Il caso ha voluto che Jacques Delors e Wolfgang Schäuble morissero lo stesso giorno, il 27 dicembre. Cogliamo allora questa occasione per qualche riflessione che vada oltre le due figure che qui comunque ricordiamo come icone (il primo) di un mondo che si stava suicidando davanti a neoliberalismo, globalizzazione e nuove tecnologie; e di un mondo invece trionfante e sempre più egemone e totalitario (il secondo). Neoliberalismo che oggi si reinterpreta attraverso nazional-populismi, anarco-capitalismi, intelligenza artificiale, neo-fascismi, mileismi, muskismi, digitale e democrature, cioè le forme sempre più impolitiche/anti-politiche e anti-democratiche in cui si è infine reincarnato non tanto il capitale ma quella che definiamo razionalità strumentale/calcolante-industriale, per potercontinuare con altri mezzi la costruzione della propria egemonia e del proprio totalitarismo.
Anche per il socialista Delors, socialismo era infatti una parola dimenticata e sostituita da mercato e competitività (“Mi sono detto che, forse, il grande mercato sarebbe piaciuto ai liberali, certo, ma anche ai socialisti, perché è una prospettiva di crescita di ricchezza e dei mercati”), equivocando anch’egli tra crescita/competitività e sviluppo, e lavorando, comunque da perfetto marxista otto-novecentesco, allo sviluppo ulterioredelle forze produttive invece che al loro governo sostenibile e responsabile – come imponeva già allora la crisi ambientale e oggi quella climatica.
Già, perché il suicidio politico, culturale e antropologico delle sinistre europee (e non solo) è stato un processo lungo ma perseguito con ostinazione e compulsione (e che non deriva solo dal 1989). E se Delors cercava almeno di costruire una Unione europea con qualche traccia di ciò che significa unione, i neoliberali/ordoliberali se ne facevano deterministicamente i demolitori in nome di un mercato che doveva integrarsi e sovra-ordinarsi sempre più a società e stato, sostituendo l’homo politicus con l’homo oeconomicus.
In verità, il suicidio della sinistra non sta solo nella sua resa al neoliberalismo e al capitale, quest’ultimo vissuto anche da sinistra come un dato di fatto ormai immodificabile e da accettare come compimento della storia, se non con entusiasmo certo con positivistica rassegnazione. Ricordiamo che per il positivista Comte l’ordine nella scienza e l’ordine nella società si devono unire in un insieme indivisibile, e la meta finale consiste nel giustificare e rinforzare l’ordine sociale, favorendo una saggia rassegnazione.
Il suicidio della sinistra sta soprattutto – per l’ottimismo tecnologico che la struttura da sempre, insieme al ruolo progressivo/progressista che associa al capitalismo – nella sua incomprensione del potere della tecnica. Un potere sì legato e funzionale a, ma anche distinto da quello del capitale e comunque finalizzato a sovra-ordinare l’ordine della tecnica(e non solo del mercato)a società e Stato. Ed è il potere della razionalità strumentale/calcolante-industriale, che è il vero Principe e insieme il Leviatano/corpo tecnico-politico che governa il mondo dalla rivoluzione industriale ad oggi. Una razionalità che pre-determina sia il funzionamento del capitalismo (accrescimento e integrazione dei mercati e sussunzione dell’uomo de-socializzato/atomizzato nel mercato come mero homo oeconomicus), sia quello del sistema tecnico (accrescimento incessante della mega-macchina e integrazione e sussunzione in essa di ciascun homo technicus, de-socializzato ma connesso oggi grazie alla digitalizzazione delle masse atomizzate) – insieme formando appunto il tecno-capitalismo. Questo poteredella tecnica le sinistre continuano a non vederlo e quindi (Marx e Gramsci compresi, arrivando a Negri e alle sinistre antagoniste o all’accelerazionismo), sono da sempre cieche come una talpa, che però scava incessantemente a favore del tecno-capitale e del suo totalitarismo.
È dunque capace, almeno oggi, la sinistra – in realtà tutti noi – di vedere e di capire finalmenteche le macchine di oggi non sono quelle di un tempo, che la convergenza/integrazione tra macchine e uomini in megamacchine sempre più integrate è implicita (come quella dei mercati) nella razionalità strumentale/calcolante-industriale e che quindi la società amministrata e automatizzata dalle macchine, temuta dalla Teoria critica francofortese è ciò che il tecno-capitale ci impone anche oggi come un ulteriore dato di fatto a cui doversi solo rassegnare e adattare, rinunciando al libero arbitrio (e alla democrazia)? Con le imprese private e i governi privatizzati che propagandano incessantemente e pervasivamente narrazioni e immaginari collettivi solo tecno-entusiastici/ottimistici (si chiama human engineering), vedendo nel digitale e nella i.a. una autentica missione da compiere per il bene dell’umanità – in realtà per il profitto privato? Con anche la sinistra convinta che la transizione digitale sia necessaria per la transizione ecologica, senza capire la contraddizione che non lo consente, essendo il digitale/IA l’ultima forma del tecno-capitalismo alla sua massima potenza.
