Cosa rimane dopo i referendum sul lavoro e la cittadinanza? Molto più di ciò che si potrebbe desumere seguendo la discussione che va per la maggiore sui media. Davvero deludente salvo poche eccezioni. Si ragiona quasi esclusivamente se il referendum abbia o no rafforzato il cosiddetto campo largo a sinistra o se invece non sia stato un autogol che ha rafforzato ancora di più Meloni e i suoi alleati. Si sollecita da più parti una resa dei conti nel PD, enfatizzando le dichiarazioni di alcuni suoi esponenti politicamente irrilevanti. Alla discussione sfugge l’essenziale ovvero il rapporto tra l’esito referendario e gli obiettivi che si proponeva e, insieme, il significato che la campagna referendaria ha rappresentato nel suo svolgersi per la principale organizzazione proponente e per tutte le reti di attivismo e militanza coinvolte sul territorio. Cosa ha significato quindi per le migliaia e migliaia di delegati, attivisti, nuovi militanti coinvolti in una esperienza straordinaria?
Partiamo dagli obiettivi. Ridare centralità al lavoro libero e dignitoso costruendo una prima vera inversione di tendenza sul piano dei diritti e delle tutele andando nella direzione opposta alle leggi sbagliate degli ultimi trent’anni, che hanno visto coinvolte quasi tutte le forze politiche, e farlo puntando sulla partecipazione democratica. Quindi ridare, allo stesso tempo, centralità alla questione della democrazia, nella fase storica di maggiore crisi come dimostrano da anni i dati di tutti gli appuntamenti elettorali.
Merito della CGIL è aver colto la relazione stretta fra le due cose. Se chi per vivere ha bisogno di lavorare – per usare le parole del suo segretario generale – si sente marginalizzato e irrilevante perderà progressivamente fiducia nella possibilità di veder cambiare la situazione attraverso la normale dialettica parlamentare, e perderà fiducia nella stessa partecipazione democratica.
Il referendum chiamava queste soggettività a decidere in prima persona sul proprio presente e sul proprio futuro. Votare diventava un modo per ribellarsi allo stato di cose presente. Discutere, come fanno un po’ tutti, dei suoi effetti sullo schieramento politico, rivela ancora una volta quello che il referendum voleva mettere in discussione, l’autoreferenzialità della politica, l’attitudine cioè a schierarsi sui problemi più per quel che significano per il proprio schieramento, che per gli avanzamenti o per gli arretramenti che segnano per la vita e per il lavoro delle persone.
È indubbio che se l’obiettivo del referendum era abrogare “le leggi balorde” sul lavoro, che hanno tanti padri diversi, a destra e a sinistra, l’obiettivo non è stato raggiunto. Ma se l’impegno per un lavoro libero e dignitoso, la lotta al precariato e al razzismo, è la missione fondamentale del sindacato, il referendum va visto per quel che rappresenta in questo cammino, e per quel che rappresenta nella storia della CGIL, che di esso è stato il principale promotore.
E allora che quasi 15 milioni di persone siano andate a votare, nonostante il boicottaggio attivo di chi ci governa (e di alte figure istituzionali), la scarsissima copertura mediatica dell’evento, senza dimenticare la bocciatura (dall’evidente sapore politico bipartisan) del referendum sull’autonomia differenziata, in un periodo in cui tutte le elezioni faticano a superare il 50% (dei votanti), è un dato enorme. Quindi certamente sconfitti, ma assolutamente non vinti.
