L’elezione diretta del capo dell’esecutivo (in genere il Capo dello Stato, nel nostro caso il c.d. Premier) è il classico strumento che viene introdotto per accrescere l’autorevolezza e i poteri di un leader che ha acquisito notevole popolarità (vedi de Gaulle, Erdogan, ecc,); in secondo luogo può costituire un utile correttivo alla forma di Governo parlamentare quando i contrasti fra i partiti e la fragilità delle coalizioni causino frequenti crisi di Governo e compromessi al ribasso nella definizione e realizzazione dei programmi. Questa seconda finalità viene naturalmente messa in primo piano dai proponenti, senza che l’altra sia necessariamente assente.
Il progetto di riforma Casellati va ben al di là di un rafforzamento della governabilità, poiché libera la figura del Presidente del Consiglio da vari contrappesi. Si è parlato soprattutto del Presidente della Repubblica, ridotto a funzioni poco più che notarili. In effetti viene privato dei suoi ruoli più significativi: a seguito di elezioni parlamentari condurre consultazioni e individuare la personalità in grado di far convergere su di sé una maggioranza parlamentare; e, in caso di crisi di Governo, decidere se sciogliere il Parlamento (questa facoltà passa ora al Premier dimissionario) o tentare una nuova formula di Governo (gli resta solo, se il Premier non si avvale di quella facoltà, la scelta fra incaricare il dimissionario di formare un nuovo Governo o dare l’incarico, ma una volta sola nella legislatura, a un altro parlamentare della stessa coalizione). Rimane ben poco di quelle funzioni di mediazione di cui può fare a meno un sistema politico bipolare, non un sistema multipartitico in cui nessuna formazione si avvicini alla maggioranza assoluta (si pensi alla situazione francese dopo le ultime elezioni!) e sia quindi necessario negoziare compromessi sui programmi e sulle cariche.
Eliminando tali meccanismi, questo progetto di riforma annulla l’essenza stessa del parlamentarismo, che è di trovare una sintesi fra gruppi parlamentari che rappresentino insieme la maggioranza dell’elettorato. In una democrazia di tipo parlamentare (a differenza del modello americano di netta separazione dei poteri) il capo del Governo è espressione del Parlamento, ma ne è anche condizionato: ne deve ottenere, e può perderne, la fiducia. Formalmente questo istituto viene mantenuto, ma quasi interamente svuotato: il Parlamento si guarderà bene dal negare la fiducia al Presidente del Consiglio neo-eletto o, in seguito, ad approvare una mozione di sfiducia, perché sarebbe come fare harakiri; la conseguenza automatica sarà infatti il suo scioglimento. Anche questo contrappeso viene dunque eliminato, di fatto, dal progetto Casellati: il Premier è blindato per 5 anni, ed è lui/lei a disporre di un potente mezzo di pressione sui parlamentari, avendo il potere di sciogliere le assemblee in tali evenienze, e in qualsiasi altro momento (come lo hanno, si è visto recentemente, il Presidente francese e il Premier britannico).
L’omogeneità politica fra gli organi esecutivo e legislativo è assicurata, come in altri sistemi costituzionali, dalla contemporaneità delle rispettive elezioni. In USA, Germania e Francia lo è in larga misura ma non in modo assoluto (per cui a volte è inevitabile la cohabitation); nel caso in esame, invece, verrà garantita in modo meccanicistico dal collegamento fra una lista e un candidato-Premier e dal premio che trasformerà una maggioranza relativa (cioè una minoranza) in maggioranza assoluta con un comodo margine. Non avremo più un capo del Governo espressione della maggioranza parlamentare ma viceversa.
