Venerdì 29 novembre 2024, sciopero generale indetto da CGIL e UIL: attraversando il corteo di Roma – ma la stessa sensazione poteva avvertirsi nelle 43 piazze italiane – si capiva immediatamente che l’aria era cambiata. Non è sceso in piazza solo il nocciolo duro delle delegate e dei delegati, i militanti e gli attivisti, ma come dicevano in tante e tanti, le colleghe e i colleghi. Chi non scioperava da anni è tornato a scioperare insieme a chi magari lo ha fatto per la prima volta. Se si scorrono i dati delle adesioni nelle aziende da nord a sud questa impressione della piazza è confermata. Del resto, quando si sciopera anche in posti di lavoro dove non si è riusciti a organizzare le assemblee, per mancanza di ore – esaurite perché questo sciopero arriva a valle di mesi e mesi di lotte o di altri scioperi di categoria – allora se ne ha la certezza. Lo sciopero generale è riuscito. Non ovunque allo stesso modo ma è riuscito. E suggerisce alcune considerazioni invitandoci ad un bilancio. La prima sulla questione salariale, correttamente messa al centro della giornata, insieme alla giusta critica di una legge di bilancio che peggiora le condizioni di chi per vivere deve lavorare. Secondo dati OCSE, dal 1991 l’Italia ha ridotto il salario medio di circa 1.000 euro a fronte di un aumento in Francia di oltre 9.681 euro, in Germania di 10.584 euro, in Spagna di 2.569 euro. L’ILO evidenzia che solo in 4 paesi del G20 si registrano salari più bassi rispetto al 2008: Italia, Regno Unito, Messico e Giappone.
In base all’ultimo rapporto ISTAT, nel triennio 2021-23 di fronte a un aumento dell’inflazione (IPCA) del 17.3%, i salari sono cresciuti solo del 4.7%, oltre 12 punti percentuali di perdita. La perdita più alta negli ultimi 50 anni. La questione salariale è questione sindacale, questione sociale, questione economica, questione etica perché strettamente connessa alle disuguaglianze, questione politica generale per l’entità della sua dimensione e per le sue cause profondamente intrecciate con i nodi di fondo della lunga crisi italiana. Quindi il riaffacciarsi prepotente dell’inflazione dell’ultimo triennio, per quanto ora in calo, ha posto domande vecchie e nuove a cui siamo chiamati a rispondere come attori delle relazioni industriali, ma certamente anche come paese nel suo complesso, a partire da chi governa. È nostra profonda convinzione che un più serio bilancio di ciò che è avvenuto in questi ultimi anni è indispensabile per porre le basi di una strada alternativa: una nuova via maestra delle relazioni industriali basate sull’idea costituzionale di lavoro. Come Fondazione Di Vittorio, e prima ancora come IRES-CGIL, abbiamo dedicato, e stiamo dedicando, molti studi di approfondimento alla dinamica salariale e alle ragioni di fondo della sua traiettoria decrescente, collegata alle caratteristiche della nostra specializzazione produttiva e della conseguente composizione della forza lavoro (ma non solo). In particolare, insieme al rapporto di cui abbiamo dato alcune anticipazioni prima dello sciopero, meritano qui di essere richiamate: l’Inchiesta sul lavoro. Condizione e aspettative(a cura di Daniele Di Nunzio, Futura edizioni, Roma 2024 ),la quale evidenzia la retribuzione come una delle principali problematiche che le decine di migliaia di lavoratori intervistati pongono, sia rispetto alle priorità della contrattazione collettiva nazionale che di quella decentrata; la Ricerca sul lavoro povero condotta con il CRS in corso di pubblicazione (qui il video dell’incontro di presentazione preliminare), in cui si evidenza una realtà impensabile fino a pochi anni fa.