Così come il fatto che, in centinaia di assemblee, nei luoghi di lavoro ma anche in contesti normalmente più lontani dal tradizionale agire del sindacato, dalle parrocchie all’associazionismo diffuso e al volontariato dei piccoli comuni, la CGIL abbia parlato a decine di migliaia di persone, e si sia discusso del lavoro, della sua sicurezza, della sua dignità, come valore fondante della stessa democrazia costituzionale. E la CGIL ha superato sé stessa, provando finalmente a realizzare, nei fatti, quel sindacato di strada che si era impegnata a essere nei suoi ultimi congressi. La capacità di ricostruire un nuovo senso di comunità e di militanza a partire dal territorio non era affatto scontato. In molti contesti ciò è avvenuto e nel concretizzarsi ha dimostrato plasticamente che la costruzione di rete all’interno e la costruzione di rete all’esterno sono il vero amplificatore della forza organizzata del sindacato, ciò che rende più efficace la rappresentanza e che fa sembrare alla portata il raggiungimento degli obiettivi. Anche quando sono difficilissimi. Per questo l’entusiasmo di chi ha animato la campagna referendaria (a cui certo è corrisposta una giusta delusione) è l’entusiasmo di chi ha contribuito a costruire una politica dal basso partendo dai bisogni del lavoro. Una cosa enorme in un Paese che viene da quarant’anni di delegittimazione del lavoro organizzato e di retorica della flessibilità “buona” che ha significato, come tutti ormai riconoscono, precarietà, bassi salari, perdita di dignità e valore. La partecipazione significativa al voto delle donne e dei giovani, uno dei dati evidenziati già nelle prime ore dalla chiusura delle urne, dice molto perché più di tutti hanno subito gli effetti di queste politiche.
Il referendum, pur non avendo conseguito il quorum, quella strada l’ha finalmente aperta, assieme alla presa di coscienza del ruolo insostituibile del sindacato per costruire una alternativa allo stato di cose presente.
Più che valutare il referendum per ragionare sullo stato di salute della possibile coalizione di governo alternativa alla destra, per il sindacato sarebbe giusto ragionare su come è necessario cambiare per essere all’altezza di questa sfida, per provare a rappresentare in maniera unitaria un mondo del lavoro sempre più frammentato. Sapendo che questo sarebbe anche il contributo più grande che la CGIL può dare alla stessa sinistra politica, perché la trasformazione sociale, il superamento della frammentazione, della solitudine, dell’individualismo, è la condizione di base del cambiamento politico.
Da questo punto di vista bisognerebbe cominciare a esaminare i dati, non sulla base dei soli sondaggi necessariamente parziali, ma attraverso un lavoro più approfondito, che sarà indispensabile per guardare a fondo in questa esperienza irripetibile, almeno in tempi brevi.
Possiamo iniziare da ciò che abbiamo visto. In molte città quelli più positivi sono venuti dalle periferie, spesso dalle zone in cui maggiore è stato l’astensionismo alle consultazioni elettorali degli ultimi anni. Si è cominciato a infrangere un muro, quello che aveva relegato il confronto politico nei centri urbani, nelle zone di ceto medio più istruito e benestante. Ma, secondo l’impressione dei tanti presenti ai seggi e impegnati precedentemente nella campagna referendaria (ma confermati dai sondaggi), c’è stata una scarsa presenza al voto della fascia d’età centrale, che è poi quella dei lavoratori stabili, tradizionale punto di forza del sindacato e dove si concentra ancora oggi il grosso dei suoi iscritti. La parola d’ordine della solidarietà verso i più deboli, il ragionamento sensato che la precarietà e i subappalti, la stessa marginalizzazione degli immigrati alla base di gran parte del lavoro nero e a prezzi stracciati a cui le aziende ricorrono senza vincoli di sorta, che sono alla base della stessa contrazione dei salari di tutti, hanno solo parzialmente scaldato i cuori dei lavoratori stabilmente occupati. Molti dei quali considerano addirittura l’esternalizzazione a ditte d’appalto, spesso fatte di lavoratori stranieri, un fatto che ha garantito la tenuta economica delle loro aziende e la stabilità del loro lavoro. La difficoltà nella partecipazione al voto incontrata in gran parte del Mezzogiorno, che vive della sua specifica e irrisolta crisi intrecciata a quella del Paese ma anche in territori dove l’insediamento del lavoro è forte, rappresenta, altrettanto, grandi questioni.