Per effetto del premio, potrà essere eletto (al settimo scrutinio) un Presidente della Repubblica scelto dal Premier e non rappresentativo della maggioranza degli elettori. Il primo sarà perciò asservito al secondo. Il suo potere di scegliere un terzo dei componenti della Corte costituzionale verrà esercitato secondo le indicazioni del Governo, indebolendo così l’indipendenza di quell’organo. In più verrà privato del potere di nominare alcuni senatori a vita; questo è presentato come un elemento essenziale del disegno di legge costituzionale, tanto è vero che figura nel titolo, insieme alla finalità di rendere più stabili i governi. Non scompare del tutto la funzione di moral suasion , in quanto il Capo dello Stato conserva la facoltà di rinviare le leggi alle Camere o far loro pervenire dei messaggi.
È evidente come elementi fra i più discutibili della riforma – premio di maggioranza, soglia per ottenerlo – dipendano da disposizioni della futura legge elettorale, annunciati ma non definiti. Rimandarne la precisazione serve a lasciare in ombra difetti fondamentali del progetto. Ad esempio, supponendo che la soglia venga fissata al 40%, cosa succederà se il blocco vincente si fermerà al 35% e altri due avranno il 30% ciascuno? Non a caso la Costituzione francese prevede sia per il Presidente che per i membri dell’Assemblea il doppio turno. Giorgia Meloni si è chiaramente pronunciata contro il ballottaggio; e anzi ha manifestato l’intenzione di abolirlo anche per l’elezione dei sindaci.
In questo modo il progetto di riforma sacrifica uno dei due principi guida da esso stesso proclamati, la rappresentatività, a favore dell’altro, la governabilità; e si pone quindi fuori del perimetro dei modelli pienamente democratici. Persino il sistema britannico, spesso criticato per il metodo di elezione dei deputati poco rispettoso del criterio di proporzionalità (first past the post, cioè a maggioranza relativa in collegi uninominali), non esclude del tutto l’eventualità che il Premier, in mancanza di una maggioranza assoluta ai Comuni, sia costretto a formare una coalizione o un patto di astensione con un terzo partito (vedi il Governo Lib-Lab del 2005).
Rispetto al progetto in esame, la riforma adottata da Israele nel 1992 e abolita nel 2002, unico precedente di premier direttamente eletto, aveva almeno il vantaggio, in termini di rappresentatività, di una elezione strettamente proporzionale dei deputati e del ballottaggio fra i candidati premier.
La narrativa di Giorgia Meloni pretende di offrire una forma rafforzata di sovranità popolare, espressa direttamente anziché attraverso i rappresentanti eletti (come vorrebbe la logica del sistema parlamentare). In realtà l’elettorato si spoglierebbe per 5 anni di ogni possibilità di influire sull’operato del Governo attraverso i propri rappresentanti (abbiamo visto che la mozione di sfiducia è congegnata in modo da essere improponibile). Verrebbe così a cadere anche questo contrappeso costituzionale. Avremmo dunque un capo del Governo dotato di ampi poteri (revoca dei ministri, scioglimento del Parlamento) e scarsissimi checks and balances, in sostanza inamovibile e quindi libero di compiere atti arbitrari e nocivi per l’interesse nazionale, senza alcun disincentivo nel caso che non aspiri alla rielezione o sia al suo secondo mandato.
In passato i fautori di un rafforzamento del capo dell’esecutivo hanno proposto un sistema “semi-presidenziale” alla francese, che infatti figurava anche nel programma elettorale del 2022. Ma lo spettro di una costituzione “gollista” ha sempre suscitato una diffusa avversione. Si è perciò provato a vendere all’opinione pubblica una formula inedita, sotto una etichetta (“premierato”) che evoca il modello britannico e (nella desinenza) un omaggio a quello tedesco, presentandola come meno radicale, in sostanza rispettosa dell’impianto generale della Costituzione del 1947. La Relazione afferma che si è seguito il criterio di modifiche “minimali” alla Costituzione, e che si sono volute “preservare al massimo le prerogative del Presidente della Repubblica”. Ma la realtà è ben diversa.
Nella Costituzione francese del 1958 il potere è diviso fra due figure: il Primo ministro è, sì, scelto dal Presidente della Repubblica eletto dal popolo, ma non è solo la sua longa manus. Attraverso i ministri, prepara i testi legislativi. Ha dalla sua parte l’Assemblea, che vota il bilancio. Persino nel settore Esteri-Difesa, spesso erroneamente definito suo domaine réservé, il Capo dello Stato divide il potere con i rispettivi ministri, i quali controllano gli apparati diplomatico e militare; a Bruxelles lui rappresenta la Francia nei vertici (Consiglio Europeo), ma in Consiglio dell’UE siede il Ministro degli Esteri (o, a seconda delle materie, altri ministri). Abbiamo visto che quando si profilava una cohabitation conflittuale fra Macron e Bardella, il secondo aveva accennato alla pretesa di prendere il posto del primo anche nei vertici europei.
Esiste questo dualismo, sia pure a parti invertite, nel progetto Casellati? No. Qui il capo del Governo, come in Francia il Capo dello Stato, fonda la sua preminenza sull’elezione popolare e sul potere di sciogliere il Parlamento; d’altra parte, come il Primo ministro francese, controlla la legislazione e la distribuzione delle risorse attraverso i ministri e la maggioranza parlamentare. L’altra figura di vertice, l’inquilino del Quirinale, non costituirà alcun argine al suo potere, avendo funzioni più che altro formali. Altra differenza fondamentale è il secondo turno elettorale, che assicura al Presidente francese la legittimità derivante dalla maggioranza assoluta dei voti popolari, laddove l’esclusione del ballottaggio permetterebbe al nostro Premier di farsi eleggere a maggioranza relativa. Lo stallo verificatosi nella politica francese a seguito delle elezioni del giugno scorso ha fatto emergere la necessità di non escludere l’opzione del Governo tecnico, che è invece uno degli obiettivi dichiarati della riforma.
La pretesa di far apparire questo schema di “democrazia di investitura” (il termine figura nella Relazione) come compatibile con i principi della democrazia parlamentare si fonda sulla analogia – a cominciare dal titolo del Capo del Governo – con il modello inglese. In effetti, anche la Gran Bretagna, delle cui credenziali democratiche non si può dubitare, ha un Capo dello Stato ridotto a funzioni puramente cerimoniali e un forte accentramento del potere nelle mani di un Primo ministro che può a suo piacimento revocare i ministri e sciogliere il Parlamento e che, grazie al già citato metodo elettorale, non dispone necessariamente dei consensi della maggioranza della popolazione. Non possiamo però ignorare che la costituzione materiale (l’unica esistente) della patria del parlamentarismo ha progressivamente appiattito il ruolo della Camera dei Comuni, ormai subalterna al Premier. Imitarla significa allontanarsi dal modello di Repubblica parlamentare voluto dai nostri Costituenti, caratterizzato da un equilibrio fra i poteri e chiaramente più adatto ad un sistema pluripartitico quale è il nostro.
Il sistema britannico ha a lungo funzionato perché basato sulla dialettica fra i due partiti tradizionali. In un simile sistema bipolare è normale che dopo una elezione parlamentare il leader del partito vincente riceva automaticamente l’incarico di formare il Governo e possa contare sulla maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni (non necessariamente, dicevamo, nell’elettorato), mentre quello perdente costituisce l’Opposizione di Sua Maestà e forma un “Governo ombra”.
Ma anche questo sistema che privilegia la governabilità e la solidità dei governi consente il ricambio del capo dell’esecutivo quando questi si riveli inadeguato, senza dover sciogliere il Parlamento. In questo caso – ricordiamo la maldestra Liz Truss, detronizzata dopo 45 giorni di regno nel 2022 – il gruppo parlamentare di maggioranza individua una rosa di candidati alla successione, fra i quali gli iscritti al partito (cento-duecento mila persone) scelgono il nuovo Primo ministro. Un metodo non pienamente democratico, ma comunque una valvola di sicurezza per l’evenienza di un Premier che abusi dei suoi poteri o imponga al Paese scelte di politica economica disastrose (si pensi anche all’argentino Milei) o lo porti a un conflitto aperto con Bruxelles o Washington. Con la riforma Casellati una Liz Truss italiana sarebbe rimasta al potere per 5 anni.
