Democrazia, Diritto, Politica, Temi, Interventi

Articolo pubblicato su “il manifesto” del 25.07.2025.

L’approvazione al Senato della riforma sulla giustizia non è solo un attacco alla magistratura, è anche uno stravolgimento del carattere “rigido” della nostra Costituzione. Stabilisce la definitiva attrazione della Costituzione nella disponibilità del Governo. Non una soggezione della riforma alla volontà della maggioranza parlamentare si badi, ma, ancor peggio, a quella del potere esecutivo. Si tratta dell’inversione di uno tra i principi fondamentali del costituzionalismo del secondo dopoguerra che fu ben riassunto in una famosa affermazione di Pietro Calamandrei, secondo il quale “quando si scrive la Costituzione i banchi del Governo devono restare vuoti”. Ora, invece è il Parlamento che deve essere svuotato, reso organo di mera ratifica di quel che viene stabilito tra i componenti del Governo e approvato dal Consiglio dei ministri. Ha dell’incredibile, ma è esattamente così: la Costituzione viene assimilata a un decreto-legge, approvato dal Governo e convertito in legge dal Parlamento. Come per questo atto straordinario, anche per la modifica del testo costituzionale si appone la fiducia per evitare ogni possibile modifica nel corso dell’iter parlamentare. È l’esito di un lungo regresso costituzionale che ha finito per travolgere lo spirito lasciando inalterata la lettera della Costituzione. L’articolo 138 infatti indica la differenza tra approvazione delle leggi e degli atti aventi forza di legge ordinarie, e una revisione della Costituzione. Le necessarie maggioranze qualificate per l’approvazione dei testi, la obbligatorietà di una doppia approvazione conforme di entrambe le Camere, l’eventualità di poter indire un referendum di natura oppositiva e senza quorum, sono tutti passaggi finalizzati a evitare interventi “estemporanei”, indotti dall’urgenza di provvedere o da interessi particolari; regole procedurali mirate a coinvolgere e responsabilizzare tutti i rappresentanti in Parlamento. Ciò vale a distinguere la nostra Costituzione “democratica e pluralista” da quelle “autocratiche e decisioniste” che si sono affermate in altre diverse esperienze storiche. È questo lo spirito (“costituente”) che pretende non l’unanimità, ma almeno il confronto tra le differenti forze nel momento in cui si modificano i principi costituzionali; quelle medesime forze che poi saranno legittimate a governare in base al diverso principio di maggioranza. Così, in Assemblea costituente si raggiunse l’accordo tra culture liberali, cattoliche e social-comuniste, mentre solo alcune di queste governavano il Paese. È questa la doppia legalità – costituzionale e ordinaria – che ha tenuto assieme la democrazia costituzionale nel secondo dopoguerra in Italia. Uniti nella Costituzione, divisi al governo del Paese.

È vero che quest’equilibrio s’è incrinato da tempo. Da quando – era il lontano 2001 – si è affermata una prassi delle revisioni costituzionali a maggioranza assoluta, non invece – secondo l’ipotesi privilegiata dalla Costituzione – dei due terzi dei componenti del Parlamento. Ora però si assiste a un salto di qualità: dalle riforme costituzionali di sola maggioranza alle riforme costituzionali del solo Governo contro o in assenza del Parlamento.

Prima la Camera, poi il Senato non hanno potuto far altro che limitarsi a svolgere una recita, a rappresentare la divisione impotente della realtà. Inizialmente, i costituzionalisti e gli esperti convocati dalle Commissioni Affari costituzionali che hanno sollevato le più diffuse critiche al testo: auditi, ma non ascoltati. Poi, le opposizioni che hanno svolto impegnate analisi e pronunciato accorati appelli: ascoltati, ma non discussi. Infine, il silenzio assordante di una maggioranza che era solo in attesa del voto per poter acconsentire senza parlare. Persino chi, pur sostenendo il Governo, aveva mosso alcune osservazioni per poter “migliorare” la riforma con emendamenti che poco avrebbero cambiato nella sostanza, alla fine hanno disciplinatamente votato il testo del Governo, per “ammirazione” nei confronti di Giorgia Meloni, com’è stata affermato dal più autorevole parlamentare di maggioranza che aveva manifestato qualche fondata preoccupazione (Marcello Pera). Le ragioni del Governo hanno dunque dominato le menti e i cuori dei nostri parlamentari, facendo venir meno ogni dovere di svolgere le proprie funzioni “senza vincolo di mandato” e in rappresentanza della Nazione (non invece del Governo).

Tutto quanto sin qui rilevato concorre a definire un particolare modello di democrazia costituzionale, diverso da quello formalmente ancora vigente. Un passaggio dalle costituzioni “di compromesso” a quelle “dei vincitori”, secondo la ben nota e insuperata distinzione propugnata da Carl Schmitt sin dai tempi di Weimar. Una concezione della Costituzione intesa come “decisione politica fondamentale” che si regge sulla contrapposizione tra “amici” e “nemici”. In fondo è lo scenario che veniva delineato propria da Schmitt: oggi siamo di fronte ad un Parlamento, entrato in una fase di “autodisfacimento”, che non riesce ad avere altra funzione se non quella di “teatro della divisione”. In tale situazione la volontà di un popolo non può che essere rappresentata dal “grido della moltitudine riunita che approva o respinge: l’acclamazione”. È questa la democrazia del Capo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *