La crisi, che incrina così in profondità i sistemi politici della Francia e della Germania, conferma la correttezza della valutazione di studiosi come J. Linz e A. Valenzuela che parlavano esplicitamente di “fallimento del presidenzialismo”. Proprio dinanzi alle situazioni di emergenza, che avanzano determinando una improvvisa crescita dei fenomeni di sfiducia, la vecchia e bistrattata forma di governo parlamentare reagisce con maggiore efficacia alle contrazioni delle istituzioni di quanto facciano i regimi del capo.
Più che a una lesione della macchina del cancellierato, che in effetti vanta ancora i tassi più elevati di stabilità e rendimento, gli spasmi di Berlino sono riconducibili alle conseguenze economiche della guerra. La resa di Scholz allo spirito di un combattimento metafisico per la libertà, coltivato con grande trasporto emotivo dai suoi occasionali alleati di governo, ha spalancato lo spettro della recessione. I fantasmi, che tornano a turbare la più influente economia sociale di mercato del continente, producono lo sconvolgimento delle basi del capitalismo renano (codeterminazione, ruolo dello Stato e del sindacato nella conduzione delle principali aziende).
La mobilitazione dei sindacati dei metalmeccanici contro i licenziamenti di massa decreta il fallimento politico della socialdemocrazia che non ha avuto (come tutta la sinistra europea) una parola di iniziativa politico-diplomatica indispensabile per contrastare il declino (economico, geopolitico, strategico) della vecchia Europa. Dalla crisi del suo modello, accentuata anche dalla decomposizione dei canali di partito che apparivano meno vulnerabili che altrove, con ogni probabilità la Germania uscirà con un ricambio di maggioranza, imposto dall’arrendevolezza della SPD, e quindi con il ritorno al potere dei democristiani (ancor più spostati a destra per occupare lo spazio di AfD) nel segno però della sostanziale tenuta del sistema di governo (proporzionale personalizzata, governo parlamentare).
Anche se nessun congegno istituzionale è da ritenersi immune rispetto alle lacerazioni che si presentano quando il malessere sociale evolve in una aperta crisi di legittimazione, nel complesso il parlamentarismo rivela una superiore capacità di rispondere con efficacia alle situazioni di crisi, una più affinata efficienza dell’azione amministrativa, una più sperimentata capacità di correzione degli errori, di controllo, di dibattito. Con le tradizionali alchimie parlamentari, il contenimento di una destra radicale in forte ascesa è più a portata di mano che non con le maldestre manovre di un regime gollista agli sgoccioli.
Le istituzioni della Quinta Repubblica, oggetto in Italia di infiniti tentativi di imitazione, in giunture particolarmente critiche diventano esse stesse un fattore di crisi, non offrono cioè margini di duttilità per muoversi tra gli scogli ma accelerano le manifestazioni distruttive di un potere per certi versi irresponsabile. Il tecno-populista accasato all’Eliseo, forte della unzione popolare sia pure largamente minoritaria, ha alimentato lo scontro pluriennale con la piazza, ha soffocato le prerogative dell’Assemblea nazionale con atti di arbitrio, ha sfidato il voto inventando governi del presidente con il solo proposito di non riconoscere la realtà dei numeri parlamentari.
L’ambigua condotta di Macron è solo la metafora dell’intrinseca inaffidabilità dei regimi del potere personale che, per una regolarità insormontabile, sono inclini a perdere la testa. Aveva iniziato, a guerra scoppiata, insistendo sulla necessità di non umiliare troppo Putin e finisce, a conflitto che sembra aver dato ormai un chiaro responso, con la sollecitazione a sgrassare gli anfibi per andare con i soldati nelle steppe della guerra orientale. Dopo aver sciolto il parlamento e sollecitato la celere costituzione di un fronte repubblicano per arginare la fiamma giunta quasi alle porte, sdogana proprio Le Pen pur di non cedere alla ragionevole richiesta della sinistra di varare un suo esecutivo di minoranza.
Confidando sullo zero politico rappresentato dalle cosiddette maggioranze negative (gli estremi hanno la forza sufficiente per bloccare ogni governo ma non per sommare in positivo i numeri a disposizione per concordarne uno loro), Macron usura ancor più i gracili dispositivi della Repubblica e spiana la strada alle prove di democratura ampiamenti annunciati dalla destra radicale. Resta il fatto che per le tecnocrazie liberali (non solo) francesi, la sinistra che agita un pacchetto di riforme sociali incisive allarma ancor più delle chiare manifestazioni di segno autoritario della destra. Cosa valgono mai la libertà e i diritti fondamentali dinanzi alle esigenti compatibilità dell’economia liberista?
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