Articolo pubblicato il 03.07.2024 su “Volere la luna“.
L’esito delle elezioni politiche del 2022 è anche l‘effetto della progressiva delusione dell’elettorato nei confronti della sinistra, che da tempo sembra avere rinunciato alla sua missione democratica: operare per la piena attuazione della Costituzione repubblicana, rappresentando tutti coloro che il neoliberismo penalizza con la compressione dei diritti sociali, la riduzione del welfare, la frantumazione di ogni solidarietà collettiva. Di ciò hanno approfittato le destre, che oggi realizzano le politiche che avevano promesso. Esse s’inseriscono nell’onda lunga del liberismo, che ha provocato disuguaglianze, disincanto e distacco dalla politica come esercizio democratico collettivo, e utilizzano il terreno abbandonato dalla sinistra, gli sbandamenti, i clamorosi errori, lo snaturamento della sua ragione sociale. Tra i tanti, basti un solo esempio: la politica dell’immigrazione. Quando il Governo di centrosinistra, nel 2017, stipulò un patto scellerato con le milizie libiche, spalancò la strada ai vergognosi accordi che le destre (italiane ed europee) realizzano con autocrazie, a danno dei migranti, condannati alle violenze dei campi di detenzione o al rischio di morte nel Mediterraneo.
Nessuna meraviglia, dunque, che oggi la destra al potere tenti di organizzare le istituzioni dello Stato in coerenza con la propria cultura e pratica politica, realizzando un obiettivo storico: mutare la forma di governo e quella di Stato, concentrando e verticalizzando il potere per esercitare il controllo autoritario della società. Per occultare tale obiettivo si esalta, come connotato di massima democraticità, la proposta di elezione diretta del Presidente del Consiglio. Ma la democrazia non è garantita solo dalle elezioni (che si svolgono anche in Russia e Turchia), bensì anche dalla esistenza di limiti al potere di chi comanda e di garanzie della libertà e dei diritti di ogni persona. Senza separazione dei poteri e senza reale garanzia dei diritti delle minoranze e delle persone, il potere della maggioranza tende a diventare dispotico.
Per paradossale anacronismo, viene proposto il presidenzialismo (sotto forma di premierato) quando i fatti ne evidenziano la crisi in ogni ordinamento democratico (dagli USA al Brasile e alla Francia). Le società conflittuali hanno bisogno di un garante per dare equilibrio al sistema. Il presidente eletto dal popolo non può essere garante, perché è il capo di una delle parti in lotta e accentua inevitabilmente la polarizzazione sociale. Per ridare linfa al sistema è necessario piuttosto rilanciare l’autonoma capacità legislativa del Parlamento e rivitalizzarne la funzione di controllo, cominciando dal ripristino della legge elettorale proporzionale per ridare effettività alla scelta agli elettori, il cui crescente astensionismo è anche legato alla attuale grave carenza di rappresentanza politica.
Se alla modificazione della forma di governo, che viola il principio di separazione dei poteri e comprime le garanzie, si aggiunge la modificazione della forma di Stato, realizzata attraverso l’autonomia differenziata, risulta palese lo stravolgimento della Costituzione repubblicana. Ignorando i rilievi critici di economisti e costituzionalisti e degli stessi organismi tecnici delle Camere e della presidenza del Consiglio, la destra ha realizzato quella frattura dell’unità dello Stato che la Lega persegue da 30 anni e che apre la possibilità, per le regioni più ricche, di accaparrarsi maggiori proventi fiscali a danno del Sud e con rottura di fondamentali principidi uguaglianza e solidarietà. Un altro paradosso, considerato alla luce delle drammatiche esperienze degli ultimi anni (dai fallimenti delle sanità regionali durante la pandemia ai disastri ambientali, dalla crisi energetica alle difficoltà dei trasporti…), che hanno palesato i guasti provocati dalla frammentazione regionale in questioni che hanno bisogno di impostazioni unitarie e coordinate a livello nazionale (e talvolta sovranazionale).
Siamo in presenza di una complessiva strategia, analoga a quella esperita in Polonia e in Ungheria, dove prese l’avvio con l’uso politico del linguaggio e l’invenzione dell’ossimoro “democrazie illiberali”, basate sulla costruzione di un nemico, reale o inventato, esterno o interno, individuato in chiunque non corrisponda all’immagine di chi appartiene all’immaginaria “nazione”, interpretata dal potere esecutivo. In questa spregiudicata mistificazione del linguaggi si giunge persino ad esaltare la democraticità dei populisti ostili allo Stato di diritto al fine di realizzare la “vera volontà del popolo”, interpretata dal leader. Un arretramento a culture nazionalistiche del secolo scorso, che rischiano di innescare conflitti esterni e discriminazioni etniche e razziste.
Tale strategia si sta sviluppando, con la concentrazione del potere nel capo dell’Esecutivo, con introduzione di norme e atti che incidono sulla qualità dello Stato costituzionale: modifiche normative che neutralizzano il Parlamento, atti e pratiche di compressione di diritti umani dei migranti e dei poveri, uso politico e discriminatorio tra “amici e nemici” della legislazione penale, censure alle libertà di pensiero ed emarginazione del dissenso, abuso della forza per impedire manifestazioni di proteste sgradite, critiche a giudici per interpretazioni normative legittime ma non conformi alle opinioni del governo, addebito alla magistratura di far perdere tempo all’azione di governo con proposizione di questioni pregiudiziali alle Corti sovranazionali, insofferenza verso controlli istituzionali della magistratura amministrativa e contabile e delle autorità indipendenti di garanzia.
Appare evidente che il modello polacco-ungherese costituisce per il Governo italiano un punto di riferimento e di ispirazione, per sintonia di vocazione nazionalista e sovranista. Non è difficile prevedere che il quadro è destinato a peggiorare, con la progressiva “conquista” della stampa per marginalizzare l’opinione pubblica critica e con l’accelerazione della “normalizzazione” della magistratura.
In questo quadro il Governo ha rilanciato il tema della separazione della carriere dei magistrati, occultando ideologicamente un dato di realtà: tale risultato è stato già realizzato dalla riforma Cartabia, che ha lasciato la possibilità di un solo cambio di ruolo, nei primi nove anni dall’ingresso in magistratura. Un altro paradosso: si dichiara di volere realizzare la separazione che è stata già fatta. In realtà, ciò che interessa all’attuale maggioranza non è certo inibire l’unica sussistente possibilità per il magistrato di mutare ruolo all’inizio del percorso professionale. Come per il premierato e per l’autonomia differenziata, ciò che sta a cuore alla destra è un risultato politico, che prescinde del tutto dal merito dei problemi che angustiano i cittadini e di cui, secondo Costituzione, è responsabile il ministro: tempi della giustizia e inefficienza della organizzazione giudiziaria.
La più radicale separazione delle carriere ben potrebbe realizzarsi mantenendo l’attuale composizione del CSM, che aumenterebbe anzi la sua valenza di organo di garanzia per assicurare il corretto esercizio delle funzioni giudiziarie a tutela dei diritti degli utenti della giustizia. La soluzione prospettata (doppio CSM, sorteggio asimmetrico per togati e laici, alta corte disciplinare estranea al CSM soltanto per i magistrati ordinari), fondata sulla delegittimazione della magistratura nelle sue espressioni istituzionali e associative, rivela che si vuole realizzare un’altra operazione di potere: rompere l’unità della magistratura e dell’associazionismo dei magistrati; depotenziare l’attuale CSM, duplicando gli organismi e accrescendo l’influenza dei membri designati dalla politica; in sintesi, indebolire la magistratura come contrappeso di potenziale controllo.
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