Democrazia, Diritto, Politica, Temi, Interventi

Relazione tenuta dall’autrice al convegno “Le trasformazioni del controllo sociale. Cinquant’anni di studi sulla questione criminale”, tenutosi all’Università di Bologna dal 25 al 27 settembre 2025.

Oggi siamo spettatori di un genocidio e di una pulizia etnica, ambedue crimini contro l’umanità. Ciò che chiamiamo criminologia critica deve non solo denunciare e condannare, ma analizzare i come e i perché di questi delitti, e io ringrazio i e le componenti del nostro blog per avere iniziato per tempo questa analisi. C’è poi una guerra in Europa, un quasi dittatore negli USA e uno spostamento verso le destre radicali in Italia e molti altri paesi, non solo europei. Quando cominciammo con la Questione Criminale c’era stato il golpe in Cile, c’era una feroce dittatura in Argentina, le stragi di Stato e il terrorismo in Italia e Germania. Eppure, forse perché ero giovane, lo ricordo come un periodo di speranze e progetti di libertà e giustizia sociale. Dalle ricerche che si leggono, pare che non sia più così, almeno per i e le giovani di questa parte di mondo, anche se una rivoluzione l’abbiamo fatta e vinta: il femminismo.

In questa breve relazione dirò qualcosa su ciò che è cambiato e come siamo cambiati noi, intendo noi della Questione Criminale. Con “questione criminale” intendo sia il tema che studiamo, sia la rivista che porta questo nome. È evidente che le due cose sono intrecciate. Ed è evidente che sia una riflessione idiosincratica, perché è in gran parte la mia storia e perché la racconto dal mio punto di vista.

Comincio dal presente, caratterizzato, come dicevo, da guerre, genocidi, e torsioni autoritarie in giro per il mondo. La crisi dell’egemonia neoliberale, un’egemonia durata quaranta anni, si presenta mettendo in piena luce la faccia oscura di questa egemonia stessa. In tutto questo periodo abbiamo descritto, analizzato, riflettuto su questa faccia oscura: lo slittamento dalla questione criminale alla questione sicurezza, dallo Stato sociale allo Stato penale. Nel 1973 i detenuti nelle nostre carceri erano 27.000, oggi sono più di 63.000. Senza contare quelli e quelle in detenzione amministrativa, nonché le persone in esecuzione penale esterna. Tutto questo, lo sappiamo bene, non riguarda solo l’Italia.

Voglio ora dire alcune cose sullo slittamento di cui sopra. Comunque declinata, la formulazione “questione criminale” metteva al centro il sistema di giustizia penale con annessi e connessi (magistrati, giuristi, forze di polizia varie, compresi i rapporti con gli altri sistemi di controllo sociale) e i suoi “utenti” (imputati, condannati, detenuti). Ciò che chiamiamo criminologia critica ha rovesciato lo sguardo fino allora prevalente: da perché e come si delinque a perché e come si viene selezionati come delinquenti, lasciando però intatta la cornice, il frame. In maniera davvero sintetica, potremmo dire che dentro questa cornice siamo passati da una lettura latu sensu socialdemocratica (la ricerca sulle cause della criminalità, da trovare nella povertà, la marginalità, ecc.) a una lettura “radicale” (la ricerca sulle cause e le conseguenze della criminalizzazione, da trovare nelle disuguaglianze di potere, di risorse economiche sociali e politiche). La questione sicurezza si declina invece in larga parte fuori da questo frame, anzi, lo rende osceno, fuori scena. Al centro della questione sicurezza ci sono le vittime, attuali e potenziali, ossia tutti e tutte noi, che devono essere difese dai possibili predatori. È, dunque, il paradigma della difesa sociale all’ennesima potenza che si impone a tutti i livelli, dall’UE al livello nazionale, a quello locale, a quello globale. Da cui panpenalismo, sterilizzazione del territorio urbano, fortezza Europa, guerre. Questo paradigma può avere una sola declinazione, questa, appunto. Il tentativo di riformulare la sicurezza come sicurezza dei diritti di tutti/e non è che un ritorno alla versione prevalente di sicurezza durante i gloriosi trenta, ossia sicurezza sociale: il che mi trova assolutamente d’accordo, avendo scritto già ai tempi che la sicurezza del paradigma sicuritario non può essere che un byproduct di buone politiche sociali. Si dice ancora oggi che la sicurezza non è un tema di destra o di sinistra. Dipende da che cosa intendiamo con sinistra, ma, in generale, la sicurezza come diminuzione del rischio di rimanere vittime di reati e inciviltà è, invece, squisitamente e univocamente un tema di destra. E le destre ne hanno fatto e ne fanno un ottimo uso, vedere da ultimo il caso Kirk , e la repressione e criminalizzazione di ogni tipo di dissenso anche a seguito dell’ultima manifestazione per Gaza. La sicurezza così intesa, insomma, non può mai essere una delle cose di sinistra che Nanni Moretti avrebbe voluto si dicessero.