La costituzione tedesca è quella che assicura in modo ottimale la stabilità dei governi, attraverso la regola del “voto di sfiducia costruttivo”, ma anche la loro piena legittimazione popolare grazie al sistema proporzionale per l’elezione dei deputati e al requisito della maggioranza assoluta dei membri del Bundestag per l’elezione del Cancelliere. Il divieto di sfiduciare il Governo in carica in mancanza di una soluzione di ricambio già pronta (voto “costruttivo”) annulla il ruolo del Presidente della Repubblica nel risolvere le crisi, anzi annulla o quasi la probabilità che tali crisi si verifichino: è successo solo una volta, nel 1982.
Rimane invece intatto il ruolo del Capo dello Stato nell’affidare l’incarico di formare un nuovo Governo, previe consultazioni con i gruppi, a inizio legislatura: ruolo essenziale in ogni sistema di tipo parlamentare pluripartitico, dovendosi non semplicemente constatare chi ha la maggioranza relativa ma individuare una possibile coalizione capace di ottenere la maggioranza assoluta. Qualora il candidato così prescelto dal Presidente non ottenga tale maggioranza, il Bundestag ha 14 giorni per accordarsi su un altro nome e votarlo, sempre a maggioranza assoluta dei seggi. Se anche questo tentativo fallisce, propone un candidato scelto a maggioranza relativa, ma il Presidente può optare fra nominarlo Cancelliere o sciogliere il Parlamento.
L’autorevolezza del Cancelliere si basa sulla formalizzazione del potere di determinare l’indirizzo politico, la quasi certezza di non essere spodestato nel corso del quinquennio e la facoltà di licenziare i ministri (tre elementi su cui sembrerebbe ragionevole trovare un compromesso con Giorgia Meloni). Il Presidente della Repubblica federale ha, come si è visto, un ruolo politico dimezzato rispetto a quello del suo omologo italiano, ma non è una creatura della “maggioranza del Premier” come sarebbe (dopo il sesto scrutinio) nel progetto Casellati. Viene infatti eletto da una apposita assemblea costituita solo per metà dai deputati.
In conclusione, appare evidente che il progetto di riforma all’esame del Parlamento non costituisce una semplice modifica dell’attuale assetto costituzionale, ma mira a instaurare una nuova forma di Governo. Ci si può domandare se compatibile con lo spirito della Costituzione del 1947: i padri costituenti con l’art. 139 hanno escluso la possibilità di modificare la forma repubblicana; ebbene, abbandonare l’essenza del parlamentarismo, che è la formazione di governi per lo più di coalizione in base alle aritmetiche parlamentari emerse dalle elezioni (e non viceversa) è una riforma ben più radicale che un ipotetico ritorno alla monarchia (basti pensare che in Spagna, Olanda o Belgio la democrazia parlamentare usa gli stessi meccanismi come oggi da noi). Tecnicamente qualsiasi altra riforma può essere adottata applicando l’art. 138, ma politicamente l’analogia con l’art. 139 suggerisce che per cambiare la forma di Governo si richieda un più alto grado di consenso. È una operazione che per sua natura non può essere affidata esclusivamente a una maggioranza parlamentare (salvo un potere di veto lasciato all’elettorato), ma richiederebbe una assemblea ad hoc, costituita da deputati, giuristi, e rappresentanti della società civile, che rediga un progetto da sottoporre alla procedura dell’art. 138.