La questione salariale è esemplificativa della perdita di peso e di valore politico del lavoro, della sua progressiva marginalizzazione, causa e conseguenza della crisi democratica a cui voglio ora dedicare alcune riflessioni. Il Governo Meloni-Salvini-Tajani giurò il 22 ottobre del 2022, dopo aver vinto le elezioni politiche del settembre dello stesso anno grazie a poco più di 12 milioni di voti e, per effetto della legge elettorale Rosatellum e di quella sul taglio dei parlamentari, con una schiacciante maggioranza parlamentare (237 deputati e 115 senatori). Partecipò al voto poco più del 63% degli italiani. Se guardiamo alle percentuali di voto nelle regionali e nelle comunali siamo costantemente al di sotto del 50%. Le ragioni per le quali, come direbbe Antonio Gramsci, i ceti dirigenti si trasformano in ceti dominanti vanno ricercate innanzitutto nel collasso della nostra democrazia sociale per abbandono da parte di chi ha più bisogno di quest’ultima. Christopher Lasch ne La ribellione delle élite (Feltrinelli, Milano 1995) descriveva efficacemente questo processo di espulsione dalla polis delle masse lavoratrici. Quando lo leggevo nei lontani anni Novanta pensavo che da noi non potesse accadere. Invece eccoci qui. La ragione è chiara. La rivincita del capitalismo sulla democrazia costituzionale iniziata a metà degli anni Settanta ha compiuto il suo corso. Non serve qui ricordare i dati dei profitti e dei dividendi rispetto ai salari, si conoscono, ne abbiamo dato conto in una conferenza stampa che ha preceduto lo sciopero generale e ne daremo conto nei prossimi mesi. Quello che più mi preme è sottolineare ancora una volta quanto la democrazia costituzionale fosse legata alla partecipazione politica del lavoro organizzato. Nel 1892, quando nacque, Giuseppe Di Vittorio non aveva il diritto di voto. Quel popolo di lavoratori e lavoratrici viveva una condizione separata dallo Stato. Prima della costituzionalizzazione delle masse popolari, l’estraneità dello stesso associazionismo bracciantile e operaio all’interno della società e dello Stato liberale corrispondeva all’apoliticismo di chi per vivere aveva bisogno di vendere il proprio corpo, il proprio tempo. Apoliticismo nel senso di non partecipazione alla polis. La Confederazione generale del lavoro negli anni che vanno dal 1906 al 1911 si impose come organismo di rappresentanza degli interessi del mondo del lavoro attraverso una piattaforma programmatica autonoma dallo Stato e dalle forze politiche che lo animavano. Questo farà dire ad Alfredo Rocco nel 1920 che lo Stato stava perdendo gli attributi della sovranità e si dissolveva in una moltitudine di corpi minori, associazioni, leghe, ma soprattutto sindacati, che lo vincolavano, che lo soffocavano. In realtà, nasceva dal basso quella che grazie alla guerra di liberazione e alla sconfitta del nazifascismo, sarà la democrazia costituzionale.
A quel punto Di Vittorio potrà dire che lo Stato era diventato anche “il nostro Stato”.
Il fatto che le persone che noi rappresentiamo, nel tempo, abbiano avuto la possibilità di accedere alla polis non è una cosa scontata, un dato acquisito, non è un destino, è stato una conseguenza di eventi, di processi costruiti dal basso e assolutamente reversibili. Può restare la forma della democrazia, ma non la sostanza della democrazia costituzionale. Questo è il problema che noi abbiamo oggi: acquisire una consapevolezza che non è scontata ma che è indispensabile per attrezzare l’azione collettiva. Il fatto che le persone che lavorano sono povere, che devono pensare a sopravvivere, che non possono pagarsi la sanità, che dovranno pagarsi l’istruzione, determina la condizione per cui queste persone si separano dallo Stato, si separano dalla vita democratica, escono dalla sfera della polis.
Se lo Stato non ti dà nulla, pensi che la democrazia non ti dia nulla. Il salto tecnologico degli ultimi anni ha accellerato i processi di individualizzazione, come ben sappiamo, a cui si aggiunge e con cui si combina la drammatica mancanza di una informazione libera. Diventa sempre più difficile costruire una gerarchia delle informazioni nel flusso costante e chiaramente manipolato in cui siamo immersi. Il fatto che da più parti si torni a sostenere che tutto sommato la partecipazione di una minoranza alle elezioni non sia necessariamente un male, anzi, sia sintomo di soddisfazione per le condizioni della società ai nostri occhi appare aberrante, una colossale falsità. È l’opposto. Anni di progressivo arretramento sul terreno dei diritti sociali, di progressiva svalutazione del lavoro, di omologazione tra i diversi schieramenti politici rispetto alle “ricette economiche da adottare” per far crescere l’economia – tutte basate con poche sfumature sull’allentamento dello Stato sociale e sull’apertura di nuovi spazi di mercato, dalla sanità all’istruzione solo per citare due esempi macroscopici – avevano preparato il terreno, come ben sappiamo.