Si pongono quindi domande impegnative a cui la CGIL sarà chiamata a rispondere nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Noi ci inseriamo nel solco di queste domande e dell’inevitabile riflessione che suscitano. Axel Honneth nel suo ultimo prezioso contributo – Il lavoratore sovrano, lavoro e cittadinanza democratica – approfondisce il rapporto tra teoria democratica e ruolo del lavoro: “uno dei più grandi difetti di quasi tutte le teorie della democrazia – scrive – è ostinarsi a dimenticare che i soggetti di cui si compone il sovrano da esse invocato a gran voce, sono sempre, per la maggior parte, persone che lavorano”. È di grande interesse leggere nella prefazione all’edizione italiana un omaggio al pensiero politico di Bruno Trentin e della CGIL, in particolare, quando scrive che nelle società democratiche i rapporti di lavoro sono dignitosi quanto democratizzati al loro interno, affinché ogni lavoratore e ogni lavoratrice possono concepirsi come membri di una collettività che si autodetermina, parafrasando proprio Trentin.
Per la cultura democratica del nostro Paese questa è stata una conquista fondamentale che ha una radice precisa. L’autoemancipazione del lavoro prima ancora che di Trentin era parte della cultura politica di Giuseppe Di Vittorio che ha segnato la storia del sindacato italiano e della CGIL in particolare. A partire dalla nostra Carta costituzionale. Quante sono le Costituzioni fondate sul lavoro? Perché la nostra è assolutamente unica? Per una ragione essenziale: senza il contributo delle lavoratrici e dei lavoratori il nostro Paese non si sarebbe mai riscattato dal fascismo e non si sarebbe mai liberato dall’occupazione nazista. Gli scioperi del 1943 e del 1944 hanno legittimato i lavoratori a scrivere la Costituzione mentre le classi dirigenti erano ampiamente compromesse con il regime e mai avrebbero avuto titolo a vergare un rigo della Carta. È quindi più evidente nel nostro Paese il rapporto intrinseco tra lavoro e democrazia. Ma questo binomio inscindibile nella Carta vive solo nella materialità dei rapporti sociali. La crisi democratica inizia con la ristrutturazione capitalistica della seconda metà degli anni Settanta che avrà come obiettivo, non a caso, proprio il sindacato nella sua forma più democratica e partecipata E qui veniamo a un nodo, per noi, mai veramente sciolto. Come, cioè, sia mancata una riflessione collettiva vera tanto nel sindacato quanto nei partiti eredi della tradizione di rappresentanza del movimento operaio su ciò che è accaduto a partire da quel tempo attraversando gli anni Ottanta e Novanta, e come questa mancanza abbia inciso sulle difficoltà dell’intero sindacato di costruire una nuova dimensione strategica di fronte ai meccanismi congiunti del monetarismo e della ristrutturazione del sistema capitalistico. La sconfitta del sindacato industriale degli anni Settanta cioè del più forte sindacato del mondo, determinante nella costruzione della democrazia materiale e quindi dell’applicazione della Costituzione è anche, appunto, la sconfitta di un sindacato fortemente connotato dalla democrazia. Il sindacato dei consigli. Bruno Trentin, che di quel sindacato fu artefice insieme a tutta la FLM, riflette nel 1994, al termine del suo mandato di segretario generale della CGIL, in modo lucido nella premessa al libro intervista di Pio Galli sulla vertenza FIAT, uno spartiacque nella storia del nostro paese. Pio Galli era nel 1980 segretario generale della FIOM. Provano a riproporre un dibattito consapevoli che tanto di quella storia era stato rimosso. E nella rimozione era venuta meno la capacità del sindacato di situarsi correttamente nella trasformazione del sistema capitalistico. Per loro (e per noi) l’idea che fosse l’ingresso nella stanza dei bottoni, cioè il governo del Paese la vera strada per governare le trasformazioni del capitalismo, da sempre forte nel PCI, influì molto a partire dalla svolta dell’Eur sulle scelte della CGIL. Non sappiamo se la strategia del sindacato nelle crisi economiche degli anni Settanta, come dice Trentin, se accompagnata da una capacità progettuale avrebbe potuto risolversi in qualcosa in più “di una mera disponibilità alla moderazione salariale disancorata dalla forte domanda di democrazia e di potere che era presente in tante lotte sociali”. Oggi con certezza possiamo dire solo una cosa: la mancata riflessione sulle ragioni vere di quella sconfitta, la difficoltà a comprendere che non tanto di post-taylorismo si trattava (o non solo) ma di strutturazione del capitalismo a rete e filiere (accelerata negli anni successivi dai processi di digitalizzazione) ha impedito per anni di riflettere su quale forma dell’azione sindacale fosse davvero più adeguata a rappresentare il lavoro frammentato del nuovo sfruttamento.
Del sindacato verticale degli anni Settanta si è abbandonata la dimensione democratica e questo, come Pio Galli e Trentin sostenevano, inevitabilmente ha portato a una deriva burocratico istituzionale del movimento sindacale italiano, che precipita, senza una discussione vera su quei nodi, negli anni Novanta. Tutto ciò è avvenuto, peraltro, in un contesto che richiedeva una capacità conflittuale rinnovata. Sarebbe auspicabile una parallela riflessione su quali siano gli strumenti organizzativi per sostenere conflitti anche prolungati, riflessione anche questa solo sfiorata in quel tempo e subito accantonata, forse perché si era diffusa la convinzione che la conflittualità sarebbe stata sempre disponibile e al massimo da governare. In un mondo dove il lavoro si è frammentato e impoverito questo ovviamente non è così, ma proprio perché non è così il conflitto a partire dalla riuscita degli scioperi era e resta strumento insostituibile del normale agire sindacale. Mettere tra parentesi le sconfitte, non indagarne con cura le ragioni di fondo, non è mai una buona cosa per costruire la ripresa. La riflessione sulla sconfitta referendaria può quindi diventare l’occasione per un bilancio di più lungo periodo e, quindi, finalizzato alla costruzione di una dimensione strategica anche essa di lungo periodo. C’è certo bisogno di una grande iniziativa, in gran parte già in atto, sulla questione salariale e su un rinnovo adeguato dei contratti di categoria, ma insieme è necessario riflettere su come la crisi politica e culturale dei consigli ci porti a disegnare in maniera diversa dal passato la stessa individuazione dei soggetti essenziali alla costruzione di quel sindacato di strada di cui la stessa campagna referendaria ci ha manifestato la possibilità e la necessità. Trentin proverà a recuperare quella storia di democrazia nel 1993 con il protocollo del 23 luglio inserendo le rappresentanze sindacali unitarie elette dai lavoratori nel modello sindacale italiano. Ma riusciranno ad affermarsi solo nei settori pubblici grazie alla grande intelligenza di Massimo D’Antona, che costruirà la legge che regola tutt’ora la rappresentanza, e quindi le relazioni industriali, in quel mondo, basandole sulla democrazia, sull’elezione dei delegati e delle delegate come componente essenziale. Nel lavoro privato la diffusione delle rappresentanze elette ha conosciuto storie diverse per tante ragioni – a partire dai rapporti di forza – ma certamente oggi la questione dell’applicazione di un modello democratico partendo dall’articolo 39 della Costituzione si pone come priorità. Del resto, la frattura tra organizzazioni sindacali si può ricomporre solo nella dimensione democratica del voto. Riportare il lavoro alla partecipazione politica richiede una capacità maggiore di rappresentarlo nella sua frammentazione associata ad una rinnovata cultura e pratica democratica. Negli anni Settanta, quando gli operai con le loro lotte hanno visto aumentare i salari e la loro capacità di controllo sulle condizioni di lavoro, i consigli rappresentavano la più forte garanzia per l’unità sindacale e il legame stretto tra la contrattazione nazionale condotta dalle categorie e la contrattazione decentrata nei luoghi di lavoro, sui tempi e sui ritmi di lavoro, e sulla sicurezza. I lavoratori vincenti erano il punto di riferimento anche di grosse battaglie politiche e culturali, e di grandi riforme. Il sistema sanitario nazionale, la scuola unica di base – arricchita tra l’altro dalla presenza fisica degli operai attraverso le 150 ore – la stessa legge Basaglia che chiudeva i manicomi, ebbero