Articolo pubblicato su “L’Unità” il 17.07.2024.
C’è il rischio di un dispotismo di maggioranza? Pura propaganda, rassicura il Corriere, il quale si scaglia, con il premierato assoluto che incombe, contro le “argomentazioni retoriche” imbastite dalle opposizioni su una inesistente “deriva democratica”. Le penne di Via Solferino fanno a gara per sgonfiare i timori – a dire il vero, di quasi la totalità dei giuspubblicisti e anche del Colle – e certificare che il progetto della destra “è solidamente incardinato grazie a una maggioranza di voti alle Camere, come esige la Carta; e poi, sullo sfondo, resta comunque il referendum confermativo”.
A nulla varrebbe controbattere che pure il sistema del “Capo del Governo” negli anni Venti fu varato dalla maggioranza parlamentare, così come ampio fu il consenso di Montecitorio ai pieni poteri al Duce. Secondo il Corriere, le opposizioni dovrebbero smetterla con le loro lamentele perché l’argine a qualsivoglia abuso viene dal referendum costituzionale. Peccato però che proprio questo istituto di garanzia, con cui si consente al popolo di mobiliarsi per arrestare le manomissioni della Carta, abbia attirato le attenzioni del vicedirettore del quotidiano che ora esorta a farlo saltare. La madre costituente Meloni, celebrata non a caso dall’amministrativista Cassese come una statista di prim’ordine in grado di “apprendere fino in fondo la grande lezione del realismo togliattiano”, potrebbe conquistare, attraverso un accordo con i centristi, i due terzi dei parlamentari frustrando così sul nascere qualsiasi pronunciamento popolare sulla nuova Repubblica disegnata dalla fiamma tricolore.
Il referendum è raffigurato dal giornale milanese come un congegno pericoloso da annichilire a tutti i costi. Dietro il semplice sì o no alla riforma, si agiterebbe infatti “una sorta di Tribuno Collettivo” capace ogni volta di inaugurare “una Santa Alleanza” che prevale nelle schede vanificando qualunque ipotesi di rafforzamento dell’esecutivo. Antonio Polito corregge alcuni suoi precedenti abbagli ma continua a non voler capire che una trattativa per delineare la legge elettorale o il potere di scioglimento – in Regno Unito peraltro non è affatto, come invece lui crede, una riserva personale del Primo ministro – lambisce solo aspetti secondari del piano della destra. Se non cade il dispositivo per cui eleggendo direttamente un vertice monocratico (esecutivo) si nominano anche i suoi deputati (legislativo), il dialogo diventa mera complicità: in nessun ordinamento contemporaneo è recisa in maniera tanto radicale la base minima della divisione dei poteri.
Ciò che il mediatore Polito non afferra, nella filosofia del futuro regime del capo, è che la riforma intende estirpare l’incertezza fisiologica – per definizione presente in ogni formula elettorale – che rende sempre imprevedibile il confronto e per niente scontato il vincitore. La macchinosa fabbricazione di una maggioranza certa alla Camera e al Senato, il nucleo della “madre di tutte le riforme”, è un’aberrazione giuridica che tramuta il testo già approvato in prima lettura in una esplicita aggressione ai valori indisponibili della Repubblica. Appaiono perciò incomprensibili i reiterati inviti dei pontieri, incoraggiati dal Corriere e da la Repubblica, affinché le opposizioni smobilitino. Paradossalmente proprio gli attuali conciliatori riformisti furono coloro che in prima persona impallinarono il premierato forte quando venne ideato nella Bicamerale D’Alema. Adesso, per infastidire il PD, arruolano Cesare Salvi, il relatore di allora, e sposano le carte che loro stessi strapparono platealmente votando in commissione addirittura in dissenso dal partito.
Se il “Tribuno Collettivo” inquieta le anime belle, al Corriere conviene meditare su quanto dichiara, tra un rosario da quindici poste e l’altro, un moderato come Cirino Pomicino: “Chi toglie la libertà al Parlamento prima o poi la toglie anche al Paese. Come fece Mussolini. Gratti i Fratelli d’Italia e trovi i post-fascisti”. Cancellare la funzione fondativa del Parlamento, che a quel punto non godrà più di un’autonoma elezione, non disporrà del vincolo fiduciario con il Governo e non controllerà in alcun modo efficace l’esecutivo, non può essere chiamato altrimenti che “democratura”: un proposito che dai riti di Colle Oppio riconduce al sogno del balcone. Se capo di Governo e Parlamento non tornano a essere poteri distinti che rinviano a momenti diversi di investitura, e quindi non organi espressi con una mega scheda unica, l’opposizione non ha altra scelta che quella delle barricate referendarie in difesa del principio aureo della separazione dei poteri.
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