Intervento all’iniziativa organizzata dal CRS “Fare o disfare l’Europa”, tenutasi il 16 marzo 2024 a Roma.
In questo intervento vorrei affrontare il tema della lotta al cambiamento climatico nella prospettiva di una giusta transizione ambientale e sociale nel campo della mobilità e dei trasporti. Nel fare questo richiamerò l’approccio e le proposte dell’Alleanza Clima Lavoro, che è un tavolo di confronto e di iniziativa comune sulla transizione verso la mobilità sostenibile che riunisce organizzazioni ambientaliste e alcune categorie della CGIL.
Come sappiamo, il settore dei trasporti è estremamente rilevante per la transizione ecologica. In Europa vale il 5% del PIL e impiega più di 10 milioni di lavoratori. Il settore è responsabile di oltre un quarto delle emissioni di gas a effetto serra e di oltre il 30% delle emissioni di CO2. Più del 90% delle emissioni totali del settore è causato dal trasporto stradale. La decarbonizzazione dei trasporti è quindi una delle misure più urgenti per raggiungere gli obiettivi sul clima stabiliti con l’Accordo di Parigi e recepiti in Europa con il Green Deal e le successive normative. Così, per contribuire alla neutralità climatica entro il 2050, il settore dovrà ridurre del 90% le emissioni di gas serra rispetto ai livelli del 1990. Eppure, le emissioni dei trasporti sono più che raddoppiate dal 1970, e continuano tutt’oggi ad aumentare.
Ora, con il phase-out dei motori endotermici, dal 2035 le auto e i furgoni nuovi dovranno essere a emissioni zero. Inoltre, stanno per essere adottate nuove misure sui veicoli pesanti, con la riduzione delle emissioni di CO2 del 45% al 2030 e del 90% al 2040. Per diminuire l’impatto ambientale della mobilità di massa, l’elettrificazione del trasporto stradale – combinata a uno sviluppo massiccio della produzione di rinnovabili – rappresenta di gran lunga la migliore soluzione dal punto di vista dell’efficienza e della maturità tecnologica.
Non solo: su questo il mercato ha già scelto e si è mosso da tempo. Fornisco un dato eloquente in merito: il cumulato a livello mondiale degli investimenti su veicoli elettrici e batterie da parte delle maggiori case automobilistiche e imprese dell’automotive ha superato i 1.200 miliardi di dollari.
Dopo questo preambolo, veniamo all’Italia. Nel Piano Nazionale Energia e Clima si prevede una diffusione di oltre 6 milioni di veicoli ad alimentazione elettrica al 2030, con circa 4 milioni di veicoli elettrici puri. Ora, per consentire la ricarica di 6 milioni di auto elettriche servono 3 milioni di punti di ricarica privati e 200.000 pubblici. Ad oggi, abbiamo 50.000 punti di ricarica pubblici e 400.000 privati. Con un po’ di ottimismo, diciamo che il traguardo non è impossibile.
Il problema, piuttosto, è la penetrazione sul mercato delle auto elettriche. Il market share in Italia è al di sotto del 4%, e il parco auto full electric è circa l’1% del totale, con 220.000 unità. In Germania sono sei volte tanto. Peraltro, il mercato dell’elettrico da noi è in calo: nel 2022 le immatricolazioni sono scese del 27%, mentre gli altri grandi Paesi europei hanno registrato una crescita nell’ordine del 25-30%.
Perché avviene questo? In estrema sintesi, il nodo principale al momento è il costo eccessivo delle vetture elettriche. Come dato di contesto, ricordo che in Italia il prezzo medio d’acquisto di un’auto nuova – elettrica o endotermica – è cresciuto del 32% in 10 anni, mentre il potere d’acquisto di stipendi e salari è fermo al 1990. Oggi le case automobilistiche – almeno quelle europee – stanno frenando l’adozione dei veicoli elettrici perché non immettono sul mercato modelli economicamente accessibili nei tempi e con le quantità necessarie. C’è quindi una concentrazione sproporzionata dei produttori sui grandi SUV e sui modelli premium, con il risultato che abbiamo poche auto elettriche di massa e prezzi troppo alti. Ovviamente, la scelta di produrre questo tipo di vetture dipende dai margini di profitto delle imprese. Questo è un ottimo esempio di ciò che succede quando la transizione viene lasciata nelle mani del mercato.
E questo ci porta a considerare anche un altro ostacolo alla transizione, cioè le fibrillazioni dei lavoratori che temono di perdere il lavoro di fronte all’avvento della nuova motorizzazione elettrica.
Anche qui i numeri contano per capire l’entità posta in gioco. L’automotive vale il 7% del PIL dell’Unione europea e impiega direttamente o indirettamente 13 milioni di lavoratori, il 7% dell’occupazione totale. In Italia, il fatturato della filiera produttiva diretta e indiretta è nell’ordine dei 100 miliardi di euro l’anno, con un tessuto di 5.500 imprese e 270.000 occupati. Da noi i timori dei lavoratori, ovviamente più che legittimi, sono però strumentalizzati da una parte consistente del Governo e delle forze politiche di maggioranza, che agitano lo spettro dell’auto elettrica a fini puramente propagandistici.
