Democrazia, Politica, Temi, Interventi

1. Il contesto in cui si sono svolte le elezioni in Calabria è quello semieversivo in cui un governatore, dopo aver ricevuto un avviso di garanzia per corruzione, si dimette per ricandidarsi immediatamente dopo, senza che nessuno glielo avesse chiesto e senza mai spiegare il gesto delle proprie dimissioni. Si tratta di un’aberrazione istituzionale, un modo per sottrarsi alla propria responsabilità politica e giudiziaria, per delegittimare la magistratura e chiedere invece il nullaosta del popolo, anzi dei calabresi. Il silenzio acquiescente con cui la classe dirigente calabrese avalla questo colpo inferto alle istituzioni ne mostra il declino morale e intellettuale.

All’opposizione, colta alla sprovvista, vengono lasciati quarantacinque giorni per organizzarsi, presentare programma, liste e candidati.

Le date non sono casuali. Le elezioni si tengono ai primi di ottobre, all’indomani della partenza di lavoratori fuorisede, docenti, studenti – più di trecentomila persone, il cui voto avrebbe pesato e che invece non hanno alcuna agevolazione per rientrare.

2. Prima che ciò accadesse avevo preso parte ad alcuni incontri promossi a Riace da Mimmo Lucano dove, oltre a Pasquale Tridico, erano presenti esponenti della sinistra di diverse aree, da AVS ai 5S, da Rifondazione a Demos (non il PD). Mi era sembrato di intravvedere la base per un progetto di sinistra sociale, indispensabile per la Calabria, un progetto ovviamente allo stato nascente, che avrebbe dovuto poi essere articolato e sviluppato. In quelle riunioni mi era sembrato di scorgere un nuovo laboratorio politico dove, coinvolgendo il PD, sarebbe stato forse possibile un passo costruttivo verso una coalizione di centrosinistra.

Quando Pasquale Tridico, dopo una lunga esitazione, ha sciolto le sue riserve, ho salutato con favore questa decisione, come hanno fatto molti altri a sinistra. Mi è parso che ci fosse la possibilità di una convergenza su un progetto politico che – in pochissimo tempo – si articolava in alcune proposte. Il nome di Tridico sembrava risvegliare entusiasmo nel rassegnato e disilluso popolo calabrese, quasi che la sua figura potesse riaccendere antiche speranze. In politica non si può sottovalutare questo elemento, soprattutto dove la politica è ridotta a mera amministrazione, e per di più esercitata nel segno del malaffare. Più di tutto avrei voluto portare speranza e soprattutto fiducia nella possibilità di un cambiamento, che passava anzitutto nella risposta a un gesto semieversivo. E certamente all’inizio c’è stato uno slancio di ribellione, un soprassalto di dignità, percepibile ovunque. Questo ci ha evidentemente fuorviato.

Il nodo politico sta nello scarto tra l’attesa e le proposte concrete. Il pochissimo tempo, ma anche la difficoltà di mettere insieme impostazioni di diversi partiti, non hanno aiutato. Il reddito di dignità ha finito per diventare il cavallo di battaglia e per oscurare gli altri punti del programma. Molto malanimo si è creato intorno a questo punto. Tridico non è riuscito a far passare il suo discorso che, non riducibile al mero assistenzialismo, sta nel denunciare la debolezza strutturale della Calabria, non paragonabile alle altre regioni italiane, e nel sottolineare l’impossibilità di farla rientrare in un piano di capitalismo concorrenziale. Di qui l’esigenza di progettare un intervento dello Stato a partire dai fondi europei. Per una serie di motivi, non da ultimo comunicativi, questa impostazione non è stata compresa.

In 45 giorni si possono chiamare gli elettori a reagire a una manovra al limite della costituzionalità e della democrazia, ma diventa arduo convincerli a cambiare prospettiva. Tanto più se poi i punti del programma sono pochi, controversi, ripetuti ossessivamente. E se non si crea una visione di progresso effettivo, che vada oltre il sostegno sociale e la cura del territorio. Qui vanno rilevati i limiti non solo della coalizione, ma anche di coloro che l’hanno guidata.

