Democrazia, Politica, Temi, Interventi

Per pura puntigliosità e pignoleria innanzitutto va detto, con la stessa sollecitudine e soddisfazione di chi si toglie una lisca di pesce incastrata fra due denti, che la parola premierato è ambigua, furbastra, contraddittoriamente tautologica e un poco sciatta. Ma, come può accadere a molte parole nate in modo approssimativo, fuorviante o addirittura becero, essa è entrata nel linguaggio del diritto e della politica. In questo linguaggio essa svolge un ruolo approssimativo che non mostra il senso di ciò che dovrebbe mostrare. È anche, cosa che trovo sommamente sgradevole, una parola di ritorno: qui era nata, dal latino primus, primatus e si era trasferita nelle altre lingue per poi ritornare indietro imbastardita perché mostra quella che potremmo definire una funzione, ma non il vero senso della funzione stessa. Suppongo che esistano parole più idonee a esprimere il concetto: primarchia, per esempio, o meglio ancora primocrazia. Ma ho il vago sospetto che queste parole siano sentite come troppo severe nel loro vero significato, e che sia opportuno quell’infingimento che consiste, come dire, nell’addolcire la pillola. Tuttavia, lasciatemelo confessare, io trovo offensivo che il ruolo del governante sia definito dalla parola premierato, parola sbilenca ed edulcorata da troppi viaggi di vai e vieni, invece che fluita direttamente dai ruscelli delle nostre lingue madri.

Al di là di tutto il gran parlare di giuristi, costituzionalisti e giornalisti cartacei e digitali, il modo con il quale viene proposta la riforma del primarcato o della primocrazia è estremamente semplice e seducente e consiste nella domanda: non è più giusto che sia il popolo (il cittadino, l’utente, il cliente, ormai vi sono tanti modi per definirlo) a decidere chi lo deve guidare al governo? Tutti i temi sul tappeto (primato del Parlamento, ruolo del Capo dello Stato e via dicendo) sono svuotati da questa domanda alla quale è impossibile rispondere di no. Immagino che, se dipendesse dai cittadini e dagli uomini di intelletto, sarebbe giusto votare tutti: Presidente della Repubblica, deputati, senatori, sindaci, presidenti di Regione, magistrati, prefetti, questori, capi della polizia, generali… Ma alla fine qualcuno deve governare, e se devi governare trovando il consenso di tutti coloro precedentemente nominati rischi di governare a passo di lumaca mentre il mondo va a passo di corsa. Occorre che qualcuno possa dire: siete tutti rappresentanti del popolo, ma il popolo ha detto a me, il primocrate, che devo governare.

Non bisogna avere timori, si cancellino dalla memoria i fantasmi e i ricordi ormai arcaici di marce su Roma o assalti al Palazzo d’Inverno o quelle vicende analoghe che hanno funestato lo scorso secolo e anche questo, qua e là. La democrazia ha suffumicato il pianeta e ha dissolto quegli ectoplasmi che si dicevano avanguardie di questo o di quest’altro popolo, o di quella classe sociale, o di quel luminoso destino, guardie rosse o nere, minoranze consapevoli del popolo inconsapevole, minoranze che con le mattanze divenivano maggioranze.

Occorrono ormai calma e avvedutezza e accortezza. Occorre innanzitutto far vincere l’ossimoro, renderlo accetto e comune come una qualsiasi banalità. L’ossimoro come manganello che spezza non le reni ma le civiche menti.

Chiosa elogiativa dell’ossimoro. Che non è, si badi bene, quella banale, tenebrosa e un poco patetica figura retorica che consiste nell’accoppiar parole che fra loro apparentemente confliggono – silenzio assordante, lucida follia, doloroso piacere – ma è un’attitudine curvilinea, sbilenca, zigzagante del pensiero, che nel suo manifestarsi inconsciamente truffaldino tenta di far conciliare fra loro cose inconciliabili, giungendo all’esaltazione dell’ossimoro. Far apparire armoniche cose fra loro inconciliabili non è arte dei tempi nostri, è anzi arte antica, antichissima del pensiero occidentale, che nella sua essenza è bipolare, e vi si sono cimentati tutti. Dai poeti ai filosofi e politici e teologi e santi. Mostrare, per esempio, difensiva una guerra offensiva non è una turlupinatura dei tempi attuali, ci avevano già pensato Sant’Agostino, San Tommaso e Francisco de Vitoria, che non era santo ma era domenicano e i domenicani, ci spiega la storia, di tanto in tanto hanno avuto tendenze sanguinarie. La differenza fra i tempi che furono e quelli attuali è che un tempo per distruggere il principio di non contraddizione pur mostrandolo come vero occorrevano fiumi di parole e di ragionamenti, mentre oggi basta l’ossimoro, cosa che rende questa penosa figura retorica un luogo di esaltazione orgasmica del pensiero. Far la guerra affermando di essere in pace o impoverire le masse affermando di essere in crescita sono affermazioni che contribuiscono al rimbecillimento delle civiche menti già ottenebrate dal fallico e femminino blaterare della sovrabbondanza delle merci e delle parole nei social.

E infatti si veda che si può oggi ben dire, invece di dittatura o teocrazia o patriarcato o potere assoluto, “democrazia illiberale” o “democrazia autoritaria”, mirabile ed esaltante esempio di ossimoro destinato a svuotare le menti dei cittadini per poterle poi riempire delle colossali imbecillità, benevoli e sanguinarie, sortite dalla bocca dei politici e degli uomini d’intelletto e dei lacchè sculettanti su carta e su video. Poiché lo scrivente è ragionevolmente (ovverosia, si intenda, con buone ragioni) senilmente incarognito verso l’universo è opportuno precisare che lo sculettamento al quale ci si riferisce può essere indifferentemente di destra e di sinistra, laico e religioso, onesto o inonesto, amoroso o rancoroso. Cambia sì qualcosa dall’uno all’altro caso, modalità dell’ancheggiare per esempio, o dell’arretrare a mo’ di gambero che ti segue mostrando le chiappe, ma si tratta di poca cosa.

Il bipolarismo dicono sia curabile con farmaci e anche terapia psicologica, ma se è malattia di popoli e politici e prelati e filosofi speranza non c’è. Come già fece a suo tempo il compianto dittator priapico, si può sostenere che se un partito prende il ventisei o il trentun per cento dei voti ha diritto a tre quarti dei deputati e senatori del Regno o Repubblica che sia, cosa che può bene essere definita minoranza maggioritaria grazie a un sognante ossimoro: è legittimo sostenere che sarebbe più appropriato parlare di maggioranza minoritaria, cosa che, secondo lo scrivente, trasformerebbe l’ossimoro da sognante a delirante. L’attitudine del pensiero dell’Occidente a paradosseggiare e a sostenere la coabitazione degli inconciliabili è, come ben risulta dagli studi di storia e del pensiero fin dai licei, ciò che consente di chiamare pace la guerra, o amore di vita la morte, o la schiavitù per libertà o la privazione per ricchezza e giustizia.

Un tempo i tiranni erano dei veri onesti tiranni, brutali, assassini, sterminatori ma anche candidi e innocenti rei confessi delle loro turpitudini, che avevano oneste motivazioni: la nostra razza è superiore, le altre vanno pertanto distrutte o dominate; la nostra religione è quella vera, gli altri dèi sono falsi, pertanto gli infedeli devono essere sterminati o dominati; occorre una dittatura per far trionfare il proletariato nel sole dell’avvenire, pertanto la borghesia va distrutta o dominata; la nostra è una civiltà superiore, pertanto le altre vanno distrutte o dominate e via dicendo; e via dicendo con desolante mancanza di eleganza e di stile, senza ossimori né altre retoriche figure. Oggidì finalmente hanno imparato e siamo tutti cittadini liberi e uguali e possiamo scegliere tutto: cravatte, reggiseni, scarpe, automobili, sessi, figli… e possiamo scegliere il patriarca o la matriarca alla quale affidare il nostro futuro. Queste cose, va pur detto, le hanno inventate e scoperte ed elaborate grandi pensatori e i loro seguaci, indifferentemente a sinistra e a destra e al centro, grandi iniziati e porporati e filosofi e democratici tiranni. Perché mai si dovrebbero fare sanguinarie tirannie quando si può cantare e suonare e promettere e imbriacare e addormentare il cittadino felicemente rimbecillito per poi serenamente dissanguarlo nel suo sonno?

Secondo le consuetudini ormai anguste e invecchiate il tiranno è creatura luminosamente caliginosa, perché la loro interiore nebbiosa tenebra è luce per i popoli seguaci. Figure che giungevano al potere con marce e assalti ai palazzi estivi e invernali e manganellate e coltellate e orde di scalmanati tentando poi con zelo e sollecitudine di far cose grandiose davanti al mondo, e assassinando in segreto (ma non in gran segreto) avversari e popoli. Finché, nei casi peggiori, sfracellavano se stessi e i loro popoli nella vergogna e nell’umiliazione del giogo; e, nei casi migliori, trovavano il modo di non tracollare e di far continuare la loro opera a servili e spietati seguaci, rimandando di qualche anno o decennio il momento della dissoluzione.

Ma è risaputo che il tempo muti le cose e oggi la dignità della tirannia si può ottenere con la calma e con l’accortezza, cambiando una virgola qui e un comma là, o spostando date di elezioni o chiamando gente competente e che sa far di conto a governare al posto degli incapaci e truffaldini che c’erano prima. La distinzione e l’onore dei neotiranni li spinge a oculata gestione della cosa pubblica, ad accattar moneta dai cittadini con soave levità e indiscutibile ragionevolezza di numeri e conti. La dignità del neotiranno è paterna e seducente, a tratti addirittura noiosa e sciapa, fatta di astuta seduzione mascherata da monotonia e da esperienza nella partita doppia. Dal neotiranno tedioso e saccente, spregiudicato avventuriero delle banalità, amante di tutti i diritti possibili e immaginabili che gli servivano per annichilire le menti e far dimenticare le necessità dei bilanci, occorreva e occorre giungere a quello scelto e amato dal cittadino, per rimettere le cose al loro posto, come erano nei bei tempi che furono. I quali tempi, si intenda, non erano quelli delle destre e sinistre dittature, né quelli delle ambidestre e ambisinistre democrazie, bensì quelli dei patriarchi.

Il patriarca – o la matriarca, qualora questa sia la civica volontà – non manganella, non tortura, non esilia né ordina scannamenti in variegate forme: ha attitudine invece al severo rimprovero, talora allo sculacciamento. Ha la propensione a chiedere, perorare, commemorare, spiegare come hanno da essere curate le faccende casalinghe: ma nel tono di voce e nello sguardo vi sarà sempre una forma di sottile (ma di tanto in tanto grossolano) rimprovero, come di quel padre o di quella madre che constata con stupore e rammarico che i figli non seguono le regole dettate e frequentemente sbandano o addirittura si ribellano. E quel tono di amareggiato rimprovero lascia intendere che potrebbero giungere punizioni rigorose (sempre negando che possano divenire sciagurate). E qualora sembri che vi sia qualche eccesso e i figli – o i rappresentanti dei figli – mostrino malumori e turbamenti pericolosi il patriarca – o la matriarca – con aria sorpresa e corrucciata potrà dire, anzi spiegare: “Ma via, via, caro presidente e cari deputati e senatori e giudici e ministri e tutti voi che avete avuto la fiducia dei cittadini, perché dimenticate che loro, loro che vi hanno votato hanno detto che sono io che devo governare e non altri?”. E di una cosa si avrà certezza, che tutti, direttori di giornali e telegiornali, conduttori televisivi, pensatori, intellettuali più o meno filosofanti, banchieri, cavalieri d’industria, fruttivendoli e guardie giurate, tutti non potranno che concordare.

Epperò, diciamolo francamente: cos’altro potevano attendersi questi figli scalmanati e truccati e tatuati e briachi di droghe, di chiacchiere e di monete e di mercanteggiamenti? Nelle democrazie flebilmente eclissanti i rappresentanti rappresentavano quotidianamente la loro natura capricciosa e perduta nel franìo e nel ricostruirsi della propria immagine allo specchio reale e digitale e virtuale, lamentosi e portati per natura a taglieggiare. Occorreva lo sguardo occhiuto e adunco del genitore che è padre e madre e i cui figli sono sì figli ma anche sudditi, nei quali instillare quella grande virtù ormai perduta, ovvero il senso della propria colpevolezza per le proprie tendenze furbastre e sfrontate. Rigenerare antichi e perduti ideali, magari con la promessa di qualche sganassone, avviluppando fra loro paternalismo burocratico con qualche punta di militarismo, perché l’adolescente perduto nel dissipare se stesso va pur recuperato in qualche modo.

Ecco che allora occorre far emergere la verità che mai è nuda e nemmeno semivestita, ma sempre imbellettata e truccata e in mille stoffe, avviluppata per occultare le sue sconcezze e che lentamente si diffonde sul pianeta, come quelle influenze che non ammazzano nessuno, se non vecchi già presto destinati alla morte e pochi altri portati alla dissoluzione. Ciò che nel pianeta si diffonde come mascherata e infettiva verità è che, studiata la storia della nostra specie, consultati libri di antiche memorie, fatti gli scavi, compulsate antiche pergamene e vetusti incunaboli, indagato nel cuore e nella mente dell’homo saccente, con chiarezza si vede che la democrazia è un epifenomeno occasionale, casuale, sporadico e nulla più. Anche perché la democrazia è un fenomeno innaturale, nulla in natura è democratico: piogge, terremoti, movimento delle placche tettoniche, movimento dei pianeti, le stagioni, nulla, nulla è democratico. Né vi sono democrazie fra i serpenti, i gatti, i lupi, le formiche, i ragni, le megattere e le anatre! Né, a quanto risulta e sia dato di sapere, esiste democrazia fra gli dèi e negli inferi, ché son tutti luoghi gerarchici dove l’idea stessa di democrazia è aborrita. La democrazia sorge sempre come ribellione dei figli contro il padre (in effetti, a ben vedere, contro le insopportabili malefatte del padre o patriarca), motivo per il quale i figli, fratelli liberi, uguali e solidali, spodestavano il padre e, non fidandosi l’uno dell’altro, creavano pesi, contrappesi ed equilibri per evitare che uno di loro si trasformasse in un nuovo padre.

Ma adesso i popoli, i figli-fratelli, dopo avere per anni compiuto misfatti e malversazioni di ogni genere, vanno alla ricerca di un nuovo padre, e lo vogliono votare e vogliono dirgli: sei tu il capo, sei tu il più forte, dacci un destino da raggiungere. L’idea che il capo possa vivere e governare in un contesto di equilibri e contrappesi viene sempre più spesso considerata bizzarra, perché innaturale: quando mai si è visto che il capo del branco dei lupi sia stato sottoposto a discussioni e confronti? O meglio ancora, quando mai si è visto che il cane pastore che sorveglia il gregge si metta a discutere con quella pecora o quell’altra per decidere dove andare e cosa fare?

Sarà un mondo guidato da arconti, intendendo per arconti non le figure degli antichi altissimi magistrati greci, demiurghi delle teogonie gnostiche che avevano o si attribuivano il compito di guidare l’umanità, dèi talora un poco folli o bizzarri o crudeli come dicevano che fosse Jaldabaoth e come sembra che potrebbero essere queste nuove figure di patriarchi. Che sostituiranno i precedenti patriarchi che erano dèi contabili e guide del liberissimo mercato ed esperti nelle nuove forme di fottimento digitale delle menti.

Ci spiega Marco Terenzio Varrone, nel Libro V del De lingua latina, il duplice senso della parola dittatore, che così era chiamato in quanto nominato, indicato, “detto” e in quanto il suo “dire” doveva essere eseguito senza riserve o ostacoli o discussioni, in quanto dotato del summum imperium, il potere massimo. Pertanto il primarca o primocrate che dir si voglia potrebbe ragionevolmente chiamarsi imperatore o dittatore, in quanto nominato, “detto” dai civici elettori e in quanto al suo “dire” nessuno potrà opporsi, perché gli altri eletti, presidenti, senatori, deputati e via dicendo sono stati nominati sì, ma non per governare, bensì per rappresentare e parlare, ché la funzione dei parlamenti è per l’appunto quella del parlare.

Ma sembra che in questi tempi evoluti non sia buona educazione usare parole come dittatore o imperatore. Il politicamente corretto ha invaso ormai destre e sinistre e non sembra opportuno nominare come dittature gli sfaldamenti definitivi delle senescenti democrazie con governi tecnici o monetari o premierati, che vorrebbero appellativi più idonei, anche perché questi nomi non mostrano la natura contemporaneamente omicida e suicida delle democrazie.

E in realtà c’è un altro motivo: perché non si tratta affatto di dittatori ma, come già si è detto, di patriarchi o matriarche. Sono ben lontani i tempi nei quali l’onesto e colto uomo politico di destra, monarchico e conservatore, ma non fascista, studioso di teoria della politica e costituzionalista, Domenico Fisichella, spiegava la necessità della dittatura o del regime autoritario quando la democrazia entra in crisi e non riesce più a fronteggiare le paure sociali. E aggiungeva che le dittature con il tempo sarebbero state costrette – non per ragioni belliche, come nel caso del nazifascismo, ma per contraddizioni interne o per evoluzione, come nel caso della dittatura sovietica o di quella franchista – a trasformarsi in qualcosa di diverso da sé. Le paure spingono i cittadini a orientarsi verso il tipo di rappresentanza descritto da Hobbes, una rappresentanza ottenuta liberamente e che poi attua il proprio potere senza dover più rispondere ad altri centri di potere o di rappresentanza. Sono ben lontani quei tempi perché oggi inizia l’era dei patriarchi.