Le politiche di sicurezza e le retoriche relative vanno di pari passo con l’erosione e la delegittimazione di diritto e diritti, le alimentano e ne sono alimentate. Del resto, il declino del Terzo e della mediazione verticale sono stati uno degli obbiettivi delle politiche neoliberali. Le quali hanno successo, anche perché ciò che siamo soliti invocare come la cultura dei diritti, magari associandola a una supposta, e immaginaria, cultura occidentale, è sempre stata una cultura minoritaria. I diritti umani, come sappiamo, nascono da un genocidio: che siano stati inventati da Las Casas a difesa dei nativi, o da De Vitoria per giustificarne il massacro, versione che preferisco, possiamo comunque considerarli un pharmakon, ossia insieme veleno e cura del loro stesso veleno. Ricordo qui la critica femminista che, prima ancora di quella post e decoloniale, decostruisce il soggetto dei diritti e del diritto della modernità europea, falsamente neutro e universale, e invece storicamente incarnato in un maschio bianco adulto e proprietario (forse anche etero?). Si dà il caso, però, come a suo tempo ha notato Amartya Sen, che sono precisamente i diritti umani a essere richiamati e invocati in giro per il mondo, contro le ingiustizie, i massacri, i soprusi, i genocidi, le guerre, e che, leggendo bene le diverse storie delle diverse società, questa idea può essere rintracciata in molte altre culture. Le quali, tutte, comprese quelle dei cosiddetti popoli originari, sono continuamente prodotti di intrecci e mescolamenti, percorse da conflitti, in una parola costitutivamente multiculturali. Il disconoscimento di questo fatto conduce ai muri, ai confini, alla ricerca di una purezza identitaria, ai genocidi, alle guerre.

La società piatta della retorica neoliberale, e della retorica della sicurezza, in cui ci sono solo buoni e cattivi, vittime e carnefici, ha innescato una deriva identitaria sottesa per l’appunto all’assunzione dello statuto di vittima (meritevole), e una rincorsa a chi è più vittima. Ne viene una frammentazione che coinvolge anche molti movimenti. La moltiplicazione delle sigle, tutte disposte in orizzontale, non può venir superata semplicemente richiamandosi all’intersezionalità, che, così evocata, insieme alla “decolonialità”, mi sembra, perdonatemi, giusto un’ulteriore aggiunta a una lista già lunga. Il problema allora, ritengo, è piuttosto quello di recuperare la dimensione verticale, sfidare la retorica dell’orizzontalità. E, da questo punto di vista, il diritto, anche quello penale, ha un ruolo da svolgere, come dirò più avanti.

Venendo a noi, la Questione Criminale nasce all’incrocio di molti saperi: il diritto, la sociologia, la storia, la filosofia, la psichiatria basagliana, l’antropologia culturale (criminologia non pervenuta), una ricchezza che resiste e anzi forse si accresce nella rivista successiva, Dei Delitti e delle Pene, e, nonostante l’anvurizzazione dell’accademia e il nostro approdo in serie A, continua anche in Studi. Non c’è criminologia critica senza l’apporto di questi saperi. L’anvurizzazione dell’accademia è il risultato degli stessi processi che hanno condotto la questione criminale a slittare nella questione sicurezza, e comporta, come ben sappiamo, specialismo, frammentazione dei saperi, individualismo esasperato, competitività piuttosto che collaborazione: in altre parole, disciplinamento. La libertà di cui noi più anziani abbiamo goduto, magari pagata con un percorso di carriera accidentato per via di scelte di ricerca e di campo eterodosse, la contiguità rivendicata e praticata con i movimenti sociali e politici, la disinvoltura nell’attingere a strumenti teorici e metodologici di altre discipline, la postura critica rispetto alla doxa del momento, fosse pure quella marxista/marxiana, l’indipendenza nei confronti dei nostri stessi “maestri”, il lavoro collettivo raccontano di una stagione fortunata per le scienze sociali e per noi che le praticavamo. L’accademia odierna, irrigidita dagli algoritmi, governata dai numeri, settorializzata e frammentata in mille specializzazioni, funzionali non tanto all’approfondimento della conoscenza quanto alla moltiplicazioni di cattedre (mi vengono in mente, per quanto ci riguarda, per esempio la convict criminology, la southern criminology , la crimmigration , la green criminology e l’ultima di cui ho appreso, la southern green criminology e via spezzettando) scoraggia decisamente la libertà e la curiosità dei e delle ricercatrici, li ingabbia e li disciplina. I prezzi per chi non ci sta sono alti, più alti di quelli che comunque anche noi abbiamo finito per pagare, ma si può fare, si fa anche adesso, come credo la nostra rivista, e il blog che l’accompagna, dimostri. Ciò che è necessario, e ciò che credo abbiamo tentato di fare noi anziani all’epoca, è la messa in discussione radicale dei propri frame cognitivi, una messa in discussione che non finisce mai, che revoca in dubbio ogni certezza apparentemente acquisita, fugge da qualsiasi tentazione identitaria e, in prospettiva e sperabilmente, apre all’ascolto di posizionamenti e modi di pensare diversi. Ciò che è normale trovatelo strano, diceva Brecht (citazione che sta all’inizio del mio primo libretto, La devianza). Il che implica in primo luogo la presa di distanza dal dato per scontato, ciò che è sempre stato così e non può essere che così: la deistituzionalizzazione interna (dei nostri stessi frame cognitivi ed emotivi) insieme a quella esterna (ora va di moda chiamarla decolonizzazione, ma è sempre quella roba lì, fidatevi). Con l’avvertenza che non c’è un fuori dalle istituzioni, un sé “autentico”, o magari una verità “originaria” (compresa quella dei “popoli originari”), cui infine approdare. Questo, da sole/i, ciascuna chiusa nel proprio studio/ufficio/casa/postazione zoom, alle prese con valutazione e autovalutazione, indicatori di performance, competizione esasperata con le proprie colleghe e compagne, frammentazione, non è possibile. O è molto difficile. È una delle sfide cui ci troviamo di fronte.

