Per non arrenderci alla dittatura del presente abbiamo bisogno di sedi di confronto, abbiamo bisogno di elaborare una strategia alternativa, che non sia viziata dal tatticismo o dal “posizionamento” dei partiti. È necessario sostituire o almeno affiancare al moderno principe gramsciano (il partito) un centro sociale plurale. Di fronte all’incapacità dei partiti e dei movimenti di opposizione di elaborare una strategia comune spetta ormai alla società civile mettersi in gioco, per elaborare un’agenda sociale che sia in grado di contrastare il lento regresso che ha portato la peggiore destra a governare il Paese. Un’opera di supplenza? Può darsi, ma una strada obbligata visto il deserto nel quale siamo finiti. Un’attività al servizio delle stesse forze politiche organizzate, che devono essere spinte al confronto sui temi reali, costrette a uscire dai palazzi della politica e dalle autodistruttive battaglie interne, per giocare non più di rimessa, ma affrontare a viso scoperto le sfide difficili di un futuro possibile.
Guardare al sociale, ai bisogni di ciascuno e di tutti, mettere assieme le esperienze parziali che associazioni sparse, organizzazioni disperse, sindacati impegnati, gruppi culturali, un’intellettualità diffusa sono andati elaborando nel tempo, ma mai riuscendo a trovare una sintesi unitaria. Quando per una volta si sono unite, non spontaneamente, ma a seguito di una lunga opera sottotraccia di collegamento che ha ricercato il confronto e l’unità con le più diverse realtà, queste forze separate hanno dato il segno di una forte capacità di mobilitazione unitaria. Nella manifestazione organizzata dalla “Via Maestra” il 7 ottobre 2023 a Roma si è vista la forza non di un solo soggetto, neppure di un singolo sindacato – non solo la CGIL, che pure è stato l’azionista di maggioranza – ma di una moltitudine di associazioni che marciavano alla ricerca di una propria visione del mondo. Un “altro” mondo rispetto a quello imposto dalla quotidianità del reale.
Non è stato un coro stonato. E non era scontato.
Per un giorno almeno in una grande piazza romana – in un luogo simbolico e pieno di storia, San Giovanni – non si è solo riunita una folla arrabbiata, non si sono sentite solo urla di protesta, ma è emersa la chiara volontà di cambiare, indicando una rotta, la via da seguire. “Insieme per la costituzione” non è uno slogan, è un programma di riscatto. Individua l’alternativa che è possibile praticare, oggi. È anche la presa di coscienza che si è andati troppo oltre, dopo tanti anni di cedimenti, di un revisionismo allegro che ha eroso le basi un una cultura democratica e progressista, siamo ormai giunti a una svolta, forse a una rottura. Per le forze attualmente al potere la costituzione non è un problema, semmai un ostacolo da superare. Per le forze di opposizione deve diventare la leva per rimuovere le macerie del passato e costruire un futuro diverso.
Ma non basta la protesta di un giorno. Per nulla. Anzi proprio ora comincia la partita, quella più complicata, ora comincia la traversata. Percorrere la via maestra non sarà facile: è una strada controcorrente. Un cammino da fare assieme, senza fughe in avanti, ma anche senza arretramenti o titubanze, senza fermarsi. Nel rispetto delle andature di tutti, magari sollecitando i più pigri e gli incerti, ma senza troppo indugiare. Non si può rimanere fermi, siamo già dentro un vortice che ci sta trascinando sempre più lontano dalla nostra Costituzione, se non reagiamo ci troveremo ben presto troppo lontani dalla via maestra. Smarrita la strada, saremo perduti.
L’urgenza del provvedere – l’urgenza della lotta si sarebbe detto un tempo – ha indotto a riunire ancora, a Roma il 3 di febbraio, quello stesso popolo, quelle associazioni, che erano scesi in piazza. Un invito a pensare assieme. La risposta è stata – a mio modo di vedere – non scontata e di grande valore. Infatti, una cosa è marciare uniti, altra è parlare una medesima lingua. Si sa – ahimè – che spesso, troppo spesso, il mondo del progresso non riesce a trovare un linguaggio in comune, neppure quando cammina assieme. Invece, in questa occasione non solo i numeri dimostrano una volontà di condivisione (170 partecipanti in presenza, oltre 70 interventi svolti in tre gruppi di lavoro – “Welfare e diritti”, “Lavoro, ambiente, transizione giusta”, “Istituzioni, democrazia, comunicazione” – che hanno discusso con vivacità e tensione problemi reali alla ricerca di un terreno comune), ma anche lo spirito, il clima, mi è parso importante. Senza recriminazioni reciproche, nel rispetto delle diversità di ciascuno, nella convinzione di un’impresa comune, che non sarà facile definire, ma a cui non è possibile rinunciare. Un buon inizio. Ma solo un inizio.
Quel che mi è parso riunire le opinioni di tutti è la pericolosità della fase nella quale si trova il nostro Paese, in un contesto internazionale, peraltro, per nulla facile. Non solo una “crisi” da superare, ma una “rottura” da evitare. Il passaggio da una democrazia costituzionale, a una democrazia – qualcuno dice democratura – retta da altri principi, da un lato, quelli definiti dall’egoismo competitivo che caratterizza l’attuale disegno di trasferimento delle materie e dei relativi diritti fondamentali alle Regioni più ricche, lasciando al loro destino le altre; dall’altro, quelli che ruotano attorno all’ideologia del “Capo”, come è espresso dalla confusa e pericolosa proposta di elezione diretta del Presidente del Consiglio. Per questo – principalmente per questo – è apparsa chiaro che da qui bisogna iniziare per cercare di invertire la rotta e tornare sulla via maestra. Opporsi all’autonomia differenziata e al premierato per evitare il peggio.
Ma – e questo anche è un dato importante – non basta evitare il peggio se si vuole costruire il meglio. Anche perché per vincere le battaglie contro il regresso è necessario riuscire a convincere – anzitutto noi stessi – che ci sono alternative possibili. È per questo che non basta rifiutare l’autonomia differenziate, ma diventa necessario mettere in campo la nostra idea di regionalismo solidale; non basta opporsi alla democrazia del capo, ma bisogna riaffermare la centralità della rappresentanza democratica e del Parlamento come organo titolare della funzione legislativa che non può essere esercitata, se non eccezionalmente, dal governo. Uscire dunque dalla retorica dell’astratta governabilità per ritrovare la concretezza della rappresentanza politica.
Le idee cominciano a circolare, le buone intenzioni e la volontà di costruire si sono affacciate all’orizzonte. Si tratta ora di non fermarsi e trovare le forme organizzate per proseguire la strada. Il 2 marzo ci si rivede. Bisognerebbe fare un passo in avanti: dopo la piazza, dopo l’incontro, ora si tratta di individuare le forme e i modi per organizzare il cammino.
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