3. Sapevo che, come molte altre parti del sud, la Calabria è terra di clientele. Chi gestisce denaro pubblico gestisce favori. Non mi era però chiara la capillarità del voto fosse personale, basato cioè su una relazione di conoscenza nel migliore dei casi, o di subordinazione nel peggiore. Mi è capitato più volte di sentirmi dire “peccato che siete venuta tardi; ieri sono già passati altri e ho impegnato il mio voto”. E questo viene detto in tutta onestà, come se fosse ovvio. Il voto non è dato per motivi politici, per la parte che il candidato rappresenta, per le idee e gli ideali che incarna al di là della sua persona. Ciò accade solo raramente. Varrà per le elezioni politiche o per le europee – certo non per le regionali. Il voto impegnato, concesso per legami di parentela, di conoscenza, di clientela, è al contempo una prova di fedeltà e un lasciapassare per l’appartenenza.

La ragione profonda è che in Calabria prevale l’oikos e la polis si è perduta. Il concetto greco oikos vuol dire famiglia, casa, clan, patriarcato, legami di subordinazione. Noi viviamo ovunque il ritorno all’oikos e la perdita della polis, cioè del legame paritario tra cittadini e di quella seconda vita di cui parla Hannah Arendt. Ma nella Calabria odierna tutto ciò ha una forma parossistica: domina l’oikos, mentre prevalgono i tentativi di accedere alla oikonomia globale. Proprio lì dove la polis è nata, sembra oggi scomparsa.

Si può parlare di mero astensionismo? Non lo credo. Non solo perché è oltrepassata ogni soglia: più della metà, cioè il 56,83% non è andata a votare. Si tratta di una depoliticizzazione senza precedenti, un fenomeno che dilaga ovunque, ma che in Calabria, dove l’oikos è radicato e ancestrale, ha un rilievo che non può essere trascurato o bollato come astensione. La maggior parte si chiama fuori, non si considera membro di una comunità politica – non solo durante le elezioni. Si percepisce invece come membro di una famiglia o di quella famiglia allargata che è il paese o il territorio. Il voto, o meglio, il non-voto certifica questo. Ecco perché l’astensionismo non è quello di una volta, non è solo rinuncia e disimpegno, né tanto meno protesta. È la rivendicazione esplicita di essere fuori e voler restare fuori. Chi non vota non prova più imbarazzo a confessarlo. Al contrario, lo sbandiera con fierezza e sembra volersi difendere, non senza qualche punta di aggressività, da chi minaccia di contaminarlo con la politica. Come se appunto la politica fosse ormai solo contaminazione. Per quanto questo sia triste e avvilente, occorre dire che ciò riguarda molte persone giovani.

4. Un’osservazione a sé merita il discorso identitario. Mi è capitato in questi giorni di leggere espressioni come “i candidati ‘scesi’ da fuori”. Ma già durante la campagna elettorale si era passata al vaglio l’autentica appartenenza alla Calabria di Tridico e degli altri. Sono arrivati a calcolare l’indice di calabresità. Se ti sei mosso dal suolo luogo originario, se sei stato qualche anno fuori, o se hai addirittura la residenza altrove, hai già perso la purezza dell’autoctonia. Non sei un vero calabrese e quindi – con un salto mortale – non sei titolato a nessuna funzione politica. Tridico non va bene perché è “sceso” da fuori; Occhiuto va bene perché ha un alto indice di calabresità. Il che vuol dire che il candidato ideale sarebbe quello che non si è mosso dal paese, che è sempre rimasto lì, fedele alle proprie origini, alla terra-madre, alla legge dell’autoctonia. Purtroppo il mito dell’autoctonia è il più potente mito fascista (e trova la sua forma parossistica nel sangue e suolo del nazionalsocialismo). Ecco perché questi criteri di appartenenza identitaria fanno letteralmente inorridire, tanto più se vengono ostentati e rivendicati da chi dice di essere di sinistra. Poi non bisogna meravigliarsi se la Lega in Calabria è arrivata quasi al 9,40%. Nessuno è autoctono e nessuno può misurare il fantomatico indice di calabresità. Ciascuno ha un proprio peculiare rapporto con la Calabria che va rispettato. E se c’è una terra fatta di alterità, la cui ricchezza sta proprio nella contaminazione, questa è la Calabria.