negli operai e nei consigli una solido punto di riferimento politico. E fu in quella stagione che si cominciò a ragionare dei consigli di zona, come modo per unificare intorno alla classe operaia un fronte più vasto, teso al miglioramento della vita e alla partecipazione politica, nel proprio territorio, nel proprio comune, nel proprio quartiere. In molte realtà, a Reggio Emilia, come ricorda Landini nel suo libro autobiografico, ma anche a Genova e in altre realtà industriali, gli operai contrattarono con le aziende affinché l’1% dei loro salari fosse destinato a investimenti pubblici a vantaggio di tutta la popolazione, soprattutto quella più povera e marginalizzata. Per fare e rendere più accoglienti asili nido, biblioteche, scuole, strutture sanitarie. La crisi economica e del modello produttivo, il ciclo lungo della finanziarizzazione e dell’austerità, che provocò un arretramento salariale e un indebolimento del peso politico del sindacato, portò anche alla crisi dei consigli e al loro progressivo rinchiudersi in difesa. Dall’1% del monte salari per investimenti sociali, si passò al welfare di fabbrica, a partire da quello sanitario, come compensazione della progressiva incapacità dei salari a garantire una vita dignitosa. Proteggere sé stessi e le proprie condizioni di vita, diventò l’imperativo di fase. E quando ci si si difende spesso il diverso è vissuto come un potenziale nemico. La mancata partecipazione di una parte consistente dei lavoratori stabili al voto referendario ci dice che siamo ancora in questa fase. Superarla significa agire su due fronti. Uno è quello dell’impegno per rinnovi contrattuali che scongiurino innanzitutto l’arretramento dei salari rispetto all’inflazione – quella cosa per cui è sempre più difficile arrivare alla fine del mese – e mirino alla conquista di una organizzazione del lavoro fondata su spazi di riconoscimento professionale, partecipazione al processo produttivo e autonomia, quindi, libertà. L’altro è assumere la consapevolezza che i soggetti fondamentali e centrali per la costruzione del sindacato di strada non possono più essere uguali a prima, che è necessario rafforzare il livello orizzontale delle Camere del lavoro e adottare una modalità che valorizzi l’agire in rete a vantaggio anche dell’azione collettiva nei luoghi di lavoro in cui convivono, spesso in conflitto tra loro, lavoratori con contratti diversi, e con un diverso sistema di tutele e di garanzie. La catena del valore si allunga e mette all’opera soggetti diversi, dalle ditte d’appalto a un indotto che spesso si frantuma fino al lavoro autonomo individuale, ai cosiddetti imprenditori di se stessi, ma che svolgono – per usare una espressione proprio di Massimo d’Antona – un lavoro strumentale all’attività economica altrui. Per rappresentarli, per farli diventare soggetti consapevoli del loro ruolo e con qualche voce in capitolo sul loro destino, non basta coordinare le categorie a cui in quel momento afferiscono, ma bisognerà pensare a delegati di sito – sia (esso) la fabbrica, o un centro logistico, un ospedale o una università – e di filiera – la logistica e l’agroalimentare – che trovino la loro collocazione e il loro coordinamento nelle Camere del lavoro. Tra l’altro è questa dimensione orizzontale che può alimentare con più forza la stessa verticale delle categorie. Se negli anni Settanta era dalle vittorie in fabbrica che si partiva per investire il territorio, oggi la strada e il sindacato di territorio è il punto di partenza per la stessa rivitalizzazione del conflitto nei luoghi di lavoro e di una nuova stagione consigliare.