Non si spaventi il lettore, l’era dei patriarchi non è il ritorno del patriarcato, no, ché l’evoluzione dei costumi ha condotto a forme miste di patriarcato e matriarcato. È l’era nella quale il patriarca o la matriarca (come già i tecnarchi che precedentemente governavano grazie all’evanescenza della democrazia) sono padri dei loro popoli. E i padri e le madri sanno bene di cosa hanno bisogno i figli, sanno bene quando è opportuno o necessario il rimprovero o il castigo o la benevola sculacciata, e sanno bene dove i figli dovrebbero andare e in cosa dovrebbero credere e cosa dovrebbero fare quando saranno cresciuti. Farli crescere, sì, invece di lasciare che continuino a gozzovigliare a spese dei genitori, continuando a fare gli scriteriati con tatuaggi e droghe e sesso polivalente e variegato.

Che si chiamino Putin o Zelensky o Musk o Orbán o Trump (ovvero degli onesti prosecutori dei patriarchi in pectore precedentemente operanti per governare i bilanci statali su chiamata dall’alto o per salvare i popoli dalla peste o per salvare il pianeta dalla febbre del clima degenerante) i patriarchi e i loro antesignani hanno bisogno di ottenere il silenzio da quelle fonti di irrequietezza e di disturbo che li possono ostacolare.

Il patriarca (che sembra opportuno adesso chiamare principe o re, non per diritto divino, ma, più in sintonia con i tempi, per diritto divino acquisito tramite il consenso popolare) deve far comprendere con pazienza e premura paterne o materne, sia pure con qualche scatto di impazienza, che “non si può riscontrare l’uso della libertà naturale del popolo, perché tutte le libertà rivendicate nel parlamento sono libertà concesse al popolo dalla grazia del re e non dalla natura” (pag. 522). Occorre che subentri la consapevolezza – del resto già nascente in molte democrazie – che “se si considera attentamente la natura delle leggi, si comprende meglio la necessità che il principe sia superiore ad esse” (pag. 509). Perché non va dimenticato – e i patriarchi hanno il dovere di ricordarlo – che “Non manca chi crede che le leggi furono inventate per limitare e moderare l’eccessivo potere del re; ma il vero è che l’origine delle leggi consiste nell’intento di ridurre in ordine la moltitudine”(pag. 503). Per essere chiari e dando per ovvio e sottinteso che il patriarca lavora per il bene del suo popolo perché questo è stato il civico volere manifestato in libere elezioni, ne consegue che “il padre di famiglia non governa secondo altra legge che la propria volontà e non secondo le leggi e i voleri dei suoi figli”(pag. 494). Questo può sembrare eccessivo e rischioso, eppure bisognerà rendersi conto che “molti diranno che è condizione servile e pericolosa, esser soggetti alla volontà di uno solo che non è soggetto alle leggi. Ma costoro non considerano, in primo luogo, che la prerogativa di un re consiste nell’esser superiore a tutte le leggi, per il bene esclusivo di coloro che sottostanno alle leggi, e per la difesa delle libertà del popolo”(pag. 507). A questo fine occorre che vi sia profonda sintonia fra il capo del Governo, primocrate o patriarca che dir si voglia, e i parlamenti: “Grandi sono i vantaggi che sia il re che il popolo possono trarre da un parlamento bene ordinato; non c’è nulla che meglio esprima la maestà del padre supremo di un re che questa assemblea, in cui tutto il suo popolo lo riconosce come signore sovrano” (pagg. 518, 519). Si potrebbe obbiettare che così i parlamenti non sarebbero altro che la corte per il primocrate o patriarca che dir si voglia. E così infatti dovrebbe essere per il dolore dei nostalgici dei parlamenti legiferanti: ma a questo, a ben vedere, ci avevano già sapientemente preparato i precedenti tecnarchi e i liberissimi imperanti mercati e la frenetica e sollecita follia digitale. Infatti “il parlamento è la corte del re… Ma nessuna delle due camere è la corte suprema, e neppure le due congiunte; non sono che membri e parti del corpo, di cui il re è capo e regolatore” (pag. 525)1.

Nel prossimo futuro di primocrati e patriarchi un poco destri e un poco sinistri qualche pensatore sfaccendato ma dabbene potrebbe domandarsi: quale sarà il destino di coloro che nella storia mille volte hanno cambiato nome, chiamati di volta in volta schiavi o servi o plebe o operai o terzo o quarto stato o dipendenti e via dicendo? Non bisogna essere troppo pessimisti, per le più umane delle umanissime ragioni possibili, ovvero: qualcuno le tasse dovrà pagarle, qualcuno dovrà pur acquistare le merci prodotte, altrimenti gli Stati fallirebbero e il liberissimo mercato crollerebbe.

Chiosa breve e grammaticale. Il corrispondente femminile di patriarca non è la patriarca o la patriarchessa ma la matriarca. Sembra opportuno fare questa precisazione perché in questi tempi più recenti, come già è accaduto in passato si assiste talora al gareggiare di politici che si mutano in esperti grammatici. Per esempio aveva a suo tempo ottimi motivi l’onorevole Giorgia Meloni a non voler essere chiamata Presidentessa del Consiglio. Perché il grande Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo e Bernardo Bellini mostra con dovizia di citazioni che il presidente si dice al femminile la presidente e non la presidentessa, che invece viene usato nel linguaggio familiare o per celia o addirittura per scherno. La cosa è confermata dai dizionari più recenti, quali il Dizionario Storico della lingua italiana o il Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio de Mauro. Ma hanno torto tutti coloro che sostengono che debba essere chiamata il Presidente del Consiglio e non la Presidente del Consiglio. Si è assistito con pena a ruffiani dibattiti fra politici neogrammatici e giornalisti altrettanto neogrammatici di destra o di sinistra che stavano là a blaterare di costituzione e di participi (il già citato Tommaseo distingue accuratamente fra presidente come participio e come sostantivo) dopo avere freneticamente e superficialmente consultato le versioni semplificate dei dizionari in rete. Così come hanno torto coloro che sostengono che la dottoressa Daria Perrotta debba essere chiamata il Ragioniere generale dello Stato e non la Ragioniera generale. È singolare questa mascolinizzazione delle forme grammaticali delle alte cariche dello Stato in forze politiche che tendono a distinzioni chiare e rigorose dei sessi e che guardano con perplessità le forme intermedie: maschi effeminati, femmine mascoline, femmine che vorrebbero essere maschi, maschi che vorrebbero esser femmine, maschi e femmine che non sanno cosa siano e via dicendo. Le lingue crescono e mutano per l’agire di esseri umani senzienti, parlanti, leggenti e scriventi, e sono specchio di attività, costumi, abitudini, evoluzioni culturali e tecnologiche, non per la volontà e i gusti e i capricci dei politici e dei loro fedeli servitori. Di questo passo potremmo chiamare Re la Regina del Belgio o, come già è accaduto, si potrebbe decidere che il Lei, essendo di origine spagnola, non va usato nella nostra lingua o, peggio ancora, si potrebbe essere costretti a ristampare il gran libro di Franz Fanon Il negro e l’altro, con il titolo Il nero e l’altro (o L’uomo di colore e l’altro) o si potrebbe correggere il bel film Indovina chi viene a cena? Perché il protagonista Sidney Poitiers viene definito negro da Spencer Tracy. Negli Stati Uniti è già accaduto per il film Via col vento, come hanno fatto una nuova edizione di Huckleberry Finn di Mark Twain sostituendo la parola nigger (negro) con slave (schiavo). L’onorevole Giorgia Meloni e la dottoressa Daria Perrotta sono donne, dovrebbero essere fiere di potersi dire la Presidente del Consiglio e la Ragioniera generale dello Stato invece di confondersi in contorte fantasie grammaticali. C’è qualcosa di oscuro, di opaco, di funesto nella politica che si fa grammatica annebbiando la mente già incerta dei cittadini.

Nota

1 Tutte le citazioni sono tratte dall’opera di Robert Filmer Il Patriarca. Robert Filmer (1588 – 1653) è stato un pensatore inglese difensore del diritto divino dei re. La sua opera più famosa, il Patriarca o il potere naturale dei re, fu pubblicata postuma nel 1680. L’opera è stata tradotta e stampata presso le edizioni UTET (Torino) nel 1988, a cura di Luigi Pareyson, in appendice al volume Due trattati sul governo di John Locke.

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