La giustizia penale che conosciamo è classista, razzista, sessista. Ma quali sono le alternative? A parte l’abolizione della pena carceraria, che credo ci trovi tutti/e d’accordo, nelle nostre riflessioni, analisi, dibattiti e conflitti ne compaiono, fin dall’inizio della nostra avventura, soprattutto due: l’abolizionismo penale e il diritto penale minimo. Dico subito che ambedue sono, oggi in particolare, utopie. Disegnano tuttavia due diversi orizzonti politici, sottesi da due diverse analisi. A me pare che l’abolizionismo penale (e con esso la cosiddetta giustizia trasformativa) condividano alcuni aspetti della razionalità neoliberale, e li coniughino con altri che invece ne sembrano una critica. Tra i primi: l’orizzontalizzazione, la moralizzazione e la privatizzazione del conflitto, tra i secondi: il sogno comunitarista e la romanticizzazione dei popoli “altri” . Una lettura non troppo diversa da questa mia l’ha fatta Massimo Pavarini, nella sua introduzione all’edizione italiana di Limits to Pain, di Nils Christie. L’abolizionismo penale, non a caso di derivazione anarchica, e la cosiddetta giustizia trasformativa, si basano sull’idea, o meglio sull’illusione, che fare a meno delle pene legali voglia dire eliminare le punizioni, come se abolire le norme penali equivalesse ad eliminare le norme sociali. Anche qui vale ricordare che non c’è un fuori dalle istituzioni. Chiunque abbia studiato una qualche scienza sociale sa che viviamo immerse/i in un universo di norme, solo alcune delle quali sono giuridiche (e almeno di queste siamo o potremmo essere consapevoli), accompagnate ovviamente da sanzioni, non necessariamente meno afflittive di quelle penali. Possiamo/dobbiamo abolire il carcere (se ne parla dagli anni 60 del secolo scorso), diminuire drasticamente le fattispecie penali, lavorare per mutare l’attuale senso comune punitivista, tutte cose, in questa temperie culturale, già abbastanza utopistiche, ma abolire il diritto penale a me pare un ritorno a un passato senza garanzie, e ci stiamo già arrivando anche senza abolirlo, grazie anche, paradossalmente, all’inflazione delle leggi penali. Il diritto penale minimo è, se non altro, universalista, figlio di quell’illuminismo oggi sotto accusa da parte di molta letteratura decoloniale (la critica dell’illuminismo, naturalmente, è antica quanto l’illuminismo stesso) e rimanda, appunto, alla tutela di quei diritti fondamentali oggi sotto attacco da parte delle destre di tutto il mondo. Il diritto, anche quello penale, è Terzo, del Terzo c’è gran bisogno, e già è parecchio indebolito, dando luogo, come dice Supiot, a rapporti di tipo feudale. Non mi pare il caso di pensare di abolirlo.

Quanto alla giustizia riparativa, che in Italia si invera nella mediazione penale, a me pare sia poco più (e forse meno) di un pannicello caldo, che non incide affatto sui tassi di detenzione (a fronte, oltretutto, di una moltiplicazione dei reati e un inasprimento delle pene).

In conclusione, avremo un bel daffare negli anni a venire: ciò che chiamiamo questione criminale si sta allargando a dismisura, e così dovrà allargarsi anche il nostro orizzonte. Abbiamo già cominciato, del resto, con il convegno Criminologie a sud, spostandoci da una posizione eurocentrica e angloamericana, continuando in questi giorni occupandoci di guerre e genocidi, disastri ambientali, disuguaglianze planetarie, nonché esplorando la nostra comunanza con il destino di altre specie. Dunque, buon lavoro.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *