Sotto l’urto del crescere di divari e diseguaglianze sociali, in modo mai così rapido e profondo, il paese sta vivendo una spaccatura difficilmente recuperabile.
E il pericolo che viene dal consolidarsi di tali tendenze, di fronte alla incapacità di questo modello di società di assicurare ai più un futuro migliore, è quello di una progressiva e accentuata spinta alla riduzione e allo stravolgimento degli spazi democratici, con una verticalizzazione delle sedi di decisione e uno svuotamento di quelle di rappresentanza democratica, fino a una vera e propria crisi della democrazia. Tendenza quanto mai omogenea in Occidente e che fa il paio con il riaffermarsi della logica di scontro tra gli Stati e l’uso della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali.
Il primo voto di approvazione dell’Autonomia differenziata in Senato delinea un quadro di scelte che certo non vanno in controtendenza con questi assunti e anzi, in qualche modo, ne sono espressione, sia sul piano sociale che su quello istituzionale.
E a poco vale porre l’accento sul fatto che si tratti più che altro di una riforma bandiera, buona solo ad acquisire meriti da spendere in vista delle prossime elezioni europee; poiché, fin quando non si definiranno i Livelli essenziali delle prestazioni e non si individueranno le risorse necessarie nei fatti, accade ben poco.
E invece no. Perché quella che si delinea è una strategia che ha una sua coerenza, e anche, se in modo in alcuni casi raffazzonato, spinge per un paese nel quale i territori più forti e i più ricchi si ‘tengono il loro’ – salvo discutere su quanto questo ‘loro’ sia proprio ‘loro’ – e gli altri si arrangiano.
Si illude chi pensa che così l’Italia possa reggere: frantumata, è sconfitta certa per tutti. Con un Nord, nelle sue aree economicamente più forti, sempre più integrato in modo dipendente nelle aree forti dell’economia del continente e in primo luogo della Germania. Con un Mezzogiorno condannato all’inessenzialità dalla perdita progressiva del meglio delle sue energie e intelligenze giovanili, che si unisce al crollo demografico che già lo investe; grande bacino di consumo assistito e spazio fisico da occupare per le attività di una logistica in espansione con processi di turistizzazione e gentrificazione delle sue aree di pregio.
Senza considerare poi un altro dato di fondo per il Mezzogiorno. Il declino demografico e lo spopolamento dei suoi giovani più formati e preparati ha un grande impatto anche sui livelli di tenuta sociale e di vitalità complessiva. Se tu privi una comunità dell’impulso della sua parte più preparata, la privi anche di quella parte più propensa a fare società, a essere impegnata nel volontariato, a far crescere un più alto senso civico e di cura del pubblico. È capitale sociale che perdi, che in un corto circuito perverso indebolisce anche le prospettive e la qualità dello sviluppo economico.
E il persistere del peso dei poteri criminali nel Mezzogiorno è del tutto coerente con queste tendenze. Anzi, se non si riuscirà a invertirle, la camorra, la ‘ndrangheta, la mafia si candideranno sempre di più a un ruolo centrale nel Mezzogiorno del futuro, nella sua economia, nel suo welfare criminale.
Insisto: il progetto di autonomia differenziata si presenta come del tutto organico a queste coordinate ed è perciò che di fronte a esso dovrebbe levarsi un movimento di carattere generale.
Perché sembra stentare invece?
Oltre la metà degli ultimi 30 anni sono stati attraversati con le forze democratiche e di sinistra al governo del paese, seppur in combinazioni quasi mai lineari. E importanti regioni del Sud sono state governate in continuità o per anni non brevi da coalizioni di centrosinistra. E quindi, un discorso vero sul Mezzogiorno non può prescindere da un serrato vaglio critico dei limiti e degli errori della cultura politica e di governo delle forze democratiche a livello nazionale e a livello regionale. Compreso lo scenario della riforma del Titolo V della Costituzione.
Rendere esplicito questo dato è, a mio modo di vedere, una delle condizioni per rendere efficace la battaglia contro la vulgata della destra.
Così come è anche con il concorso dei governi a partecipazione del centrosinistra che il Mezzogiorno è stato derubricato come questione; che si sono consolidate velocità diverse di politiche e di finanziamenti; che la Sanità del Sud ha perso risorse, in un quadro di riduzione generale che ha toccato nel decennio 37 miliardi di euro. E, per rimanere in tema di sanità e salute, è difficile contestare che tutta l’impostazione del PNRR, operata non dalla destra, non ha colmato alcun divario, mentre, a proposito di condizioni materiali di vita, si è capovolto il trend sulle attese di vita e oggi, a differenza di un decennio e più fa, al Sud sono inferiori rispetto al Nord.
È evidente allora che una opposizione incisiva nei confronti dell’azione del governo di destra – che peraltro ha trovato un equilibrio dinamico a scapito del paese e delle sue istituzioni, una sorta di tempesta perfetta (avversa all’opposizione) per la realizzazione di premierato, (contro)riforma della giustizia e autonomia differenziata, in un tempo molto concentrato – presuppone un esplicito passaggio critico di questa storia e la messa in essere di un’altra strategia con una differente visione della società.
E rieccolo dunque, prepotente, il bisogno di politica, di una aggregazione di forze, di una loro messa in campo, dell’emergere di un discorso nuovo sull’Italia, sul suo futuro, sulla sua società, che dia forza ai tantissimi che vogliono contrastare questa deriva.
Ed è qui, e non di poco, che non ci siamo.
Ma è esattamente da qui che inevitabilmente occorre muovere per riaprire una prospettiva, nonostante tutto, possibile.
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