Come giustamente scrive Colin Crouch a proposito della post-democrazia, “la democrazia prospera quando aumentano per le masse le opportunità di partecipare attivamente, non solo attraverso il voto ma con la discussione e attraverso organizzazioni autonome, alla definizione delle priorità della vita pubblica; quando le masse usufruiscono attivamente di queste attività; e quando le élite non sono in grado di controllare e sminuire la maniera in cui si discute di queste cose… Questa nozione di democrazia è ben più esigente rispetto a quella della democrazia liberale” (Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2005). Secondo Crouch, dunque, la democrazia nella sua autenticità e nella sua ambizione, e contrariamente alla democrazia liberale, assume nella sfera pubblica partecipazione e dibattito, organizzazioni di mediazione e legami attraverso interessi universali. Quando ciò non avviene ci troviamo in presenza della postdemocrazia, di un superamento tout court dei paradigmi di legittimazione sostanziale della democrazia autentica e ambiziosa. Infatti, continua, “nelle condizioni in cui la postdemocrazia cede sempre maggior potere alle lobby economiche, è scarsa la speranza di dare priorità a forti politiche egualitarie che mirino alla redistribuzione del potere o della ricchezza o che mettano limiti agli interessi più potenti”.
È accaduto proprio ciò che aveva, in modo illuminante, preconizzato Colin Crouch. Intanto, un governo che rappresenta una quota minoritaria del Paese sostituisce la Costituzione formale con la Costituzione materiale, affidando sempre più all’Esecutivo il compito di scrivere le leggi e al Parlamento le funzioni di ratifica (record di voti di fiducia).
Ciò purtroppo in continuità con un processo che dura da molti anni di svuotamento della democrazia parlamentare nel nome dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione di governo, idea che già a metà degli anni Ottanta sulla scia delle teorizzazioni dei pensatori conservatori aveva iniziato ad affermarsi come senso comune. Il decreto sicurezza rappresenta invece una vera torsione autoritaria. Ricorda fin troppo da vicino il processo di dissoluzione dello Stato di diritto e l’affermarsi dello stato discrezionale magistralmente descritto da Ernst Fraenkel nel doppio Stato (Il doppio Stato, contributo alla teoria della dittatura, Einaudi, Torino 1983). Lo stato d’emergenza diventa il pretesto per aumentare a dismisura i poteri diretti dell’Esecutivo, introdurre fattispecie di reato che servono a criminalizzare il dissenso, costruire una rete informativa direttamente riferita ai servizi segreti. Le guerre in cui siamo cobelligerenati e complici rappresentano la cornice ideale.
Adottando lo schema di Gramsci del sovversivismo dall’alto delle classi dirigenti, si trasforma la funzione di governo in vero e proprio comando, con lo scopo di inventarsi nemici a seconda del momento politico, additandoli all’opinione pubblica col linguaggio tipico delle fazioni populiste. In questa costruzione dei nemici sono caduti di volta in volta: i giovani partecipanti ai rave party, la magistratura (di cui bisogna cancellare l’indipendenza), gli insegnanti (il caso Raimo è lampante), gli ecologisti di Ultima Generazione, e ultima ma non infine la CGIL e Maurizio Landini (oggetto di una campagna di diffamazione strutturata, una vera orgia di insulti quotidiani). Nel collasso della democrazia sociale, complice la guerra, emerge uno Stato autoritario a guardia della giustizia del mercato e a guardia della proprietà, uno Stato che esercita la forza per reprimere ogni forma di dissenso, uno Stato che asseconda i processi capitalistici per quello che sono, cioè distruttivi della democrazia costituzionale, ma anche ovviamente distruttivi dell’ambiente.
Dinanzi a questa situazione di sovvertimento delle elementari regole della democrazia costituzionale a opera del governo di centrodestra in un quadro di tratti analoghi in gran parte dell’occidente, la risposta non poteva che essere lo sciopero generale e la chiamata alla “rivolta sociale” nonviolenta e democratica. Per questa ragione lo sciopero generale è azione eminentemente politica per affermare un’altra idea di democrazia, decisamente contraria a quella del privilegio e neocorporativa messa in atto dal governo Meloni-Salvini-Tajani.
