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Articolo pubblicato su “il manifesto” il 22.01.2025.

Incredulità e delusione imperversano in queste ore in alcune componenti del comitato referendario. Soprattutto tra coloro che non hanno mai dubitato dell’ammissibilità referendaria e della travolgente vittoria nelle urne. E anche noi, pur nutrendo non poche preoccupazioni sulla riuscita della consultazione referendaria, nell’ammissibilità del quesito abbiamo sempre creduto. O meglio, lo abbiamo creduto fino al 14 novembre, quando la Corte, cambiando le carte in tavola, decise di riaprire su un altro fronte la partita (il manifesto, 17 novembre 2024).

Un precedente che non può essere eluso, né circoscritto nella sua portata: la sentenza di inammissibilità (come parrebbe evincersi dal comunicato) è figlia della sentenza di legittimità dello scorso dicembre. Non è un caso che il comunicato della Corte, nel rilevare che «l’oggetto e la finalità del quesito non risultano chiari», abbia ritenuto opportuno precisare che il quesito al quale si riferisce non è il quesito referendario, così come originariamente formulato, ma il «quesito… come risultante dalla sentenza n. 192 del 2024».

Ecco perché, pur rifuggendo da inutili trionfalismi, si è indotti a ritenere che questa sentenza d’inammissibilità costituisca l’ennesimo colpo sferrato dalla Corte all’autonomia differenziata.

I giudici hanno con questa decisione inteso ribadire che la legge Calderoli è stata in gran parte demolita, smontata nei suoi congegni più urticanti, nei suoi istituti più significativi, nelle sue parti essenziali. E quel che della legge è rimasto non sta più in piedi. E non può essere più coerentemente applicato: per assicurare la «piena funzionalità della legge» – apprendiamo dal comunicato della Corte costituzionale del 14 dicembre – sarà pertanto necessario un nuovo intervento del Parlamento, un diverso percorso legislativo che dovrà necessariamente dipanarsi in assoluta coerenza con i principi costituzionali e lungo la scia tracciata dalla sent. n. 192/2024.

Con questo non intendiamo di certo affermare che siamo oggi di fronte al migliore dei mondi possibili. Sappiamo tutti che ci troveremo, a breve, di fronte a un mare di insidie. E che la sentenza della Corte è destinata a innescare crescenti difficoltà sul piano politico e sul terreno dell’offensiva sociale: i referendum sociali, seppure dichiarati ammissibili, una volta espunto il quesito sull’autonomia differenziata, hanno perso la loro testa d’ariete. E questo renderà il raggiungimento del quorum di partecipazione ancora più ostico.

Anche in Parlamento, le opposizioni si troveranno a percorrere una strada tutta in salita. Il (contro)riformismo compulsivo delle destre (attuazione dell’art. 116 Cost., premierato, giustizia) non ammette soste, né cedimenti. Alle opposizioni toccherà allora provare a porre un argine a questa spirale, pedinare la maggioranza, denunciarne gli escamotage, l’immobilismo strisciante, le manovre insidiose che molto probabilmente continueranno ad essere escogitate per eludere vincoli e principi costituzionali.

Ma l’opposizione parlamentare non può farcela da sola. Dovrà farsi Paese e rafforzare i legami con l’opposizione sociale che inizia a prender corpo, soprattutto fra i più giovani (si pensi alle crescenti mobilitazioni contro il pacchetto sicurezza).

D’altra parte, è vero che l’opposizione non ha oggi i numeri in Parlamento per “incidere”. Ma è anche vero che la maggioranza non può più continuare a forgiare un modello di autonomia differenziata “a sua immagine e somiglianza”. Dovrà invece farlo “a immagine e somiglianza” della Costituzione.

Nel prossimo futuro, opposizione e maggioranza dovranno, pertanto, sforzarsi di operare lungo il solco tracciato dalla sentenza della Corte. Un esito che spiazza alcune componenti dell’opposizione (anch’esse, in passato, avezze a cedimenti e traccheggiamenti su questo terreno) e che oggi inchioda le forze di governo a precise responsabilità (per aver prodotto una legge intrisa di incostituzionalità).

Insomma, se la strada dell’opposizione è in salita, quella delle destre non è in discesa. E la maggioranza lo sa bene. Non è un caso che presidenti di regioni, ministri, leader di partito nelle ultime settimane si sono tutti ritrovati ad accarezzare la prospettiva referendaria all’insegna del motto craxiano “tutti al mare” (l’esecutivo ha anche evitato di partecipare all’udienza in Corte).

Di qui il tentativo, messo in campo dalle destre, di trasformare il referendum in una sorta di actio fìnium regundorum. Una sorta di verdetto popolare inappellabile. E, per questo, in grado, di fare piazza pulita di giudici, opposizioni e di tutte quelle centinaia di migliaia di donne e uomini che quest’estate si sono attivamente mobilitati nella fase di raccolta delle firme. Un patrimonio che non può essere dissipato. E dal quale è necessario oggi ripartire, perché la lotta per il regionalismo solidale e contro l’autonomia “disgregata” non solo non è terminata, ma è appena iniziata.

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