Il sindacato di strada, per rispondere alle domande che nascono dai giovani, da quegli stessi che massicciamente hanno partecipato al referendum, non può avere una dimensione puramente lavoristica. Deve provare a rispondere alle domande che al mondo del lavoro rivolgono quelli che si mobilitano per la pace e per contrastare il riscaldamento climatico. Da quelli che rivendicano il diritto alla casa come quello alla sanità.
Bisogna riappropriarsi delle indicazioni che nacquero dallo straordinario incontro in Vaticano fra i 5.000 delegati della CGIL con Papa Francesco, che con la Laudato si’ ha tracciato la strada di una strategia capace di tenere insieme pacifismo, giustizia ambientale e giustizia sociale. Visione che è stata al centro della grande manifestazione a San Giovanni su “la via maestra”. Ma l’impegno per la pace e sull’ambiente implica un cambiamento forte nel modo di fare sindacato. Se prima l’idea di controllo poteva limitarsi a confrontarsi con i processi produttivi, e far valere la volontà dei lavoratori, le loro esigenze di salute e di sicurezza, la loro stessa intelligenza, rispetto a una impresa che pensava di poter decidere unilateralmente tempi e ritmi di lavoro, oggi il controllo, se vuole essere elemento di una battaglia per la pace e per l’ambiente, deve riguardare anche il prodotto, non solo il come, ma anche il perché e il per chi si produce. Del resto, quasi un secolo fa, un filosofo liberale come John Dewey diceva che quello che distingueva il lavoro degli schiavi da quello dell’uomo libero era la conoscenza o meno dello scopo e dell’utilità del proprio lavoro. E nel territorio, e non solo nella politica nazionale, vanno trovate le alternative occupazionali e messe in moto le attività formative necessarie, per passare dalla produzione di armi e di merci che distruggono il territorio e l’ambiente, a produzioni orientate al benessere e al ben vivere delle persone. Tutto questo è necessario e possibile. Necessario, perché se il nostro Paese, se l’Europa, tarda ancora a mettere in atto una transizione ecologica del nostro modo di produrre e di vivere, saremmo fuori da quello che è oggi il cuore pulsante della innovazione produttiva e di sistema nel mondo, a meno che il mondo non voglia rassegnarsi alla propria fine. Possibile, perché, tanti esempi a livello territoriale già ce lo dimostrano, si può progettare la crescita di lavoro buono, per i suoi effetti e per la sua qualità, di fronte alla necessità di ridurre o di dismettere produzioni che fanno male all’ambiente e alla vita.
Ed è a livello di strada che oggi possiamo affrontare le questioni che più pesano sulla vita delle persone che in tanti modi diversi lavorano. La questione del costo della casa e del costo della salute pesano oggi in maniera decisiva sul reddito dei lavoratori. Determinano come il salario dia la possibilità di arrivare o non arrivare alla fine del mese. Il lavoro è povero anche per queste ragioni. Sulla salute anche è necessario ragionare sulle scelte del passato e misurarne la congruità col presente. Nella sanità, per esempio, abbiamo tutti ceduto in anni non lontani alla ideologia che vedeva nella azienda il modello organizzativo che avrebbe risolto il problema dei costi e della burocrazia. E abbiamo troppo tranquillamente accettato che si passasse dalle Unità sanitarie locali alle Aziende sanitarie. Per scoprire poi che dentro la logica dell’azienda, dietro i numeri progressivamente sparivano le persone, e che si indebolivano, fino quasi ad azzerarsi le attività di prevenzione sul territorio e nei luoghi di lavoro. Le USL nacquero anche dalle lotte per la salute negli ambienti di lavoro, dalla straordinaria alleanza dei consigli dei lavoratori con l’intelligenza di uomini come Maccacaro e di tanti giovani medici che decisero di diventare medici del lavoro, per svolgere un servizio sociale, in fabbrica e sul territorio, per difendere lì la salute e il ben vivere delle persone. Nell’azienda la prevenzione è pressoché sparita. E sono spariti i soggetti che vanno nelle fabbriche e nei cantieri non solo per ispezionare la responsabilità delle sventure che capitano, ma per prevenirle, valutando coi lavoratori quali sono le cause che sono all’origine di quelle sventure ormai quotidiane. Col referendum avevamo indicato nei subappalti una causa decisiva. Ed è vero, ma con la contrattazione territoriale dobbiamo fare di più, per rimettere in moto l’alleanza fra le rappresentanze dei lavoratori e il sistema che governa la nostra salute, nei luoghi di lavoro e nel territorio, a proposito di prevenzione. La prevenzione necessaria non è solo quella dell’analisi precoce della malattia per curarla in tempo – cosa che tra l’altro non avviene – ma soprattutto quella di ridurre drasticamente le cause delle malattie e degli incidenti sul lavoro. Ed era questo il compito fondamentale per cui i medici del lavoro sono nati. E riflettere a livello nazionale, noi e la politica, se l’aziendalizzazione della sanità sia stata da questo punto di vista una scelta sensata.
Il sindacato di strada è insomma una scelta ineludibile, ma molto complessa, che richiede puntuali verifiche delle politiche nazionali e della configurazione politica e organizzativa del sindacato sul territorio nel rapporto con le categorie. Un lavoro che il sindacato deve fare al suo interno attraverso una riflessione attenta che metta a valore limiti e risultati dell’esperienza referendaria, ma anche all’esterno, nel confronto con quel vasto mondo associativo che è stato al nostro fianco nelle mobilitazioni per la pace e per l’ambiente, e soprattutto con le migliaia e migliaia di nuovi attivisti protagonisti della campagna referendaria.
Le camere del lavoro dovranno essere la sede in cui naturalmente si confrontano col sindacato le associazioni e i comitati territoriali, i soggetti che sul territorio si battono per il diritto alla casa, e quelli che danno vita alle comunità energetiche. E nelle aree interne, e non solo, i giovani contadini che da soli o in forma associata si impegnano per una agricoltura biologica e il più possibile a chilometro zero e scoprono anche lì nuove possibilità di lavoro. E i giovani che si inventano lavoro nella salvaguardia dei beni culturali, e i tanti che si impegnano in attività di volontariato, per i quali è necessario valorizzare le competenze e promuoverne i diritti, perché è insensato continuare a considerare lavoro produttivo solo quello fatto per il mercato delle merci, e lasciare in ombra il lavoro che si fa per alleviare la miseria del genere umano, e che contribuisce alla riduzione della miseria e della povertà. E portare sul territorio la lotta che dovremmo fare per il salario minimo, ma anche riprendendo la discussione politica e l’iniziativa per un vero reddito di cittadinanza. Il sindacato di strada come ritorno alle Camere del lavoro delle origini, quelle in cui disoccupati, tute blu e giacchette nere, donne che facevano il lavoro a domicilio – lo stesso che fanno oggi molti forzati del computer che forniscono i dati alle centrali dell’intelligenza artificiale –, maestri e insegnanti che volevano insegnare a chi ne aveva bisogno e lavoratori che volevano imparare si trovavano insieme per mettere in discussione lo sfruttamento del lavoro e le disuguaglianze. Trentin e prima di lui Di Vittorio ci hanno ricordato che proprio questa natura orizzontale del sindacato delle origini nel nostro Paese, fu alla base del superamento del sindacalismo di mestiere, e della costruzione dei diversi sindacati dell’industria per andare verso un modello solidaristico radicato nei luoghi di lavoro quanto nel territorio. In condizioni mutate, crediamo che la cosa valga anche per l’oggi.
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