Democrazia, Diritto, Temi, Interventi

Articolo pubblicato su “il manifesto” dell’11.07.2025.

Dopo l’esito referendario è iniziata la caccia al quorum. Una legge di iniziativa popolare è stata presentata per sancirne la totale eliminazione. E nei più disparati ambienti politici e sociali si torna a discutere di quorum zero, quorum mobile, quorum selettivo e altri quorum ancora.

Né vi è da stupirsi. L’istituto referendario è oggi in evidente sofferenza. E che si discuta della sua capacità di tenuta è comprensibile. Ciò che si comprende meno è il tentativo in atto di riversare tutte le responsabilità sull’esistenza del quorum. E ciò al fine di sbarazzarsene (o quanto meno di comprimerne la forza) una volta per tutte. Una soluzione che mi pare francamente debole, remissiva e troppo incline ad accettare lo stato attuale delle cose. Sarebbe come dire che preso atto che la democrazia costituzionale è in crisi e che anche ai referendum abrogativi solo in pochi oramai vanno a votare, non vi sia attualmente altra via d’uscita che assumerne il dato e stabilire in Costituzione che per l’abrogazione di una legge sarà sufficiente una minoranza di elettori.

Anche se non sono pochi coloro che ritengono che, una volta travolto (o ridotto) il quorum, la modifica sortirà l’effetto opposto e la quasi totalità dei cittadini si recherà diligentemente alle urne. Che l’abbassamento del quorum sia destinato a innescare un effetto fatale e virtuoso sul piano della partecipazione al voto è tutto da dimostrare. Così come tutto da dimostrare è il richiamo ripetuto e incalzante, da parte di questo stesso orientamento, ai referendum costituzionali (e pertanto senza quorum) svoltisi fino a oggi in Italia. Sia perché diversa è la natura politica e costituzionale dei due referendum (un referendum abrogativo su una legge è cosa assai diversa da un referendum oppositivo in materia costituzionale), sia perché la partecipazione maggioritaria al voto non è un effetto scontato nemmeno in questi casi: nel 2001, in occasione del primo referendum sul nuovo titolo V, l’affluenza al voto non andò oltre il 34,1%.

Cancellare parzialmente il quarto comma dell’art. 75 non basta quindi per cancellare la crisi democratica in cui versa il paese. È vero che il deludente esito referendario ha, a tutti noi, mostrato la grave condizione di dissesto politico presente. Ma anziché guardare il dito (il quorum) la cultura costituzionalistica, le componenti più sensibili della società civile, le forze progressiste dovrebbero volgere il loro sguardo e riflettere sulle cause, la portata, la matrice sociale che hanno, in questi anni, alimentato il crollo della partecipazione.

Chiudersi in desolanti dibattiti sulle asticelle dei quorum e abbandonarsi a estenuanti tecnicismi normativi rischia di essere un esercizio autoassolutorio, un espediente comodo per evitare di fare i conti con la realtà. E la realtà che abbiamo davanti e quella di un paese nel quale vanno a votare sempre meno le donne, i più poveri, le periferie delle grandi città, le aree più disagiate del paese. Luoghi nei quali nemmeno la degenerata pratica del voto di scambio regge più (perché non c’è più niente da scambiare).

La frattura tra l’Italia che vota e l’Italia che non vota è una frattura anzitutto sociale. Né si tratta di una patologia esclusivamente nostrana, ma piuttosto dell’esito tenacemente perseguito dall’offensiva neoliberale. Le sue origini sono da ricondurre a quelle tecniche di “induzione all’apatia” teorizzate dalla Trilaterale sin dagli anni Settanta e da quella stessa Commissione perseguite per arginare “l’eccesso di democrazia”.

Anche in Italia, alla fine del secolo scorso, per assecondare il mito della governabilità si cominciò a demolire la democrazia rappresentativa, la proporzionale, il sistema dei partiti. E tutto ciò per fare spazio a meccanismi elettorali sempre più selettivi, alla retorica del capo, alle virtù della democrazia “immediata”. E anche a sinistra non furono pochi coloro che, demolita la “Repubblica dei partiti”, non esitarono a inneggiare alla “Repubblica dei referendum”, così come euforicamente forgiata dalla promettente stagione degli anni Novanta. Oggi anche la “Repubblica dei referendum” si è dissolta, travolta proprio come i partiti dalla crisi democratica.

Né avrebbe potuto essere diversamente. La spirale neoliberale, una volta innescata, ha lentamente eroso tutti gli spazi della vita democratica mediata e immediata. E lo ha fatto sterilizzando ciò che Pietro Ingrao era solito definire l’immediatezza della sovranità. E cioè l’idea che attraverso il voto sia possibile cambiare la condizione materiale di vita delle persone. Oggi a crederci sono in pochi. E la responsabilità non è solo dei Parlamenti deboli. Ma anche dei referendum fragili, nonostante l’alta affluenza al voto: nel 2011 i cittadini italiani andarono a votare in maggioranza per l’acqua pubblica. Ma solo qualche mese dopo, un Governo tecnocratico, sorretto da una straordinaria maggioranza parlamentare, disse che questo non era possibile perché altre tecnocrazie, quelle attive nell’UE, avevano assunto altre decisioni. E a sostenere convintamente quell’esecutivo e quella soluzione erano anche alcune formazioni politiche che avevano aderito alla campagna referendaria. Il crollo dell’affluenza al voto è il punto di condensazione (anche) di queste tendenze e di queste scelte che un ceto politico improvvisato e allo sbando ha in questi decenni alimentato.

Chi ha condotto la recente battaglia referendaria sapeva bene che questo era un rischio. Di qui i condivisibili inviti rivolti alle aree del disagio e del non voto. Inviti che andavano nella giusta direzione. Ciò che è invece mancato è il soggetto politico, una grande organizzazione di massa in grado di veicolare nella società (e soprattutto nelle aree del disagio) quell’appello e quelle istanze.

In questo quadro, due sono le emergenze che l’esito referendario segnala alla cultura democratica del Paese. La prima investe il “disagio del lavoro” (tornato al centro dell’offensiva politica grazie alla mobilitazione referendaria). La seconda riguarda la condizione degli stranieri. Sulla capacità di tenuta del principio lavorista (art. 1) e dello statuto costituzionale dello straniero (art. 10) in Italia si gioca il futuro della democrazia costituzionale.

Ma per far fronte a queste emergenze dobbiamo anzitutto provare a ricomporre la frattura, consumatasi in questi tempi, tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. E ciò può avvenire solo sperimentando nuovi istituti di partecipazione in grado di riattivare la dialettica democratica tra rappresentanza e referendum, tra mediazione e deliberazione popolare. Mi riferisco – com’è evidente – al referendum propositivo. Un istituto nuovo e in grado di rafforzare l’iniziativa popolare delle leggi e, congiuntamente ad essa, il ruolo del Parlamento. E tutti noi sappiamo quanto vi sia bisogno, in questa fase, dell’una e dell’altro.

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