Perché chi ha vissuto alcuni anni fuori dovrebbe avere meno titolo a governarsi, o addirittura a candidarsi? Al contrario, chi viene da fuori ha molto probabilmente una prospettiva altra, diversa, ha acquisita quell’estraneità che gli permette di capire come eventualmente risolvere problemi che sono incancreniti. Credo che alcune candidature, tra cui la mia, avessero questo significato. E rappresentassero anche il tentativo di ricongiungere la Calabria al resto del paese non nel segno della omologazione e del colonialismo, ma al contrario nel segno del rispetto delle caratteristiche della regione, della sua storia e delle sue difficoltà. Sarebbe stato perciò anche il tentativo di riportare la questione meridionale – e in particolare la questione calabrese – sotto i riflettori dell’attenzione nazionale. C’è infatti ormai una rimozione sistematica, una sorta di negazionismo, che s’interrompe solo per dare spazio al dileggio e all’immagine caricaturale.

5. Non credo che da una analisi del voto in Calabria si possano trarre con nonchalance conclusioni sul piano nazionale. Lo hanno fatto in molti in questi giorni. A mio avviso sbagliando. Troppe sono le peculiarità che ne fanno un caso a sé. Ma è pur vero che emergono con chiarezza alcuni fenomeni peraltro già noti: la pressoché totale assenza dei partiti sul territorio, la mancanza fisica di luoghi di incontro e dibattito, dove ci possa essere partecipazione e sviluppo di idee, l’eclissi della comunità politica. Le reti civiche, le associazioni culturali, le organizzazioni di volontariato, in genere poco presenti, non possono sopperire al venir meno del legame politico con tutte le ripercussioni nefaste che ciò può avere.

Come si vede dai risultati, il voto ha un impianto feudale. Viene votato il sindaco che, amministrando il potere sul territorio, durante le elezioni passa a riscuotere l’obolo del consenso, un consenso che pur massiccio, non oltrepassa i confini del feudo. Così si passa di feudo in feudo. E questo vale purtroppo anche per chi opera nel volontariato, nelle associazioni e nelle reti civiche. La politica non può limitarsi a ciò, dato che il suo primo compito è raccordare, creare legami e coordinamento. È bene che sia legata al territorio, ma non deve restare abbarbicata e ferma lì.

6. L’esperienza della mia campagna elettorale, su cui avrò modo di riflettere nel futuro a mente più fredda, va vista su questo sfondo. Dato che io, pur provenendo da lì, ero però “scesa” da fuori, ho avuto anzitutto la difficoltà di dover giustificare continuamente la mia presenza.

La maggiore delusione sta nella scoperta della mancanza pressoché totale di una rete politica. Se la presenza dei partiti è fantasmatica, non si hanno basi da cui partire. Questo vale ovunque, ma è eclatante soprattutto a sud, con l’eccezione del capoluogo, dove esiste un agguerrito circolo, per quanto piccolo, di militanti.

Mi sono inoltre presto resa conto, soprattutto a nord, che non vi era collegialità né intenzione di collaborare per un buon risultato comune. Tutti contro tutti – dentro e anche e soprattutto fuori. Va infatti sfatata la leggenda della coalizione unitaria che io stessa, all’inizio, avevo contribuito a delineare. Ci avevo creduto, perché mi sembrava che ci fosse una convergenza. Ciò era stato salutato da molta gente con favore. E invece ho dovuto presto ricredermi per via del comportamento di partiti che avrebbero dovuto mantenere saldo il legame con gli altri e che invece hanno dato prova del contrario. Potrei raccontare episodi incresciosi e imbarazzanti dove esponenti locali del PD, talvolta contro la volontà dei dirigenti nazionali, hanno palesemente danneggiato l’immagine già pericolante della coalizione organizzando incontri all’insegna della separazione, persino dello scontro.

