In un paese come l’Italia, che nella classifica mondiale sulla libertà di stampa si era meritato quest’anno il posto n. 46 su 180, l’inchiesta di Fanpage su Gioventù nazionale è molto più che un’ottima notizia. È un esempio di come potrebbe e dovrebbe funzionare la sfera pubblica in una democrazia mediatizzata, se l’informazione fosse più libera e più indipendente dalla politica e se il sistema politico fosse meno autoreferenziale di quanto solitamente non siano.
Lanciato e rilanciato per giorni e senza tregua in televisione da la 7, il viaggio “sotto copertura” di Fanpage nell’organizzazione giovanile di Fratelli d’Italia non ha solo illuminato una fetta della realtà che altrimenti sarebbe rimasta segretata, ha anche innescato un circolo virtuoso con le istituzioni: l’inchiesta è stata acquisita dalla Commissione del Senato contro l’Intolleranza, il razzismo e l’antisemitismo, e ha fatto irruzione sui tavoli della concertazione europea seminando più di un dubbio sull’affidabilità di Giorgia Meloni. L’opinione pubblica italiana ed europea ha dovuto prendere atto che il partito che governa l’Italia coltiva al suo interno una generazione di giovani quadri che praticano e rivendicano saluti fascisti e nazisti, esaltazioni del Duce e del Führer, dichiarazioni programmatiche razziste (“se mi stupra un nigeriano abortisco, ma solo se si tratta di un nigeriano”) e insulti antisemiti come quelli indirizzati perfino a una senatrice ebrea di FdI. Uno spaccato inquietante e desolante della cesura di memoria novecentesca che taglia politicamente e generazionalmente l’Italia di oggi, e che non risparmia la Germania, la Francia, i paesi dell’Europa centro-orientale. Uno tsunami culturale e politico inaggirabile, quali che siano in tutto il continente i responsi elettorali che escono dalle urne e le formule politiche inventate per arginare l’onda montante delle destre.
Inaggirabile alla fine anche per Meloni, che dopo una decina di giorni di silenzio assordante sul merito e di attacchi contundenti al metodo dell’inchiesta ha dovuto prendere formalmente le distanze dai suoi giovani militanti con una lettera rivolta ai dirigenti del suo partito. Nella quale, dopo un immancabile incipit auto-commiseratorio (“sono arrabbiata e rattristata….”), afferma che “non c’è spazio in FdI per posizioni razziste o antisemite, per i nostalgici dei totalitarismi del ‘900, per manifestazioni di stupido folklore”, dice che lei ha altro da fare che perdere tempo con chi “recita un copione macchiettistico”, ripete che FdI i conti con il passato li ha fatti da quel dì e in particolare nel 2019, aderendo “con totale convinzione” alla risoluzione del Parlamento di Strasburgo sulla memoria europea, quella che condannava pari e patta “tutte le dittature del ‘900”. E aggiunge che FdI non è più solo il partito della destra storica italiana bensì “il partito di tutti i patrioti italiani, a prescindere dalla loro provenienza politica”. Alla fin fine, dunque, per lei non c’è notizia: a parte i recitatori del “copione macchiettistico” che le ha rovinato l’immagine mentre lei trattava con i grandi della Terra al G7, Gioventù nazionale è “un movimento forte, sano, colorato, curioso e aperto”, e quanto alla collocazione di FdI rispetto al passato e al futuro “non c’è trucco e non c’è inganno”.
Non ci sarebbe notizia neanche per noi, che non da oggi sosteniamo che la risoluzione del 2019 con cui il Parlamento europeo equiparava nazismo e comunismo avrebbe spalancato le porte alla rilegittimazione della peggiore destra europea come forza che chiudeva col passato proiettandosi verso un glorioso futuro. Se non fosse che invece, ancora una volta, il trucco e l’inganno ci sono eccome, e non stanno solo nel pertinace rifiuto di Meloni di pronunciare la parola antifascismo, come molti le rimproverano illudendosi che possa mai farlo, né solo nella negazione ostinata dei fili che intercorrono tuttora fra il “copione macchiettistico” che va in scena negli scantinati di Gioventù nazionale e la cultura politica del “partito dei patrioti”.
Il trucco sta intanto nella consueta pratica del capovolgimento della frittata che la ditta Meloni & co. ha usato ancora una volta per ribaltare le proprie responsabilità in colpe altrui, attaccando di piatto il giornalismo d’inchiesta sotto copertura come “metodo da regime” e confondendo artatamente lo spionaggio di Stato e di governo contro l’opposizione politica con il doveroso controllo dell’informazione su chi governa e sta al potere. Una di quelle confusioni programmatiche che sono diventate la regola nella retorica della ditta, e che puntano deliberatamente a spingere l’opinione pubblica nella nebulosa passivizzante della dissonanza cognitiva – né più né meno di quanto ha fatto per quattro anni la retorica di Trump con l’opinione pubblica statunitense.
Si avvale del medesimo trucco l’argomento principe del tentato contrattacco scatenato da Meloni e dai suoi dopo l’inchiesta di Fanpage, argomento secondo il quale l’antisemitismo dei giovani “patrioti” sarebbe macchiettistico, mentre l’antisemitismo vero, quello da prendere e combattere sul serio, starebbe tutto a sinistra, da Melenchon e Corbyn (e Fratoianni, secondo il presidente della comunità ebraica milanese) ai centri sociali italiani ai movimenti pro-Palestina in tutto l’Occidente. E qui dal trucco passiamo all’inganno.
Meloni ha taciuto sulla prima parte dell’inchiesta di Fanpage, quella in cui si trattava di neofascismo, neonazismo e razzismo, e ha parlato solo dopo l’uscita della seconda parte, quella in cui si trattava di antisemitismo. La tempistica è tutt’altro che casuale: con ogni evidenza, tacere anche sulla seconda parte avrebbe comportato il rischio di un disallineamento dall’atlantismo fanaticamente filo-israeliano cui la politica estera di Meloni è saldamente ancorata. E che sta facendo della lotta all’antisemitismo il proprio mantra, il che sarebbe sacrosanto, spacciando però per antisemitismo – anche in questo caso artatamente – qualunque contestazione del Governo israeliano e qualunque manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese, il che invece è politicamente criminale oltre che criminalizzante nei confronti delle sinistre radicali e dei movimenti.
Attenzione, perché la materia è delicata e va trattata con molta cura. Il contrasto dell’antisemitismo è stato un pilastro della religione antifascista dell’Europa dopo la Seconda guerra mondiale. È vero che l’antisemitismo, ingrediente costitutivo del nazifascismo, è un virus che può presentarsi e si è presentato anche al di là del campo della destra. Ma capovolgerlo in una prerogativa della sinistra, assolvendone invece una destra che guarderebbe al futuro libera dal proprio passato, è una bestemmia inaccettabile, com’è inaccettabile fare della lotta a un antisemitismo inventato l’arma finale di un occidentalismo militarizzato e senza argomenti. Dopo la Seconda guerra mondiale ci vollero pochi anni perché negli Stati Uniti l’antifascismo volgesse in maccartismo. Oggi possono volerci pochi istanti perché il maccartismo diventi l’approdo del post-fascismo truccato da a-fascismo.
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