Qui dobbiamo mettere in chiaro almeno due cose. La prima è che le più citate previsioni di caduta dell’occupazione nell’automotive – penso in particolare a quella più nefasta di 70.000 posti di lavoro in meno – si basano sul presupposto che non si adottino politiche e interventi correttivi. Queste previsioni per così dire “internalizzano” e proiettano nel futuro il costo dell’inazione. Ma questo aspetto viene trascurato proprio per alimentare strumentalmente la protesta contro la transizione.
L’altra questione riguarda il fatto che la crisi dell’auto in Italia – e questo va detto con forza – non dipende dalla transizione all’elettrico. Da oltre 20 anni assistiamo a un lungo declino produttivo e occupazionale. Siamo passati dal produrre un milione e mezzo di veicoli alla fine degli anni ‘90 ai 473.000 del 2022, con oltre 36.000 posti di lavoro persi in 30 anni.
Il principale imputato in questo caso è Stellantis, ex-Fiat, che, lo ricordo, è l’unico produttore auto nazionale, e come tale – di fatto – determina unilateralmente la traiettoria del settore. Secondo Federcontribuenti, dal 1975 al 2012 Fiat ha ricevuto dallo Stato italiano 220 miliardi di euro per cassa integrazione, sviluppo industriale, sussidi e implementazione degli stabilimenti. Oggi Stellantis ha circa 45.000 addetti in Italia; dal 2015 il personale è diminuito di oltre 11.000 unità. E ora sono all’orizzonte altri 2.000 tagli. Mentre si prevede che al 2030 i veicoli elettrificati prodotti da Stellantis copriranno il 70% delle vendite in Europa e il 40% negli Stati Uniti, Stellantis ha deliberatamente scelto di non puntare sull’elettrico in Italia, delocalizzando in molti altri Paesi: Algeria, Marocco, Polonia, Serbia, Brasile, per citarne alcuni. Vale la pena di ricordare anche che Stellantis ha chiuso il 2023 con un utile netto di quasi 19 miliardi di euro e con ricavi netti pari a 189 miliardi.
Riassumendo, siamo nel mezzo di una transizione alla nuova mobilità lasciata sostanzialmente nelle mani del mercato; e segnata peraltro da una crescente competizione internazionale e da una posizione di svantaggio tecnologico di Europa e Italia rispetto a Cina e Stati Uniti.
Detto ciò, e questo voglio rimarcarlo, la sostituzione dei veicoli inquinanti con quelli elettrici non è la soluzione al problema della transizione nella mobilità. È vero che il nostro parco di auto e mezzi commerciali in circolazione è fra i più vecchi e inquinanti d’Europa. Ma in Italia non solo abbiamo mezzi vecchi e inquinanti: ne abbiamo troppi, più di 40 milioni. E siamo il secondo paese in Europa per tasso di motorizzazione, con 663 veicoli ogni 1.000 abitanti. La Francia ne ha 482. Dovremmo dimezzare questi numeri per raggiungere gli obiettivi sul clima che ci siamo dati.
È evidente che serve un cambio di paradigma: da un’idea di mobilità centrata sul possesso e sull’utilizzo individuale del mezzo privato a una nuova idea di mobilità non solo elettrica, ma pubblica, integrata e condivisa. Non ho modo di affrontare qui nodi – pure cruciali – come quelli della sharing mobility e della cosiddetta MAAS-Mobility as a Service, che per affermarsi implicano peraltro un complessivo ripensamento del modo in cui progettiamo il tessuto non solo trasportistico, ma più in generale urbanistico, delle nostre città. E penso in particolare al tema della “città dei 15 minuti”.
Dirò invece qualcosa sul trasporto pubblico locale, a partire dalla constatazione che non c’è mobilità sostenibile e non c’è diritto alla mobilità senza un trasporto pubblico di massa efficace e non inquinante. Eppure il trasporto pubblico subisce il peso del cronico sotto-finanziamento del Fondo Nazionale Trasporti e di una drammatica disomogeneità nell’erogazione e nella distribuzione dei servizi e delle reti. Dal punto di vista dell’offerta di TPL, oggi abbiamo 6.000 posti-km per abitante al Nord e meno di 2.000 al Sud. Con la pandemia, poi, l’offerta è crollata in media del 22%.