Una campagna elettorale nel territorio a più alto astensionismo, dove interi paesi non votano, e dove lo scampolo dei voti è già impegnato nel clan della clientela, è un’impresa paradossale, quasi stravagante. Pur consapevole di ciò, avevo tuttavia fatto affidamento su due elementi che via via sono venuti meno. L’incandidabilità di Mimmo Lucano ha indubbiamente eliminato l’aura di cui gode ancora Riace, dove – occorre dire – il risultato è stato tanto eclatante quanto disastroso: al centrosinistra il 29,55 e al centrodestra il 70,07 (primo partito FI 28,49, seconda la Lega 18,69). E su questo esito saranno necessarie riflessioni a parte, dato che quel modello non sembra far più presa nel territorio. Il secondo elemento è la rete di persone, collettivi e movimenti della sinistra storica, che io conosco da decenni e su cui facevo affidamento. Fuori o dentro i partiti, il più delle volte a titolo personale, molte di queste persone si sono date molto da fare e gliene sono grata. Ma non c’è stato quel risveglio della sinistra nascosta e diffusa che mi sarei augurata. Non perché sopravvaluti il momento elettorale – anzi! Ma perché queste elezioni segnavano simbolicamente una svolta. La candidatura – almeno la mia – era anche un messaggio, il segnale di un allarme. Siete, siamo sull’orlo del baratro. Non gettiamo la corda a chi ci tira ancora più giù.

Mi sono trovata da sola in viaggio con l’utilitaria presa in affitto guidando tra la 106 jonica e le strade impervie dell’interno. Spostamenti difficili, tragitti complicati e perigliosi. Sin dall’inizio ho deciso di andare dove di solito non si va, anzitutto nei paesi dell’Aspromonte. Mi è parsa da subito quasi una violenza tenere i discorsi di rito: ecco il programma – punto uno, due, tre – con tanto di sigle. Mi sono messa in ascolto della gente – gente umile, povera, anzi poverissima, rassegnata, disillusa. Ho ascoltato per ore e ore quell’altra Calabria che non trova rappresentanza e si chiama ormai fuori. Ogni sera tornavo con le immagini di corpi sofferenti, vite ripiegate su di sé. Un giorno cercherò di raccontare tutta quella povertà che il resto del paese fa finta di non vedere. Il mio ascolto produceva quasi sempre uno slancio: di risentimento, rabbia, ma poi anche di speranza. Avere qualcuno che ti sta a sentire! Tra questo popolo dimenticato dalla sinistra mi sono sentita e mi sento a mio agio. Mai ho percepito però tanto profondo lo iato. Per recuperare il loro voto, la loro fiducia, non bastano i pochi giorni della campagna elettorale. Eppure, se si guardano i risultati, in quasi ognuno di questi piccoli paesi io ho preso voti. Sono quelli che apprezzo di più, che mi hanno commosso e mi danno da riflettere. È come un segnale: tu ci hai ascoltato e noi ti abbiamo ascoltato. Abbiamo colto quel piccolo risveglio che ci hai portato.

L’altro aspetto bello della mia campagna elettorale sono stati i giovani che prima mi hanno aiutato e poi, sempre più coinvolti, sono diventati protagonisti. Basta davvero poco per dare loro lo spazio che meritano. Mi hanno impressionato le loro capacità, il loro impegno civico. È da qui che deve nascere la nuova classe dirigente, non dai soliti circuiti di potere e dai ceti autoreferenziali.

