Versione più estesa dell’articolo pubblicato su “il manifesto” del 03.06.2025.
Si è celebrata lo scorso 2 giugno la peggiore Festa della Repubblica della storia. Una festa fatta, anche quest’anno, di parate militari, velivoli da combattimento, frecce tricolori. A essere festeggiata è stata la Repubblica del riarmo (87 milioni di euro al giorno; + 9,5 rispetto al 2023). Una Repubblica nella quale le aziende italiane continuano a fornire a Israele supporto militare e armamenti, con la complicità silente delle istituzioni di governo, fino a oggi, incapaci di esprimere una mezza frase di senso compiuto su Gaza e su un massacro che ha sterminato migliaia di bambini, donne e uomini. Eppure, sarebbe stato per lo meno confortante se qualcuno, tra le tante cariche che hanno affollato la tribuna di via dei Fori Imperiali, avesse ricordato che la Repubblica italiana è stata fondata per ripudiare la guerra e non per sostenerla.
Così come sarebbe stato quanto meno incoraggiante se, per festeggiare il 2 giugno, gli uomini e le donne che hanno giurato fedeltà alla Costituzione (prima di assumere incarichi di governo) avessero ricordato a tutti i cittadini che la Repubblica è figlia di un voto e che il popolo italiano ha sconfitto una monarchia complice del fascismo grazie a un referendum. E soprattutto che, oggi come ieri, la democrazia e la Repubblica per vivere hanno bisogno del sostegno e dell’attiva partecipazione di tutti cittadini e delle cittadine.
Lo spettacolo che il 2 giugno si è consumato sotto i nostri occhi è, invece, stato di tutt’altro tenore. Non solo parate militari, ma anche esortazioni a disertare le urne, inviti ad assumere condotte acrobatiche ai seggi (si ritirano le schede, ma poi si restituiscono; anzi contr’ordine: fate solo registrare la vostra presenza, ma poi scappate), letture di comodo dell’art. 48 (si è arrivati al punto di sostenere che l’adempimento del dovere civico riguardi solo le elezioni e non i referendum), denuncia del carattere mistificatorio della consultazione derivante dalla presunta complessità dei quesiti.
Sia ben chiaro: con ciò non si intende dire che astenersi o propagandare l’astensione in vista di una consultazione referendaria sia un comportamento costituzionalmente inopportuno o, addirittura, illegittimo. Se però ad assumere questa condotta sono le istituzioni di governo il discorso cambia. E ciò per una molteplicità di ragioni di carattere sistematico: a) indetta una consultazione (politica o referendaria), coloro che ricoprono incarichi di governo devono procedere con disciplina ed onore (art. 54 Cost.) per assicurarne il corretto svolgimento e il successo, favorendo il più possibile la partecipazione al voto; b) diversamente da un movimento o da gruppi di cittadini che propagandano l’astensione, le forze di governo dispongono di fatto del servizio pubblico radiotelevisivo e sono in grado di condizionare l’intero sistema mediatico per “orientare” il voto; c) l’astensionismo elettorale ha raggiunto in questi anni livelli di guardia passando dal 90% degli anni Settanta a circa il 55% nelle ultime consultazioni. Incentivare queste tendenze sospingendo i cittadini a non partecipare è oggi un atto di grave irresponsabilità politica e costituzionale. Ed eviterei di richiamare l’art. 98 del TU delle leggi elettorali che se preso alla lettera prevederebbe addirittura che «chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati od a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o ad indurli all’astensione» è penalmente perseguibile; d) astenendosi in un referendum, il cittadino intende esprimere passivamente il suo apatico disinteresse verso una determinata consultazione (condotta quanto mai sconveniente per chi ricopre incarichi istituzionali) oppure esercitare attivamente il suo diritto al dissenso e alla protesta. Ma dissentire e protestare sono diritti che la Costituzione riconosce e garantisce solo agli individui, in forma singola e associata (art. 2 Cost.): ai senza potere e non a chi dispone del potere.
Ed è in quest’ ottica che la pur farraginosa nota del Viminale (n. 19/2013), oggi ripresa anche dal vademecum per le operazioni di voto del Ministero dell’Interno, dispone espressamente che – diversamente dagli elettori che, dopo aver ritirato la scheda, non si rechino in cabina e la riconsegnino (in questo caso l’elettore sarà comunque conteggiato come votante, ma la scheda verrà annullata) – coloro che praticano l’astensionismo «non dovranno essere conteggiati tra i votanti della sezione». Ma per esercitare il diritto all’astensione attiva solo due sono le soluzioni praticabili: a) l’astensione selettiva: l’elettore si reca al seggio per votare alcuni quesiti e non altri (e su questo nulla da eccepire); b) l’astensione totale: in questo caso l’elettore si reca al seggio per rifiutare tutte le schede e quindi per non votare (e, infatti, non viene considerato tale). Ma a che pro? Perché mai scomodarsi, uscire di casa di domenica, andare al seggio e poi non votare? Solo una è la spiegazione: l’elettore non intende limitarsi a esprimere passivamente (non uscendo di casa) il suo diritto all’astensione, ma vuole farlo attivamente: presentandosi al seggio, dichiarando il suo dissenso, esprimendo le ragioni della sua protesta, intralciando le operazioni di voto. E, a fronte di tale eventualità, la nota del Viminale, se da una parte consente questa condotta, disponendo che «dovranno essere annotati le generalità e il motivo della protesta e anche eventuali scritti che l’elettore voglia consegnare al seggio e che dovranno essere allegati al verbale». Dall’altra corre ai ripari prevedendo che «il presidente del seggio, per non rallentare il regolare svolgimento delle operazioni elettorali» dovrà procedere «in maniera sintetica e veloce».
Ed è sulle forme e modalità di espletamento di questo passaggio che l’intenzione espressa dalla Presidente del Consiglio (“Vado a votare ma non ritiro la scheda, è una delle opzioni”) rischia, fatalmente, di assumere i contorni di un enigma farsesco, di un “mistero buffo”. Non solo perché in questo caso a intralciare «il regolare svolgimento delle operazioni elettorali» sarebbe il vertice dell’esecutivo della Repubblica e non un singolo elettore o uno sparuto gruppo di giovani disobbedienti. Ma soprattutto perché – e anche con una certa curiosità – ci si chiede: quali mai potranno essere le ragioni della protesta? Quali i motivi che possono oggi indurre la carica politica più forte e potente di questo Paese a opporre il suo dissenso a un Presidente di seggio? Contro chi intenderà protestare e cosa potrà mai obiettare: la natura del procedimento referendario? La possibilità di ciascuno di noi di votare per estendere i diritti dei cittadini lavoratori e degli stranieri? Il fondamento democratico della Repubblica antifascista che ha fino a oggi consentito a donne e uomini di potersi liberamente esprimere con il voto?
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