“Scrivere la vita di una donna” di Carolyn Heilbrun è stato un libro importante per il femminismo. Uscì nel 1988 (in Italia, per La Tartaruga, nel 1991) e parlava della necessità di scrivere biografie femminili veritiere, capaci cioè di restituire quell’esperienza vissuta che sfugge ai canoni e agli stereotipi cui le donne e le loro opere vengono assegnate, perché è proprio in questo scarto fra il canone e la verità dell’esperienza che risiede l’originalità e la creatività delle donne. Heilbrun lo scrisse a partire da sé, riflettendo sulla misoginia imperante nel mondo accademico che l’aveva costretta negli anni Sessanta a adottare uno pseudonimo, Amanda Cross, per firmare i gialli per l’appunto poco canonici che l’avrebbero resa famosa ma non si attagliavano al suo profilo ufficiale di cattedratica della Columbia University. E partendo da sé, Heilbrun indicava la pista giusta per scrivere la biografia di tutte quelle intellettuali femministe novecentesche che come lei hanno tradito i canoni disciplinari e accademici per una ricerca orientata dalla verità dell’esperienza femminile.
Quel libro mi è tornato alla mente pochi giorni fa, mentre ascoltavo l’intensa commemorazione di Gabriella Bonacchi che a un mese dalla sua scomparsa si è tenuta nella Fondazione Basso di Roma, dove Gabriella ha lavorato dai primi anni Settanta fino all’estate scorsa. E dove ha tessuto quella trama esistenziale che solo le donne sanno tessere, facendo continuamente la spola fra esperienza, sapere e politica e miscelandoli in un campo di eccedenze: eccedenza dai ruoli prescritti, dalle aspettative incombenti, dai confini disciplinari, dalle tappe curriculari. Anche nel lavoro intellettuale la differenza sessuale è sempre all’opera: gli uomini si specializzano, si identificano in un ruolo sociale, lavorano ciascuno per sé, accumulano meriti e titoli, scrivono libri compatti e costruiscono carriere coerenti, laddove noi donne vaghiamo fra saperi diversi in preda a curiosità incomprimibili, nutriamo imprese collettive, dissipiamo risorse e disperdiamo competenze, costruiamo contesti e relazioni; e proprio perciò seminiamo in modi e luoghi imprevedibili, lasciando tracce di noi alla decifrazione e al desiderio di genealogia di altre.
Di questa differenza Gabriella è stata una portatrice emblematica e consapevole, fiera ed estrema. Filosofa di formazione (all’università di Firenze, negli anni a cavallo del Sessantotto) diventò storica per scelta, senza mai rinunciare però al suo profilo precedente. Instradata verso l’accademia – grazie anche al suo lungo soggiorno di studi post-universitari in Germania, insieme con il suo compagno di vita e di lavoro Giacomo Marramao – non esitò a lanciarsi, grazie all’incontro fortuito e fortunato con Lelio Basso nel 1973, nell’avventura della costruzione della Fondazione; ma mantenendo con l’accademia un rapporto di signoria, che le ha consentito di tenere in piedi nel corso del tempo una rete imponente di contatti fra studiosi e studiose di mezzo mondo. Cofondatrice di Memoria, rivista pionieristica di storia delle donne che ha segnato la cultura del femminismo italiano degli anni ‘80, si è inoltrata in seguito con altrettanta passione in altri territori, dalla storia del diritto (Legge e peccato. Anime, corpi, giustizia alla corte dei papi, Laterza 1995) alla questione della cittadinanza (con Angela Groppi) ai problemi di bioetica (con Stefano Rodotà), sempre spinta da un intuito infallibile sulle frontiere emergenti del pensiero contemporaneo.
Si accavallano perciò ricordi di Gabriella diversi per stagioni e generazioni. Dalle sue collaboratrici di più antica data come Mariuccia Salvati e Angelina Arru, che la ricordano come giovanissima studiosa di Rosa Luxemburg, della crisi del 1929 e della socialdemocrazia tedesca e come organizzatrice delle memorabili “settimane marxiste” della Fondazione Basso, alle sue eredi prescelte come Chiara Giorgi, che sottolinea il “raffinato intreccio” di sguardi sul passato e sul presente e l’eleganza curiosa e multilingue con cui Gabriella costruiva i suoi “pensatoi”, o come Catia Papa che la ringrazia “per avermi autorizzata a parlare liberandomi dall’ansia della legittimazione accademica”.
Ma resta forse Memoria l’impresa che meglio restituisce la personalità di Gabriella. Quando la rivista nacque (1981, su iniziativa, con Gabriella, di Marina D’Amelia, Michela De Giorgio, Angela Groppi, Maria Luisa Boccia, Paola Di Cori, Yasmine Ergas, Margherita Pelaja, Simonetta Piccone Stella), la storia delle donne non esisteva come campo disciplinare riconosciuto. Non c’erano le fonti, sostenevano gli storici paludati, per ricostruire la storia di una parte dell’umanità esclusa dalla storia. Si trattava appunto di trovarle, cercandole in quella zona di confine e sovrapposizione fra privato e pubblico, personale e politico, singolare e collettivo, oralità e scrittura, generi e mentalità che la storiografia maschile non frequenta: “Ragione e sentimenti” titolava emblematicamente il primo numero della rivista, e altrettanto emblematicamente titolava Destino e carattere un bel saggio che Gabriella scrisse con Michela De Giorgio sul quarto numero dedicato alle politiche delle donne.
Ed è precisamente lì, all’incrocio fra destino e carattere, che ricordano Gabriella le amiche che condivisero con lei l’esperienza di Memoria, come riproducendo sulla sua storia singolare il metodo praticato sulla storia delle donne. Sì che insieme con il “destino e carattere di una combattente” (Michela De Giorgio), con l’“indomita progettualità di una esponente della nostra generazione” (Marina D’Amelia), con la capacità di indagare l’impatto dei grandi fatti storici sulle vite singolari (come Gabriella fece nel gruppo “Balena” ragionando sulla guerra in Kosovo, racconta Maria Luisa Boccia), vengono fuori altri e non meno significativi tratti della sua personalità: il suo anticonformismo eccentrico, il suo lato istrionico (“sembrava camminare sempre su un palcoscenico”), il piacere della conversazione con cui “monitorava le amicizie” (Gabriella Pinnarò), i suoi toni “mai moderati, sempre o sopra o sotto le righe”, la passione per l’arte e per il cinema (Maria Rosaria Ferrarese). E per la moda, perché per Gabriella tutto era segno e faceva segno, a cominciare dai vestiti che indossava, o dal repentino taglio di capelli con cui annunciò al mondo che era entrata con leggerezza adolescenziale nell’età matura (Benedetta Bini). È di tutti questi segni che è fatta la vita di una donna, ed è attraverso tutti questi segni che la si può riscrivere.
A rischio, naturalmente, di essere smentite. “Fosse stata presente, Gabriella non avrebbe resistito alla tentazione di intervenire per dire la sua”, sorride Giacomo Marramao – la sua metà, e mai espressione fu più appropriata che nel loro caso –, dopo aver ricordato che cos’era per Gabriella l’amore, “l’energia dell’incontro fra singolarità irriducibili”. Franco Ippolito, attuale presidente della Fondazione, conclude constatando quanti semi Gabriella sia riuscita a piantare, “nei libri e nelle relazioni, nella ricerca e nelle risate”. È consolante innaffiare tutti quei semi nella comunità delle amiche e degli amici, per quanto consolante possa essere testimoniare la vita di un’altra quando, come nel caso di chi scrive, si piange la perdita di una testimone della propria.
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