Terra di matriarcato la Calabria non premia le donne. O meglio, le premia nell’oikos, non nella polis. Destreggiarsi nello spazio pubblico è molto difficile, a meno di non seguire modelli maschili, di non inserirsi in schemi predisposti del potere. Nel brevissimo tempo della campagna elettorale per me non è stato facile destreggiarmi fra padroni, padroncini locali e cittadini primi. Il che non toglie che molto amici e compagni, a cui sono legata da una profonda stima, non mi abbiano appoggiato. Il voto è una prova anche sotto questo aspetto. Ho avuto il consenso del margine – un margine fatto spesso di donne di ogni età che, anche da lontano mi hanno sostenuto e incoraggiato. È probabile che come donna, in un’altra regione, avrei avuto ostacoli analoghi, ma non così ardui.

7. Chi fa sbaglia e chi non fa si prende poi la soddisfazione della critica. Ben venga! È necessaria. Non mi piace però quando scade nei toni o quando non fa che riesumare vecchi luoghi comuni, ad esempio, quello dell’indistinzione tra destra e sinistra (lo scontro che non ci sarebbe stato), oppure quello dello scollamento tra élite e popolo, della sinistra che non è più sinistra, ecc. Li conosciamo già – così non si va molto avanti.

Viene da chiedersi: ma dove erano questi fieri censori durante le elezioni, e soprattutto prima? In che modo vecchi e nuovi critici hanno articolato il malcontento in possibilità di riscatto? Quale contributo hanno offerto per mettere la Calabria al centro dell’attenzione? E che cosa propongono ora? Spiace dirlo, ma molte critiche che si leggono qui e lì non sono che le solite lamentele di chi si piange addosso – e di queste lamentele non se ne può proprio più. Alla fine non fanno che acuire frustrazione e senso di impotenza, cioè assecondare lo status quo.

Le sconfitte bruciano. E in questi ultimi anni, in cui è suonata l’ora della destra, della spietatezza, della guerra e del ripiegamento, le sconfitte sono andate ripetendosi. Per quel che mi riguarda, e nei limiti delle possibilità, continuerò a oppormi in ogni frangente senza sentirmi mai definitivamente sconfitta. In ogni vittoria c’è una sconfitta e in ogni sconfitta c’è una vittoria. Solo le banalizzazioni di questo tempo inducono a separarle nettamente. Anche questo è mancanza di politica.

La mia vittoria nella sconfitta sta nella rete di persone che ho incontrato e conosciuto nel viaggio elettorale. Ripartirò da coloro che, che in posti diversi e disparati, mi hanno votato. Ma anche da tutti coloro che, pur non votandomi per vari motivi, hanno mostrato interesse e partecipazione.

Non so da dove ricomincerà la sinistra in Calabria. Spero non dal solito parlarsi addosso, imputare tutta la colpa agli altri (ai candidati sbagliati, agli intellettuali inutili), ripetere i vecchi slogan, richiamare alle buone cose concrete. Le responsabilità sono molte. La prima sta nel non aver reagito con la dovuta energia e fermezza alla violazione istituzionale compiuta dal governatore uscente. Come non è stata colta prima la gravità del momento, così adesso si rischia di non considerare la portata di ciò che è accaduto. La sconfitta non è solo numerica, ma politica, morale e culturale.

C’è una Calabria che si è riconosciuta nell’Occhiuto di turno. Magari sarà lusingata di sapere che Catanzaro ospiterà il prossimo Capodanno RAI – e giù di lì. Questa Calabria ha scelto i benefici e vantaggi effimeri della sottomissione. Non tutto può essere sempre spiegato con la corruzione dell’élite, che pure si è andata affinando e ha raggiunto vette senza precedenti. Occorre dire tuttavia che dall’altra parte c’è subordinazione, sudditanza, resa – al punto che diventa difficile parlare di una cittadinanza in grado di pensarsi come soggetto politico.

La sinistra deve ripartire da qui, dalla ricostruzione della cittadinanza, dai legami politici. Il che vuol dire tornare sui territori – non semplicemente nei capoluoghi, ma nelle aree interne e marginali abbandonate da decenni. E muovere dall’ascolto dei bisogni singoli per articolarli in una visione complessiva. Per questo serve maggiore radicalità e più coraggio.

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