E perché la sinistra – e tutti noi – si è lasciata sedurre, negli anni ’90, dalla propaganda tecno-capitalista (“grazie alle nuove tecnologie entreremo in una nuova era, le crisi economiche saranno cosa del passato, lavoreremo meno e con meno fatica”), senza vedere che era solo un copia e incolla della propaganda degli anni ’40 (“i tecnocrati affermano che quando le loro teorie saranno tradotte in pratica le crisi economiche diventeranno una cosa del passato e tutto il meccanismo produttivo funzionerà alla perfezione” – Horkheimer). Senza vedere che era a sua volta un copia e incolla del positivismo ottocentesco (industria e società sono sinonimi, Saint-Simon volendo costruire una società scientifica, governata da scienziati e industriali, con la tecnica come organizzatrice della stessa società, intesa come mera unità industriale) – a sua volta copia e incolla della assolutizzazione della matematica secondo Cartesio e della fabbrica di spilli di Smith?
E perché la sinistra – e tutti noi – non capisce (eppure dovrebbe essere ormai evidente) che tra biosfera e società-libertà-democrazia da un lato e tecno-capitale (la razionalità strumentale/calcolante-industriale) dall’altro, vi è un conflitto strutturale – e lo aveva compreso già Marx (Musto, L’ultimo Marx; Sito, L’eco-socialismo di Karl Marx) –e insanabile e che quindi, se si vuole salvare la biosfera, la società, la libertà e la democrazia bisogna essere radicalmente anti-tecnocapitalisti? Perché la sinistra – e tutti noi – non vede che il capitale cerca sempre e in ogni modo di guadagnaretempo (Streeck), come dimostra il fallimento, deliberatamente ricercato dal tecno-capitale fossile, anche della COP28, già preparandosi per la successiva? E perché le sinistre non sono capaci di comprendere davvero – senza lasciarsi ancora catturare dall’ottimismo tecnologico del nuovo che avanza e che non si deve fermare (a prescindere dagli effetti che produce) – le trasformazioni imposte dalla tecnica (oltre che dal capitale) alla vita umana e alla biosfera? E che ci portano oggi a quella che definiamo società-fabbrica – la fabbrica come sublimazione della razionalità strumentale/calcolante-industriale-ecocida – dove tutti siamo forza-lavoro produttiva, consumativa e oggi generativa di dati, a mobilitazione totale, totalmente alienata e a pluslavoro (ed ecocidio) crescente? Ed è capace la sinistra di immaginare una lotta di classe – di tutti noi forza-lavoro di questa società-fabbrica – contro la classe delle macchine e non solo del capitale?
Ed è capace – ancora la sinistra, ma anche tutti noi – di vedere/capire che i processi di standardizzazione e di integrazione/sussunzione/omologazione tecno-capitalistica (dall’Osl di Taylor al consumismo, dai social alla IA e alla digitalizzazione delle massedi oggi) sfruttano a loro vantaggio l’inconscio umano che sempre ricerca – se non educato all’autonomia e alla libertà – uniformità, ripetitività, automatismi comportamentali e delega, offerti oggi dall’ordine e dai dispositivi della razionalità tecnica, ma conseguentemente negando a priori ogni possibilità di emancipazione e di libertà (pur in una società che deve credersi iper-individualistica) – altrimenti il gioco del tecno-capitale (prima atomizzare/isolare per poi integrare/sussumere meglio tutto e tutti in sé) non funziona?
No, non ne è capace. Dovremmo allora rileggere la prima Scuola di Francoforte. O Claudio Napoleoni, che scriveva, nel 1987: “il dominio va guardato in faccia per quello che è, non per quello che noi immaginiamo che sia”. Perché “c’è una malizia fondamentale della tecnica, una malizia intrinseca”; e il dominio delle cose sull’uomo acquista una forma diversa, “culminante nel modo in cui si presenta e viene esercitata la tecnica”. Per cui la questione – per la sinistra, “dove non c’è più l’abitudine a ragionare in grande, cioè per grandi problemi, per grandi prospettive, soprattutto” – è proprio ragionare prima sulla tecnica e sulle macchine che non solo sostituiscono l’operazione fisica del lavoro ma anche quella mentale, e poi su come “sistemarla [la questione della tecnica] sul piano teorico”. E si domandava: “Possiamo noi, può il partito comunista lasciarsi sfuggire questo punto”, ponendolo sul terreno programmatico e quindi “finalizzando il progresso tecnico […] ad altro che non sia il progresso tecnico e industriale, ponendo fine a quel modello in cui la produzione è finalizzata solo a se stessa e finalizza a se stessa il consumo e il costume di tutti quanti? Io non credo”. E neppure noi.
E dunque, è solo ripartendo da una presa di consapevolezza critica sulla tecnica – oltre che da una nuova consapevolezza critica sul capitalismo – che possono rifondarsi la sinistra e ciò che resta del marxismo, ma in realtà la società intera, convertendosi a una diversa razionalità, umanistica, ecologica e responsabile verso società e biosfera.
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