Questo ci porta a considerare un altro aspetto dirimente, la cosiddetta mobility poverty. In Francia, si stima ad esempio che 3 milioni e mezzo di persone a basso reddito sono costrette a limitare la spesa per il carburante e gli spostamenti quotidiani, e oltre 4 milioni di persone non hanno l’auto o la moto e non sono abbonate al TPL. Per l’Italia, Legambiente ha elaborato un indice di precarietà della mobilità secondo cui quasi una persona su tre ha dovuto rinunciare ad almeno un’occasione di studio, lavoro, svago o visita medica per cause legate alla difficoltà negli spostamenti, come appunto il caro carburante, l’inadeguatezza del proprio mezzo di locomozione, la mancanza di alternative di trasporto pubblico.
Vado a chiudere. Siamo in forte ritardo. Senza un cambio di passo e di rotta, la transizione è a rischio: vale a dire che è destinata a fallire, oppure a realizzarsi con costi sociali insostenibili. Un cambio di passo e di rotta. Non solo dobbiamo accelerare per conseguire gli obiettivi di decarbonizzazione. Ma dobbiamo colmare una gravissima lacuna, cioè la mancanza di un governo della transizione.
Un governo che affronti cioè la complessità sistemica della transizione con l’idea che essa debba essere una leva anche per il lavoro e per i diritti, affiancando lotta al cambiamento climatico e lotta alle disuguaglianze. Un governo capace di agire sulla base di missioni, piani e programmi integrati e di cogliere in una chiave di condizionalità sociale l’intreccio tra le opportunità e i problemi ambientali, economici, occupazionali, sanitari che si pongono sul cammino della transizione.
Un governo, infine, che sia in grado di riequilibrare i rapporti di forza con il mercato e di creare un’armatura di consenso popolare attorno alla transizione e ai suoi obiettivi. Serve per questo un ruolo da protagonista per l’attore pubblico. Ad esempio, è evidente che se vogliamo sostenere una transizione giusta, è indispensabile un impianto di politica fiscale di segno fortemente progressivo e redistributivo, anche all’insegna del principio del “chi inquina paga”.
In quest’ottica dobbiamo riconvertire i Sussidi Ambientalmente Dannosi in Sussidi Ambientalmente Favorevoli, che solo per il trasporto valgono 13 miliardi e mezzo di euro l’anno. E dobbiamo rivedere il nostro sistema di incentivi auto, che non favorisce la decarbonizzazione, non modifica le scelte di consumo e non si estende come dovrebbe alle flotte aziendali. In Francia si sta sperimentando con successo il leasing sociale per l’auto elettrica per i meno abbienti, mentre noi abbiamo bruciato 4 miliardi di euro negli ultimi anni in sostegni mal pensati e mal calibrati.
E poi dobbiamo tornare a fare politica industriale per attrarre investimenti, per affiancare a Stellantis almeno un altro produttore in Italia, per sostenere le imprese nella loro riconversione e nel loro riposizionamento sui nuovi mercati e sulle nuove produzioni verdi per la mobilità elettrica, a cominciare da quelle della nostra componentistica.
Al contempo dobbiamo sviluppare la filiera dell’elettrico, e per questo non basta una sola gigafactory per la produzione di batterie, come quella prevista a Termoli. Siamo al palo sugli impianti per la raffinazione delle materie prime e per il riciclaggio delle batterie. E dobbiamo investire molto di più sulla ricerca e sviluppo in questo campo. Dobbiamo tornare a fare politica industriale anche per recuperare produzioni storicamente preziose per il Paese, come i treni e gli autobus, invece di importarli come facciamo oggi. Ad esempio, la produzione di autobus elettrici potrebbe favorire la decarbonizzazione delle flotte del TPL e dare linfa a una filiera che è passata dal produrre 4.000 mezzi nel 1998 a 150 nel 2019.
Infine, serve chiarezza sulle politiche per l’occupazione. Con la transizione alcuni posti di lavoro spariranno, altri si trasformeranno, altri ancora se ne creeranno e se ne potranno creare; e questo vale anche e soprattutto per i trasporti e l’automotive. Dobbiamo essere preparati e proattivi. Occorre una riforma complessiva del sistema degli ammortizzatori sociali, insieme a misure specifiche per la transizione che assicurino il passaggio a nuove professionalità. Dobbiamo implementare e finanziare in modo adeguato programmi di formazione e di riqualificazione. Non è possibile che i soldi del Fondo Nuove Competenze siano usati per pagare la cassa integrazione. E poi è arrivato il momento di rivendicare la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, per creare nuovi posti di lavoro, per aumentare la produttività del lavoro e – cosa non secondaria – per liberare tempo e spazi di benessere ai lavoratori.
Senza questo cambio di rotta – lo dico in modo brutale – non avremo né la transizione ecologica, né la pace sociale. Di fronte al rischio di un collasso ambientale e sociale, non vedo alternative se non quella di rendere la giusta transizione l’architrave e il faro dell’azione e del conflitto politico e sociale a livello nazionale e oltre, costruendo intorno a questa prospettiva una piattaforma programmatica e un blocco di forze progressiste capace finalmente di affermarsi, in Italia e anche in Europa.
Bibliografia di riferimento
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