi, quasi tutti minorenni, alcuni appartenenti a famiglie criminali della zona. L’episodio ha svelato (a chi la ignorava) una situazione di degrado, povertà, brutalità, illegalità diffusa, dispersione scolastica, assenza delle istituzioni. Una situazione analoga a quella di tante periferie d’Italia, dove a fronteggiarla sul campo ogni giorno restano pochi valorosi: parroci, educatori di strada, cittadini di buona volontà, insegnanti, assistenti sociali…
Siamo sinceri: davvero crediamo che il “branco” di ragazzini, se avesse saputo di andare incontro a pene più aspre, si sarebbe astenuto dalla brutale violenza a danno delle due bambine? E davvero pensiamo che, con sanzioni più dure ai genitori (fino a due anni di carcere, prevede il Decreto), Isa (nome di fantasia), la più grande delle cuginette, sarebbe andata tutti i giorni a scuola, anziché solo 76 sui 205 complessivi (questo è segnato nei registri dell’istituto e questo la scuola ha segnalato ai servizi sociali)?
Difficile non ammetterlo: la via penale (punire, punire di più) quieta l’emotività, ma lascia irrisolti i problemi. Il grande investimento va invece fatto sul sociale. Ossia sulle condizioni che permettono a ognuno/a di crescere come persona e come cittadino/a, dentro un senso di #appartenenza a una collettività, avendo accesso a opportunità educative e formative, in famiglie non annegate nella povertà materiale, in abitazioni non fatiscenti, in quartieri non degradati e abbandonati, in zone con una adeguata offerta di servizi culturali e sociali e non in ghetti da cui è difficile anche trovare un mezzo pubblico per “evaderne” qualche pomeriggio.
Vorremmo che si desse vita e sostegno, in ogni paese e città, ma con maggior vigore nei territori più deprivati, a comunità educanti capaci di stringere alleanze educative. Perché per affrontare il disagio minorile sappiamo che ci vuole la scuola, la parrocchia, le famiglie e i centri sportivi, il terzo settore, le associazioni culturali, i servizi sociali ed educativi, le forze imprenditoriali…
E vorremmo che chi ha compiti di governo, del Paese e dei territori, ascoltasse chi ogni giorno ha la mente, il cuore, i piedi e le braccia nelle strade e nelle periferie d’Italia. I commenti di questi professionisti e professioniste sono pressoché unanimi e basta sfogliare i giornali di oggi (7 settembre) per leggerli. Ne abbiamo selezionati alcuni:
“Non serve inasprire le pene, quelle esistenti possono tranquillamente essere graduate e chi delinque non fa il calcolo della pena che potrebbe essere irrogata” (Paola Brunese, presidente Tribunale per i minorenni di Napoli);
“Mi sono occupato per vent’anni di giustizia minorile e, in tutto questo tempo, non ho visto interventi nel sociale, non sono state investite risorse per insegnanti, educatori, famiglie in difficoltà” (Ciro Cascone, fino a un mese e mezzo fa procuratore minorile a Milano);
“A freddo potremmo dire: finalmente si puniscono le famiglie. Ma probabilmente chi governa non sa che i genitori di quei ragazzi che non frequentano la scuola stanno già scontando le misure repressive perché hanno spacciato, rubato, ucciso...” (Cesare Moreno, presidente onlus Maestri di Strada di Napoli);
“La mia visione è che sotto i 18 anni i ragazzi sono adolescenti, non sono ancora formati, e le vere responsabilità sono degli adulti. Solo punire non fa evolvere un pensiero critico. Ho ragazzi che a furia di punizioni e daspo si sono incattiviti ancora di più. Serve supportare con vigore le famiglie in povertà, le scuole nei quartieri di confine, senza dimenticare l’educativadistrada” (don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano);
“Trovare e punire il colpevole è più facile che comprendere la realtà straordinariamente complessa che sta promuovendo fenomeni adolescenziali come il ritiro scolastico e sociale o i gesti auto ed eterolesivi” (Matteo Lancini, presidente Fondazione Minotauro di Milano);
“Se ci fossero le risorse necessarie il sistema giudiziario minorile attuale sarebbe in grado di assicurare risposte adeguate. Senza, non può reggere. Oggi non mancano solo le strutture, ma anche gli educatori. Oggi non vengono eseguiti neppure i provvedimenti penali di collocamento in comunità per il mancato reperimento di una struttura adeguata” (Maria Carla Gatto, presidente del Tribunale per i minorenni di Milano);
“Prima di tutto occorre rendere la scuola un luogo interessante e sano che offra una prospettiva di uscita dal disagio sociale. Rafforzare le sanzioni nei confronti dei genitori non serve. Chi si ribella alla scuola ha bisogno di interventi e a 16 anni è oramai troppo tardi. I casi critici vanno individuati alla primaria e l’azione di aiuto deve iniziare dall’asilo” (Andrea Gavosto, presidente Fondazione Agnelli di Torino).
Una riflessione conclusiva va fatta sulla parola chiave di tutta questa questione: disuguaglianza.
La regione con il tasso di dispersione scolastica più alto d’Italia è la Sicilia (21,1%): seguono Puglia (17,6%), Campania (16,4%) e Calabria (14%). Non a caso le 4 regioni più povere del Paese, dalle quali, come segnala l’Associazione Antigone, arriva il 45,2% delle persone attualmente detenute, quasi la metà di chi oggi si trova in carcere. Se poi togliamo gli stranieri, che sono circa il 32% del totale di chi è recluso, e prendiamo solo la popolazione italiana, allora possiamo dire che il 67,6% dei detenuti italiani viene da queste quattro regioni. Questo nonostante il fatto che in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia viva solamente il 27,4% della popolazione nazionale.
I dati parlano da sé e non ci sarebbe altro da aggiungere.
Forse un decreto che porta il nome di Caivano (in provincia di Napoli) dovrebbe partire dal considerare la questione delle disuguaglianze geografiche e territoriali, che è innanzitutto una grande questione di giustizia sociale. Da trattare con più welfare (sociale, educativo, culturale, sanitario) e non con più carcere: che finisce così per essere sempre di più un luogo che raccoglie l’emarginazione e la povertà.
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