Potremmo dire che con il 29 novembre CGIL e UIL hanno spostato il terreno della sfida, da quello giustamente rivendicativo a quello più ampio ma connesso al primo dell’orizzonte di senso della nostra democrazia in pericolo. Lo stesso Crouch invita a ritrovare lo spirito del biennio caldo, 1968-69, per escogitare nuove vie d’uscita da quella che egli chiama “entropia della democrazia”. “Se passa il decreto sicurezza molti dei lavoratori che occupano le fabbriche minacciate di smobilitazione, se bloccano le strade per difendere il posto di lavoro, sarebbero passibili di arresto”. Così dal palco di Bologna il segretario generale della CGIL. Fermiamoci per un attimo su queste parole. Esse confermano il cambio di paradigma dello sciopero generale, che coniuga la lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro con la necessità di dar vita a un movimento popolare per la libertà e per la ricostruzione dei diritti costituzionali. Come avrebbe detto Trentin, se manca la libertà anche il lavoro perde parte del suo senso, si smarrisce l’interesse verso la democrazia e la politica, e l’etica pubblica si ritrae dinanzi al dirompente individualismo del si salvi chi può. V’è dunque qualcosa di nuovo e più pericoloso oggi per la democrazia in Italia e si chiama Governo Meloni-Salvini-Tajani, ma non è arrivato per caso. Esso è il risultato di un processo storico che vede l’indebolimento progressivo del lavoro organizzato, vero fondamento della democrazia costituzionale.
Per questo il Governo mette in discussione perfino il diritto costituzionale allo sciopero facendo populisticamente balenare il farlocco scontro tra interessi, tra coloro che scioperano per affermare diritti e dignità, e coloro che eventualmente subiscono gli scioperi, e richiamando, loro che sono al governo in quanto minoranza, la legge della maggioranza. Bisogna anche riconoscere che la legge 146 del 1990 sulla regolamentazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali è diventata un problema in sé, per quello a cui forzatura dopo forzatura si presta. La verità è che in Italia gli scioperi sono stati troppo pochi per troppi anni. La partecipazione diretta, il conflitto sociale, le forme elementari della democrazia costituzionale devono essere annientate, rese inermi ancor di più se non le pratichi.
Il sindacato è ammesso nella sfera aziendale, in una posizione subalterna e remissiva. Altrimenti è il nemico. Di fronte a tutto ciò serve certamente una rivolta sociale che sia in grado di dare vita a un nuovo movimento democratico e costituzionale di liberazione del lavoro da ogni forma di oppressione nel lavoro per affermare autonomia e dignità (la grande utopia quotidiana di Bruno Trentin). Per poterlo fare occorrono due ingredienti fondamentali: il tempo dell’impegno rinato e la riconquista dello spazio pubblico, della polis. È esattamente questo lo schema che la CGIL segue da quando ha introdotto nel dibattito pubblico “La Via Maestra”, insieme ad altre decine di organizzazioni e associazioni, politiche, religiose e culturali. “La Via Maestra” e la “rivolta sociale” non sono idee populiste, non puntano, ovviamente, alla ribellione armata, già vista e combattuta dalla Cgil tra gli anni Settanta e Ottanta (come invece vorrebbero farci credere alcuni quotidiani della destra reazionaria e, questa sì, populista, come Il Giornale, Libero e La Verità). Esse sono manifestazioni collettive di un interesse universale per la pace, la libertà e la democrazia cresciute proprio negli anni tragici e crudeli della “guerra mondiale a pezzetti” (come la definì giustamente Papa Francesco). Così, mentre il Governo militarista e atlantista, Meloni-Salvini-Tajani manifesta sempre più la sua subalternità ai signori della guerra. E mentre si percepisce l’interesse di esponenti delle cosiddette aree moderate a possibili governi di unità nazionale nel caso in cui la situazione economica e geopolitica dovesse precipitare (ulteriormente), si fa avanti un movimento che nelle ragioni dello sciopero generale e della Via Maestra trova finalmente un orizzonte di senso, politico e culturale assieme, nel tentativo di rompere la nuova egemonia populista della destra. Quest’ultima sul privilegio di alcune categorie (i troppi condoni per gli evasori, e le tasse come “pizzo di Stato” per gli artigiani) e sulla pelle di lavoratori dipendenti e pensionati costruisce le proprie scelte di politica economica.
Ha ragione Franco Berardi quando scrive che bisogna prepararsi all’imprevedibile, ben sapendo che la storia non è un piano inclinato, non è una scacchiera dove esistono solo leader e Stati. Altre volte ci ha sorpreso l’irruzione dei popoli. Ecco perché ci mobilitiamo e rilanciamo un movimento dal basso per la rivolta sociale: per non arrenderci all’inevitabile di una Europa militarizzata, di un Governo che invoca nei fatti lo stato d’emergenza per reprimere ogni forma di dissenso, di un contesto economico fatto di salari decrescenti, di un fisco amico dei profitti. E prepara la privatizzazione (definitiva) della sanità e della scuola. L’unica, concreta, possibilità è appunto una rivolta sociale, una presa collettiva di parola nello spazio pubblico, la riappropriazione della polis da parte di chi ha smesso di crederci a partire dalla prossima (speriamo) campagna referendaria per lo sciopero e la costituzione.
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