Le obiezioni espresse da una schiera compatta di costituzionalisti non sembrano aver intaccato la determinazione di Giorgia Meloni nell’andare avanti con questa sua riforma-bandiera. Tanto più che i due alleati hanno ottenuto le riforme a loro care: autonomia differenziata (Lega) e depenalizzazione di reati legati alla corruzione e separazione delle carriere dei magistrati (FI) malgrado le proteste, rispettivamente, di alcune regioni e dei giudici. Avranno maggiore effetto le critiche chiaramente espresse dalla Commissione di Bruxelles? Sarebbe logico aspettarselo, ma il voto contro Ursula von der Leyen, la polemica lettera inviatale dalla Presidente Meloni e l’avvicinamento a Orban non sono di buon auspicio.
Molto dipenderà dalla capacità di mobilitare l’opinione pubblica che le opposizioni dimostreranno nella campagna referendaria contro la legge sull’autonomia differenziata e le conseguenti previsioni sul referendum confermativo della riforma costituzionale. Considerando però che in questo caso (a differenza dei referendum abrogativi) non c’è un quorum sulla cui mancanza puntare, il Governo dovrà in ogni caso prendere in seria considerazione una correzione di rotta. Forse per questo si parla ora di un rallentamento dell’iter.
Una opzione minima è quella di ricercare un compromesso offrendo una serie di correttivi: soglia alta (45%?), premio di maggioranza contenuto (5-6%?), ballottaggio se la soglia non è raggiunta, possibilità di Governi tecnici se necessario, mantenimento dei senatori a vita, un collegio più ampio per eleggere il Capo dello Stato affinché non sia una creatura della maggioranza al seguito del Premier, ecc. Gli stessi giuristi governativi non potranno fare a meno di denunciare alcune ovvie incongruità del testo attuale. Anzitutto la procedura di sostituzione del Premier in caso di sue dimissioni o decesso nel corso del quinquennio: nominare “Premier subentrante” un parlamentare qualsiasi purché del suo stesso partito confligge col principio stesso della legittimazione di un Premier con ampi poteri attraverso l’elezione diretta. E il problema della fissazione di una soglia per l’elezione diretta che sia in linea con le sentenze della Corte Costituzionale e quello del secondo turno nel caso che tale soglia non sia raggiunta dovrà pur essere affrontato, in sede di stesura della nuova legge elettorale, prima di continuare l’iter parlamentare della riforma costituzionale.
I correttivi potrebbero non bastare. Se i sondaggi segnaleranno una netta contrarietà al progetto nel suo insieme, non è da escludere una netta inversione di rotta. Si potrebbe andare da un suo congelamento sine die a una fuga in avanti con la riproposizione del modello francese che, come abbiamo visto, comporta in realtà checks and balances assenti nella riforma Casellati ma che ha scarse probabilità di ricevere una migliore accoglienza. Una soluzione di ripiego potrebbe essere il modello austriaco: elezione diretta del Presidente della Repubblica, teoricamente dotato di notevoli poteri (licenziare il Governo, nominare i membri della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato, emettere provvedimenti di emergenza, ecc.) ma nella prassi non più interventista del nostro Presidente.
Una soluzione molto più soddisfacente dal punto di vista di Giorgia Meloni sarebbe il cancellierato alla tedesca: un capo dell’esecutivo forte, praticamente sicuro di rimanere in sella per tutto il quinquennio anche se la coalizione di cui è a capo scricchiola o scende nei sondaggi a livelli molto bassi (vedasi la situazione attuale del Governo Scholz), legittimato da una legge elettorale che garantisce il consenso della maggioranza assoluta dell’elettorato almeno al momento del suo insediamento. Un modello prestigioso che metterebbe al riparo dal pericolo di essere tacciati di deriva orbaniana, tentazioni plebiscitarie, legge truffa, ecc. Unico difetto: essere stato proposto dall’opposizione. Se si potesse superare questa pregiudiziale, sarebbe l’uovo di Colombo.
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